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Turisti, per caso ebrei
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Domenica 2 agosto la polizia iraniana ha arrestato alla frontiera col Kurdistan iracheno tre giovani americani - indicati dai nostri media come turisti - che avevano sconfinato per errore in Iran durante una loro escursione. Ovvia l’ansia dei media americani. E’ facile immedesimarsi in tre turisti, che stavano facendo una serena vacanza nel pacifico Kurdistan iracheno, per scoprire cascate e  fotografare paesaggi montani con il loro zaino sulle spalle, incappati nelle mani del feroce regime iraniano. Ahmadinejad, si sa, è il nuovo Hitler.

Per caso o disdetta aggiuntiva, i tre sono tutti ebrei. Si tratta di Shane Bauer, 27 anni, Sarah Shourd, 30, e Joshua  Fattal, un altro ventisettenne.

Tutti e tre freschi di laurea a Berkeley, California, avevano deciso di passare un anno intero a gironzolare per il Medio Oriente: e mica nelle località balneari del Mar Rosso. Tutti e tre hanno sui passaporti il visto della Siria e dell’Iraq. Come si sa, ultimamente l’Iraq è una meta molto affollata, anche se non ambita, da turisti americani. Per di più, i tre hanno scelto di passare le vacanze nel Kurdistan, la provincia secessionista dell’Iraq (una secessione incoraggiata dai turisti israeliani che vi si sono accampati), che gode di una speciale serenità grazie alla milizia locale (peshmerga) addestrata e armata da Israele, e alla massiccia presenza di osservatori turistici del Mossad.

turisti_per_caso_2.jpgInteressante il curriculum dei tre. Shane Bauer ha una super-laurea in «studi su conflitti e pace»  presa a Berkeley, e parla correntemente l’arabo. Per di più, lavora come giornalista in un’agenzia chiamata New America Media.

«Era lì per coprire le elezioni in Kurdistan», dice Sandy Close, direttrice dell’agenzia di stampa. Dunque solo turista non era.

«E’ un viaggatore sperimentato, non uno di quelli che scendono al Ritz, ma uno che va con lo zaino e spende poco, da vero giornalista freelance. Ha una grande passione di esplorare la regione, dove la sua facilità nella lingua araba e la sua conoscenza della storia e della cultura del Medio Oriente gli consente di andare dove giornalisti professionali non osano arrivare».

Infatti anche il vostro cronista ha incontrato in zone di guerra simili «giornalisti», giovanissimi, che lavoravano per agenzie di stampa ignote, ma erano più bravi di noi tutti professionisti: marciavano per ore senza stancarsi, al bisogno dormivano per terra, avevano tutto quel che gli occorreva nel loro zaino da turisti, sapevano tratteggiare piantine e carte sulle quali erano in grado di indicare le posizioni, poniamo, dei serbi e quelle dei bosniaci a Sarajevo, con una precisione che ci lasciava ammirati e stupefatti. Avevano quella marcia in più, da noi giornalisti invidiata, che viene dall’addestramento militare.

Di recente il vostro cronista ha rievocato uno di quei giornalisti speciali da lui conosciuto in Croazia: Eduardo Flores Rosza, ebreo per caso, un inviato di guerra ritrovato a fare il comandante di un plotone croato negli anni ‘90, e qualche settimana fa eliminato in Bolivia  dalla polizia che lo sospettava senza fondamento di voler organizzare un golpe contro il presidente locale, inviso agli americani.

Ma Sandy Close dice: «Benchè Bauer conosca l’arabo al punto da potersi fondere nella cultura araba, con la gente araba sul terreno - ha una vera passione per l’interazione con altre culture - Bauer non  conosce il farsi. Sicchè non credo fosse interessato ad andare in Iran».

Sicuramente no: là, nessuna «interazione con la cultura locale», al massimo qualche cartina tratteggiata a matita sulle posizioni nemiche.

Quanto a Sarah Shourd, la compagna di Bauer e sua girlfriend, anch’essa è una linguista e «aspirante giornalista»: per esempio, l’anno scorso ha fatto servizi per New America Media, sul terreno, dalle alture del Golan. Ossia dalla zona che Israele ha preso alla Siria. Come americana, Sarah ha così potuto ottenere il visto siriano - che come israeliana non avrebbe potuto prendere - sicchè è stata in grado di scrivere articoli dalle due parti delle posizioni. In un sito internet dedicato ai viaggi avventura, Sarah Shourd ha postato il suo profilo: dove si definisce una «insegnante-attivista-scrittrice californiana attualmente basata in Medio Oriente».

Il terzo turista, Joshua Fattal, ha una laurea in politica ed economia ambientale; ragion per cui ha lavorato per una ONG, una organizzazione non-governativa, la «Aprovecho» di Cottage Grove, Oregon, che insegna alla gente arretrata a migliorare il suo stile di vita ambientale. Non si creda però che la ONG di Fattal sia di quelle che vanno in Paesi interessanti a organizzare rivoluzioni colorate. Fattal ha solo «un amore sconfinato per i viaggi e la cultura, è un intellettuale», secondo il capo della Aprovecho, che si chiama Jeremy Roth, ebreo per caso.

Dello spensierato gruppetto di turisti per caso, per caso visitatori della zona di confine più delicata del momento, faceva parte anche una quarta persona: Shon Meckfessel, che è rimasto in albergo a Sulaimanya, città curda, perchè non stava tanto bene. E’ stato in contatto con gli amici col cellulare per tutta la mattinata e il pomeriggio, quando i tre escursionisti gli hanno comunicato di essere «circondati da solati iraniani». Tutti avevano dei bellissimi telefonini satellitari, con posizionatore GPS: un oggetto che tutti i turisti devono avere, quando visitano i confini tra Kurdistan e Iran, dove Vodafone non prende e per Tim non c’è campo.

Anche Meckfessel è un linguista, uno specialista nell’insegnamento di inglese «a parlanti altri linguaggi». Sicuramente nel Kurdistan secessionista, sorvegliato e assistito da Israele, c’è un gran bisogno di simili insegnanti. Dopo il casuale arresto dei suoi tre compagni per caso, il giovinotto ha  avuto un incontro con un diplomatico consolare USA, e poi ha telefonato alla nonna in California: «Mio nipote mi ha detto di non parlare coi giornalisti», ha spiegato la vecchia signora Irene Meckfessel. Non parlare coi giornalisti, chissà perchè.

Iraj Hassanzadeh, vice-governatore della provincia iraniana (il Kordestan iraniano), ha confermato  all’agenzia Fars che i tre sono sotto interrogatorio da quattro giorni, «e non hanno ancora confessato». Ma cosa dovranno mai confessare, poveri figlioli?

Analista strategico per caso

Afghanistan: «Siamo finiti dentro una  guerra», titola stupefatta La Stampa del 5 agosto. Anzi, lo stupefatto - otto anni dopo l’invasione dell’Afghanistan - è il commentatore strategico di punta del giornale torinese, il celebre Vittorio Emanuele Parsi. Questo personagio lo conosco. Facendo parte della nidiata dei giovinotti del cardinal Ruini, scriveva le sue analisi strategiche su Avvenire, ed è ancora docente di relazioni internazionali alla Cattolica di Milano. La qualità del personaggio è tutta in questo articolo.

«Non è per nulla accidentale», ci informa, «che il contingente italiano sia sempre più attivamente coinvolto nei combattimenti».

Parsi, grazie alle sue profonde conoscenze, è in grado di rivelarcene il motivo: «In Afghanistan, e non da oggi, la situazione è tale da richiedere non più peace-keeper, ma peace-warrior. Servono cioè truppe che combattano per riportare la pace nel Paese e non per mantenerne una ormai inesistente».

turisti_per_caso_1.jpgEcco cosa significa avere la qualità di analista strategico; che si è in grado di prevedere gli eventi. In fondo, le truppe USA hanno invaso l’Afghanistan solo dall’ottobre 2001. Otto, anzi quasi nove anni dopo, il Parsi ci dice - a noi, addormentati in piedi - che  là c’è una guerra, non un’operazione di mantenimento della pace. E si accorge pure, il Parsi, che la guerra sta andando malissimo per l’occupante.

Non basta: spinge il suo lucido coraggio ad ammettere che gli americani «sono tra i principali responsabili della situazione in Afghanistan». In particolare, il Parsi denuncia «le avventate scelte dell’Amministrazione Bush».

Finchè Bush era al potere alla Casa Bianca, non mi risulta che V.E. Parsi abbia mai scritto che stava facendo scelte sbagliate; anzi le ha sempre difese, anche in dibattiti televisivi.

E’ così che si diventa un analista strategico rispettato, in Italia: mai farla controvento. Mai anticipare una critica al potere del momento. Il sottoscritto, vostro modesto cronista, quando era ad  Avvenire, non ebbe mai il permesso di scrivere una riga sulle «avventate scelte dell’Amministrazione Bush», quando Parsi le condivideva e le giustificava. Anzi, è stato licenziato anche per questo; a dire la verità in anticipo, si diventa sospetti, in Italia, di partito preso. Il sottoscritto, che aveva previsto (come migliaia di persone mediamente informate) il  prevedibilissimo disastro afghano, non avrà mai una cattedra alla Cattolica, mai sarà chiamato in talk-shows TV, mai avrà una colonna su La Stampa. E questo dimostra che Parsi ha ragione.
Giovani, fate come lui.

Ovviamente, Parsi ammette (otto anni dopo) che l’Afghanistan è un disastro, solo per incitarci a fare fino in fondo la guerra in cui siamo capitati: mentre gli americani e gli inglesi combattono, gli italiani, dice, sono tra quelli che «stanno a guardare, magari nel frattempo discutendo di ‘soluzioni politiche’, profilando ‘exit strategy’, inseguendo la chimera dei ‘talebani moderati’».

No, bisogna morire, dare alla guerra «più perdite di quelle fin qui subite. Gli esperti ci dicono che l’opinione pubblica non è ancora preparata a una tale eventualità. Sarebbe opportuno che il governo si dedicasse a colmare questo gap, e, almeno in questo caso, non si limitasse a leggere i sondaggi, ma li sfidasse».

Ciò perchè «è una sfida alla quale l’Alleanza Atlantica non può sottrarsi». Insomma il Parsi ci rivela che, ora, non siamo in Afghanistan per dare agli afghani libere elezioni e togliere alle donne il chador, ma per salvare la NATO, messa in pericolo dal suo servilismo a Bush. Se perdiamo, la NATO si sfalda: è questa la tragedia che dobbiamo scongiurare col sangue.

Dunque, più truppe per l’Afghanistan.

Guarda com’è strano il caso: ciò che chiede Parsi è esattamente ciò che chiede da qualche settimana il generale McChrystal, mandato da Obama a vincere in Afghanistan: 20-30, magari 40 mila truppe in più. Non bastano i 62 mila soldati USA e i 39 mila soldati della NATO.

turisti_per_caso.jpgDel resto, anche l’elenco degli errori americani non è farina del sacco di Parsi: se osa farlo, è perchè l’ha fatto prima di lui Anthony Cordesman, analista strategico del CSIS (Center for Strategic and International Studies), che ha voce in capitolo a Washington. Cordesman ha passato un mese in Afghanistan, ed ha scritto un rapporto ustionante sugli sbagli americani (1).

Soprattutto, Cordesman denuncia: sono state nascoste ai governanti le difficoltà concrete, ci si è crogiolati in previsioni ottimistiche, mandando rapporti edulcorati.

«Se restiamo chiusi in un clima in cui il nostro ambasciatore e il nostro comandante sul terreno non possono fornire valutazioni oneste, chiedere le risorse di cui hanno bisogno e far presenti onestamente i rischi, noi perderemo».

Aggiunge Cordesman:

«Questa guerra non è condotta da una strategia, ma da anni di negligenza e d’insufficienza delle risorse. Sette anni dopo l’inizio, colpisce vedere come le persone continuino ad agire come si si fosse al primo anno. Non c’è unità di sforzo, non un piano di campagna comune. Quello che dovrebbe essere lo sforzo integrato civile-militare, con la priorità di vincere la guerra sul terreno, è un pasticcio disfunzionale centrato su Kabul e bloccato dalle divisioni burocratiche. A cui si aggiunge la corruzione afghana, le tensioni tra i membri della NATO, i caveat individuali dei Paesi membri».

E’ esattamente ciò che dice Parsi su La Stampa:si vede che ha letto il rapporto Cordesman, e si è sentito autorizzato ad avanzare le stesse critiche. E’ così  che si mantiene la cattedra universitaria.
Il generale Shinseki, capo di Stato Magggiore USA che disse le stesse cose a Rumsfeld otto anni fa (disse che occorrevano 500 mila uomini) ha perso il posto. Mai avere ragione troppo presto.

Cordesman dice anche: «Occorre prendere questa guerra sul serio. Mi ha colpito il numero di persone che m’hanno detto che non si deve chiamare questa una guerra. Sembra che “conflitto” sia la parola politicamente corretta in Europa. Ma non si combatte la guerra come una fiction».

E Parsi? Esegue l’ordine ricevuto, e su La Stampa esorta: bisogna dirlo, ormai è guerra, basta chiamarla «conflitto». E’ in questo modo che, da commentatori del modesto Avvenire, si diventa commentatori di punta de La Stampa: attaccando l’asino dove vuole il padrone.

Ora, siccome il vostro modesto cronista non aspira a La Stampa, nè avrà mai una cattedra alla Cattolica, vi regala una previsione, di quelle che Parsi non è in grado di fare perchè ci tiene alla carriera: la guerra in Afghanistan è perduta. Quella che Cordesman raccomanda è la stessa, fatale «escalation» già vista, e perdente, in Vietnam. Ossia aumenti di truppe e di potenza di fuoco graduali, ma sempre troppo poco e troppo tardi rispetto agli eventi sul campo.

Lo «U.S. Army-Marine Corps Counterinsurgency Field Manual (University of Chicago Press, 2007)», ossia il manuale di controguerriglia USA, scrive:

«Mantenere la sicurezza in un ambiente instabile richiede vaste risorse… Per contro, un piccolo numero di insorgenti, ben motivati, con armi semplici e persino con mobilità limitata, possono minare la sicurezza in vaste zone. Per cui le operazioni di contro-guerriglia esigono un’alta percentuale di forze rispetto alla popoalzione protetta».

A quanto ammonta la percentuale di forze necessarie?

Secondo il Manuale dei Marines, un soldato occidentale, o afghano-collaborazionista, ogni 50 civili. Data la popolazione afghana, ciò significa 650 mila soldati o poliziotti, occidentali e locali. Ma vogliamo essere ottimisti, e presumere che solo metà del territorio afghano richieda operazioni di contro-guerriglia? Occorrono pur sempre 300 mila soldati sul terreno. E siccome «l’esercito afghano» e la «polizia afghana» di Karzai è meglio non contarli, perchè sono pronti a passare dall’altra parte, o sono già segretamente dalla parte dei Talebani, occorre che i 300 mila uomini li dia la NATO.

Ora, come abbiamo visto, i soldati occidentali in Afghanistan sono meno di centomila. E in base alle richieste di McChrystal, se Obama vorrà e se il potere politico e l’opinione pubblica non si ribellerà, arriveranno a 162 mila nel 2010. Sempre la metà dello stretto necessario.

E’ questo il concetto di «escalation», già visto all’opera in Vietnam. Troppo poco e troppo tardi. In Vietnam, non potendo difendere i villaggi ad uno ad uno, gli americani crearono i villaggi trincerati, con i sudvietnamiti in auto-difesa: chiameteci, dicevano gli americani, e noi arriviamo con gli elicotteri. Arrivavano, di solito, quando i vietcong avevano ammazzato già il capo-villaggio e tutti i poveri sud-vientamiti che avevano creduto alle promesse USA.

In Afghanistan è lo stesso, anzi peggio: gli americani conquistano un villaggio, ci restano qualche giorno, poi se ne vanno. E i Talebani tornano a controllare il villaggio.

Ecco qui la sconfitta prevedibile. Certo, i Talebani non possono «vincere» gli USA in termini classici: non possono bombardare New York sui tappeti volanti, costringendo Obama alla resa. Ma possono continuare a controllare i villaggi, e ad usurare le truppe occupanti. Siccome sono già passati otto anni di guerra (Cordesman dice sette), il fattore tempo ha un suo peso. Come dice il già citato manuale dei Marines:

«Le operazioni  protratte di controguerriglia sono difficili da sostenere. Lo sforzo richiede una ferma volontà politica e molta pazienza da parte del governo, della sua popolazione, e dei Paesi  che danno supporto».

Come già accadde in Vietnam, è la «volontà politica» dell’invasore che verrà meno. Della sua opinione pubblica, perchè sette o otto anni di guerra coloniale, senza una chiara prospettiva di vittoria, sono già passati, e la prospettiva è di altri sette-otto anni con 162 mila truppe, e spese immani a carico di una popolazione che già sopporta una crisi economica peggiore del 1929-39.

E Parsi? Come da istruzioni ricevute, invita il governo italiano a indurire la sua volontà politica come l’acciaio, a «sfidare i sondaggi», a combattere e morire di più per l’Afghanistan. Il governo Berlusconi, figuratevi. Lo sa anche lui che la guerra è perduta, e la NATO è alla frutta. Ma almeno sa che la sua cattedra è salva, e il suo posto come commentatore alla Stampa non è in pericolo. 

Seguite il suo esempio, giovani. Se volete far carriera, mai aver ragione prima, mai dire la verità se non autorizzati. Magari potrete diventare analisti strategici, per caso.




1) Da L’Occidentale, giornale neocon-berlusconiano: «Anthony Cordesman, tra i massimi esperti americani in materia di strategie militari e geopolitiche, ha pubblicato per il Center for Strategic & International Studies (CSIS) di Washington i suoi ultimi studi sulla situazione afghana. Ne emerge un quadro sempre più completo sui buoni propositi dell’amministrazione americana, gravemente vanificati, però, dai propri errori. Sullo sfondo campeggia la presa di coscienza di come, passata la solidarietà dell’Europa agli USA dopo l’11 settembre, rimanga ora, invece, una mancanza d’affidabilità dei governi europei (con esclusione della Gran Bretagna) verso gli impegni presi come alleati nella guerra al terrorismo jiahdista e talebano. I molteplici dossier pubblicati dal CSIS sull’argomento non lesinano denunce sull’ambiguità e l’inefficienza dei vertici pakistani, sul ruolo del narcotraffico, sulla corruzione diffusa negli apparati afghani, sulle difficoltà tribali e topografiche della regione, ma sono altresì assai critici con le decisioni strategiche e politiche dell’Amministrazione statunitense, nonché sulla conduzione degli interventi nel Paese (...).
«L’influenza dei gruppi Taliban e dei signori della guerra, come Hekmatyar e Haqqani, è costantemente in ascesa anche nei territori FATA (Federally Administered Tribal Areas) e del Belucistan pakistano, mentre sempre più numerosi sono le infiltrazioni di combattenti islamici stranieri. Un discorso a parte meritano le bande armate dei narcotrafficanti. Il grido d’allarme proveniente dal think-tank statunitense è molto semplice: gli USA, dopo averla vinta, stanno adesso perdendo la guerra in Afghanistan e, se non viene invertita l’attuale rotta, le prospettive non potranno che peggiorare. La condizione bellica e sociale del Paese necessita di programmi a lungo termine, con soluzioni che si potranno apprezzare non prima di parecchi anni, tanto che per certi obiettivi di sviluppo si parla del 2010 e 2019. Quindi non esiste la risposta risolutiva per far scomparire con un colpo di bacchetta magica l’insieme articolato dei problemi, ma ciò che occorre re-impostare è un nuovo approccio intellettuale, e quindi politico, alla questione afghana (...). Oggi, la stessa Casa Bianca ammette finalmente d’aver fallito nell’impiego delle truppe sul terreno, nell’invio di personale civile specializzato, negli investimenti finanziari per vincere il conflitto. Le forze militari USA e NATO possono anche primeggiare negli scontri campali e ottenere qualche successo tattico, ma la vera guerra non è quella. La vera guerra è politica e ideologica, afferma il rapporto di Cordesman: è una lotta per il controllo dello spazio politico ed economico dello Stato afghano. La posizione di vantaggio ce l’hanno talebani e jihadisti, dovendo solo tentare di sopravvivere alle incursioni degli eserciti USA, NATO/Isaf, pakistano e aghano, ma se le cose restano così, prima o poi essi riprenderanno il predominio sul territorio, almeno di fatto (...). Ciò è  notevolmente aggravato dal fatto che l’Afghanistan sia un Paese territorialmente molto più vasto e complesso dell’Iraq, più popoloso, socialmente assai più arretrato e frammentato, e privo d’ogni risorsa economica. Quest’ultimo punto è d’importanza capitale: in Afghanistan non si poteva pensare d’usufruire di strutture economiche e industriali locali, come accade in Iraq. Qui non esiste niente. La guerra afghano-pakistana, quindi, si vince o si perde in base a quanto vi s’investe in termini di energie finanziarie e umane». Come detto, L’Occidentale è il, giornale pagato da Dell’Utri e creato per sostenere le visioni neocon in Italia. Si indovina una certa aria di panico. Ma non viene meno la convinzione che gli americani hanno sempre ragione. Il giornale neocon infatti dice che la soluzione sta, per gli alleati, di accettare il comando totale USA sulle loro truppe: «L’intero comando delle operazioni belliche e civili, della sicurezza militare e della ricostruzione amministrativa del Paese deve appartenere a un’unica autorità centrale USA - CENTCOM -, sostenuta dai governi alleati, e in cui confluisca tutta l’attività di controllo delle truppe americane e alleate, dell’intelligence, degli apparati burocratici e giudiziari, delle imprese civili, delle organizzazioni umanitarie, e soprattutto dei fondi finanziari».



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