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La dottrina dello Stato che ci fa peggiori
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Un lettore:

Visto che il direttore in casi analoghi non fa altro che criticare epaticamente, lo invito a iniziare a trattare una possibile ricostruzione partendo dalle macerie di oggi.

Il lettore che così mi sfida dovrebbe sospettare almeno che, stante la profondità della devastazione civile, a sua volta conseguenza della devastazione delle anime, trattare di una possibile ricostruzione non può essere certo cosa di una testa sola, studiata a tavolino. Tuttavia, accolgo di questa sfida una parte: l’invito a superare la critica «epatica».

L’osservazione del lettore nasce dall’articolo sul dialettale giudice Esposito; individuo non migliore del giudicato Berlusconi, né dei «tecnici» o dei politici di quest’Italia ultima. Stessa bassezza e sporcizia, nullità morale e intellettuale, corruzione e marciume in alto come in basso: quale ne è la causa?

Mi sforzo a superare la critica «epatica» e anche il giudizio moralistico sulle persone. E rispondo: questa corruzione e abbassamento dell’umano, temo, ha causa fondamentale nella vigente Dottrina dello Stato.

Naturalmente tutti i bassi attori della nostra scena pubblica, dai magistrati castali al Cavaliere, fino ai grand commis che hanno vinto «o’ concuorso» e i capi-partito, rigettano la stessa idea di «dottrina dello Stato», cosa che ha troppa consonanza con lo Stato etico e la sua temperie autoritaria, fascista o hegeliana; uno Stato pluralista, liberista e libertario, e «democratico» non ha una dottrina dello Stato; e ciò per definizione.

Ebbene: proprio questa è la Dottrina dello Stato di lorsignori. Anche non avere una dottrina dello Stato, è pur sempre una dottrina dello Stato, quando la professa chi ha in mano il potere: una dottrina per default, magari, ma c’è. Non si scappa. Non esiste Stato senza una sua dottrina. E non solo: anche la cittadinanza in schiacciante maggioranza aderisce a questa dottrina dello Stato, che è la causa stessa della corruzione e della abiezione.

Quale è dunque questa dottrina dello Stato?

È la dottrina nata insieme dal rigetto dell’autorità – specie religiosa – e dall’accettazione incondizionata del Mercato, dalla voglia di vita tranquilla e dalla paura della guerra di tutti contro tutti. Per ottenere questi scopi tutti insieme, si è pensato di escludere dal campo politico come da quello economico ogni riferimento morale o ideologico (fonti di «intolleranza e fanatismo», si dice) e far reggere la società da un potere «neutro»: essenzialmente, il Mercato e il Diritto.

Quel che si è voluto instaurare è lo «Stato minimo» dell’utopia liberista («più mercato meno Stato»). In Italia è apparentemente il contrario, effettivamente siamo oppressi da uno Stato massimo, massimamente pesante, intrusivo, ficcanaso e fiscale, dove siamo intercettati dai magistrati, continuamente sospettati di evasione, spiati nei nostri portafogli da Equitalia a cui dobbiamo render conto persino se compriamo troppo detersivo... uno Stato iper-regolante, iper-legiferante, che ci controlla in ogni atto.

Tutto vero. Ma i nostri oppressori – ossia i governanti e dirigenti pubblici – hanno in mente lo «Stato minimo» in un altro senso: lo Stato che non pensa, che non si autorizza a pronunciarsi sulla domanda cruciale: «Come si deve vivere?»; uno Stato che si accontenta di amministrare attraverso un diritto astratto le libertà concorrenti senza giudicarne il contenuto, senza altro criterio che le libertà stesse e il limite (ideale) nella libertà altrui. Magari, con leggi che impongono la «tolleranza» e la «trasparenza», come residuale pseudo-moralità.

In una parola: quello che ci opprime è lo Stato «minimo» nel senso che ha minimizzato la sua funzione formativa dei cittadini; ha rinunciato ad educare e ad orientare le vite da cui si fa mantenere taglieggiandole; è diventato lo Stato diseducativo. Che è appunto quello i cui attori privilegiati, siano il giudice Esposito o Berlusconi, Calderoli o Befera, tripudiano e trionfano esibendo le loro abiezioni.

Ed è naturale che siano così, dato che questo tipo di Stato «non fa che scoprire o inventare meccanismi capaci di generare da sé tutto l’ordine e l’armonia politica necessaria, senza che si debba mai più fare appello alla virtù dei soggetti».

La frase qui sopra è una citazione da Jean-Claude Michéa, un interessante filosofo francese che s’è fatto radicale critico di questo «stato minimo» in senso morale e intellettuale. Michéa è partito a criticare questo stato minimo da sinistra: questo, dice, è esattamente lo Stato voluto dal Mercato per i suoi scopi, «e che porta all’espansione infinita del mercato e della mercificazione da una parte», ma «dall’altra all’estensione illimitata dei diritti individuali», il che giudica esiziale (1).

E insiste: dal momento che ogni riferimento ad una morale, ogni definizione del bene è diventata tabù ed espulsa dalla società in quanto tale, in quanto attentato alla libertà, ciò apre la porta «a tutte le rivendicazioni concepibili, comprese quelle più contrarie al buon senso e alla common decency»: e Michea non esita a citarle: matrimonio omosessuale, prostituzione, spaccio di droga, uteri in affitto, immigrazione senza limiti a cancellare l’identità nazionale…

Il fatto è che Michéa, figlio di un eroe partigiano comunista, è stato esponente del Partito Comunista francese. Ma è chiaramente uno di quelli che si domandano come mai la sinistra, nata a difesa del proletariato sfruttato, sia finita a difendere le nozze e le adozioni gay. «Il socialismo ha adottato le tesi del liberalismo politico borghese».

Può non sembrarci una gran scoperta : in Italia, fin dagli anni ’80 il filosofo Augusto Del Noce profetizzò che il PCI sarebbe finito come «partito radicale di massa», subalterno ed ausiliario della borghesia trasgressiva. Ma l’influsso di Del Noce è stato nullo nel dibattito pubblico, bastando alle sinistre (e non solo) l’etichetta di «cattolico» e anticomunista a farle espellere da esso. Invece Michéa si fa ascoltare, e crea dubbi di malacoscienza, nella gauche intellettuale.

Anche perché non è il solo: un ex dirigente del Partito comunista, Alain Soral, è passato al Front National giudicandolo il solo partito ancora capace di difendere gli operai francesi di fronte alla globalizzazione, dunque restando «proletario». Ha un sito molto frequentato dal titolo programmatico, «Egalité et Réconciliation», il cui motto non potrebbe essere più esplicito: «La sinistra del lavoro, la destra dei valori».

«Sinistra del lavoro - destra dei valori» sembra la definizione stessa del fascismo e della sua dottrina dello Stato. Ma è difficile attribuire questa etichetta a Michéa e a Soral, non foss’altro per la natura degli autori che citano: da George Orwell che combatté nella guerra di Spagna coi «rossi» – ma che definiva se stesso un «socialista reazionario» , e fu un veemente critico delle «èlites non-patriottiche ed internazionaliste» e della «onestà spontanea della piccola gente» – fino a Christopher Lasch (1932-1994), di cui Michéa ha curato la pubblicazione i n Francia di molte opere.

Questo storico e notevole pensatore americano è stato a lungo la bestia nera dei liberal statunitensi. Negli anni ‘80 sferrò una eccezionale polemica contro il femminismo militante , che lui intese (giustamente) come l’avanguardia di una società che – udite udite – «non pone più alcun limite alla soddisfazione immediata di qualunque desiderio, per quanto perverso, pazzo, criminale o semplicemente immorale sia», e dove «la questione del bene e del male diventa una questione di preferenze personali, di gusti, di stili di vita». Perfetta profezia dei nostri tempi dove i pervertiti si vedono riconoscere il diritto a sposarsi, l’aborto è un diritto, l’eutanasia sta per esserlo e si reclama la depenalizzazione della tossicodipendenza come della immigrazione clandestina...

Il punto è che Lasch non critica la società trasgressiva dal punto di vista del moralista reazionario e religioso, che sarebbe stato facile alle sinistre americane aggredire come oscurantiste e passatiste. No, accusa le «minoranze» di essere nemiche della democrazia.

Oggi già tendono a scomparire, ha scritto Lasch, «le istituzioni pubbliche dove i cittadini si incontrano come eguali», ricchi o poveri che siano – ossia precisamente i luoghi della democrazia, dell’eguaglianza politica; e invece lo spazio viene invece occupato da queste «minoranze militanti» (omosessuali e «donne», immigrati ed ebrei, afro-americani eccetera) le quali non hanno più alcuna intenzione di «convincere la maggioranza attraverso il razionale e pubblico dibattito», ma «si trincerano dietro i loro rispettivi sistemi di credenze, dietro i loro specifici dogmi, impervi alla discussione razionale: siamo diventati una nazione di minoranze, la balcanizzazione delle opinioni». E ancora: «Ogni gruppo che può lamentare qualche forma di anteriore discriminazione proclama il suo status di minoranza e il suo titolo a diritti nuovi, creati di sana pianta dai tribunali» o dai parlamentari (2).

Questi diritti sono arbitrari perché strappati senza, anzi contro, il «consenso sociale» della maggioranza e contro la «common decency». Peggio: in uno spazio pubblico già distorto e corrotto dalla prevalenza del denaro (dove l’eccessiva disparità di ricchezze riduce i diritti politici dei cittadini più poveri), le minoranze aggiungo il loro immoralismo disgregatore a quello delle nuove élite trasnanzionali, finanziarie, irresponsabili verso il proprio popolo.

Qui c’è da notare l’idea di democrazia che Lasch ha propugnato, e che può stupire certi nostri lettori, che ne conoscono solo l’aspetto deteriore odierno: lungi dall’essere lo spazio neutro dove si esercitano le libertà, la Democrazia è – per Lasch – «assunzione di responsabilità» da parte delle persone comuni, e che dunque richiede da essi «alti standard di condotta», «lo sviluppo equilibrato di mente e di carattere». Insomma, «non sono le istituzioni libere, ma il carattere dei cittadini che fa funzionare la democrazia». Carattere che va formato, e non deformato è corrotto.

Può sembrare strano, ma questa concezione esigente della democrazia è stata un pilastro del pensiero politico americano. Per John Adams «la pubblica virtù è il solo fondamento della repubblica». Il poeta Walt Whitman scrisse in Democratic Vistas: «la democrazia non proverà la sua superiorità fino a quando non creerà la propria arte, il proprio carattere morale e religioso, e personalità perfette»... Siamo ben lontani da questo, si può obiettare, ed è vero: ma Lasch può riferirsi a questo ordine di idee nella sua polemica contro i progressisti trasgressivi.

Può scrivere che «standard comuni (e non la più libera diversità, ndr) sono assolutamente indispensabili in una società democratica»; può asserire non solo che la democrazia richiede nei cittadini «fortezza, laboriosità, coraggio morale, onestà e rispetto per gli avversari», ma anche – contro il pluralismo etico individualista «che non esige niente da me e non mi dà il diritto di esigere niente dal concittadino» – che tali qualità vanno sviluppate ed insegnate. La democrazia è pedagogia, scuola di caratteri e di «common decency».

Lo Stato educatore? Lo Stato che ha suoi valori e li trasmette, che forma i caratteri dei suoi cittadini? Questo fa strillare di sdegno i fautori dello stato liberale (3), liberista e libertario, anti-autoritario, «minimo»: per una volta uniti, liberali «sinistra» e liberisti «di destra» seguaci di Karl Popper e Milton Friedman.

Uno dei critici da sinistra di Michéa lo accusa, ironicamente, di «nostalgia per gli istitutori che picchiavano sulle dita col righello, per il servizio militare e per il catechismo, e i padri-padroni di famiglia» (Anselme Jappe, Crédit à Mort). Al che Michéa e Soral replicano: d’accordo, ma così non fate che confermare quel che vi diciamo: che lo Stato liberale, liberista e anti-autoritario non è più democrazia. È lo stato delle multinazionali, dei banchieri; del mercato e dei miliardari. Lo Stato dove i cittadini in quanto tali non contano nulla, dove conta il denaro da una parte, e contano le minoranze sessuali e «discriminate» dall’altra...

E i liberisti sorvolano sul fatto – evidente – che lo Stato «è» comunque educatore: con la scuola, con il diritto penale e con la polizia (e ieri con l’obbligo militare) lo voglia o no, il potere pubblico «forma» il cittadino secondo qualche valore comune, magari implicito e non confessato. Lo Stato «minimo» dovrebbe per coerenza rinunciare a questi compiti. E infatti in Usa il principio è applicato con più integrale coerenza. È stato proprio Milton Friedman, l’economista ultra-liberista, a raccomandare la totale privatizzazione del sistema scolastico; l’America è il Paese dove la privatizzazione del compito militare ha raggiunto le punte estreme, con la nascita di ditte di mercenari quotate in Borsa. E tuttavia nemmeno lì s’è potuto privatizzare del tutto la scuola (che a livello elementare resta municipale, «per i poveri»), né soprattutto il sistema giudiziario penale, anche se il diritto individuale a portare armi e l’appalto a privati dei carceri si avvicina molto a questo discutibile «ideale». Perché la privatizzazione del sistema giudiziario se fosse completa e totale, dopotutto, sarebbe solo questo: «Farsi giustizia da sé». Anche lo Stato più liberista della storia ha voluto mantenere la massima autorevolezza morale, ed autorità alla Corte Suprema e alla «maestà» della Legge. Altrimenti crolla tutto.

È questo a cui arriva il liberismo, lo Stato «minimo» e neutro, se lo si applicasse con la massima coerenza e integralità. Per questo nei Paesi europei scuole, diritto penale e polizia sono ancora istituzioni pubbliche, anche se vi si professa la fede nel liberismo anti-autoritario.

In questo senso, è proprio l’Italia che ha raggiunto la più caricaturale perfezione dello Stato a-valoriale. No, non ha eliminato il sistema scolastico, che anzi è più pletorico che mai: ma l’ha svuotato di ogni contenuto. La scuola italiana esiste per mantenere il milione di insegnanti, non per educare i giovani: e infatti lo stuolo di docenti non insegna nulla, se non qualche luogo comune già sentito in tv. Il futuro cittadino non riceve più alcuna formazione del carattere, con i bei risultati che vediamo. Quanto alla «giustizia», al sistema del diritto, la soffriamo ogni giorno: giudici che non si vergognano di essere «di parte» – dunque irresponsabili e delinquenziali – non fanno che aumentare il loro potere indebito a danno dell’esecutivo, pagando a cuore leggero il prezzo: la perdita di «autorità»: niente autorità ma tanto potere, questo è l’ideale della magistratura italiana. I risultati sono giudici come Esposito d’a Cassazione e, per fare un altro esempio, Ingroia: personaggi dove la vacuità etica si accompagna alla confusione mentale, ignoranza e incompetenza, tali da essere imbarazzanti anche per la Casta.

Quanto ai politici, bisogna ammettere che Berlusconi incarna al meglio il governante che ha rinunciato gioiosamente e una volta per tutte agli «alti standard di condotta» che Lasch credeva essenziali per l’esercizio della democrazia (4): ci ha riempito il Parlamento di sue fellatrix, di suoi dipendenti e di suoi avvocati.

Non che gli altri siano meglio: sono solo più ipocriti. Da «Abbiamo una banca» di Fassino alla gestione dei clientelismi nelle Regioni rosse (vedi Montepaschi), è tutto un sistema di corruzione dove i «fini» del potere sono del tutto oscurati, e si guarda solo ad impadronirsi dei «mezzi».

Credetemi, la dottrina dello Stato minimale spiega tutto. Spiega come mai abbiamo la Carfagna come deputata, spiega perché i magistrati sono quel che sono, spiega Berlusconi e la subalternità degli ex comunisti al Partito di Repubblica; spiega le disfunzioni dell’alta burocrazia inadempiente e strapagata, che non si riesce a ridurre alla ragione; spiega perché non riusciamo nemmeno ad avere «tecnici» competenti, e che la nostra «tecnocrazia» si sia rivelata, con Monti e la Fornero, nulla e idiota. La dottrina dello Stato vigente spiega anche la scema furbizia e inarticolatezza di un Bersani, come l’incapacità del PD di proporre un programma di governo. Non abbiamo più preteso niente da noi, ed è questo il risultato.

Ma guardiamo noi cittadini, come ci ha resi questo Stato che evita con tanta delicatezza di educarci, di imporci il grave dovere di difesa dello Stato stesso; questo Stato ogni giorno più «libertario», a-ideologico che ci lascia liberi di educarci da soli e concepire i nostri «valori» e praticare stili di vita privatissimi; questo Stato che ci ha liberati dagli istitutori che picchiano le dita, dal servizio militare e dal catechismo, come ci ha resi? Migliori?

Liberati dalla premilitare, passiamo le domeniche negli shopping centers e le sere davanti alla tv; liberati dagli obblighi militari, e in realtà da ogni altro obbligo collettivo, si resta prigionieri di vizi indegni e minimi, le slot machines, la tossicodipendenza, la discoteca... Lo Stato minimo ha fatto di noi dei cittadini-poltiglia, delle amebe in cerca di soddisfazioni di lussurie, di piaceri dozzinali e minimi. Inadatti alla vita nel futuro di crisi che ci si apre davanti, e dove carattere e senso del dovere verso la collettività saranno l’ancora di salvezza.

E poi: questo Stato «neutro» e che «non pensa» mica è diventato leggero come credeva Popper e Friedman; è pesante più che mai. E ci è logico: abbandonati i suoi compiti istituzionali, e il senso del dovere verso cittadini, che cosa resta dello Stato minimo? L’apparato di esazione. Esso non è più altro che l’idrovora di Equitalia, il solo meccanismo efficiente rimasto, che ci porta via tutto per mantenere caste inutili, sistemi di corruzione e politicanti incompetenti e disonesti, residui di una differente «dottrina dello Stato» ormai obliterata: lo Stato etico, o almeno con un’etica. Fatto interessante, la magistratura di questo Stato minimo controlla i nostri comportamenti, e ci intercetta ad libitum, ma lascia impuniti il 90% dei furti e il 70% degli omicidi. Non è che non sappia, che «non ha i mezzi» come dicono i giudici; è che non sono interessati a colpire i reati che danneggiano noi cittadini (ex-cittadini). Sono interessati a colpire un solo reato, quello che può negar loro lo stipendione; il massimo delitto in questo Stato avaloriale e anti-autoritario, liberista e libertario: l’Evasione Fiscale.

Ah dimenticavo, perseguono anche «l’omofobia», il negazionismo e il femminicidio. O qualunque altro delitto di fantasia venga alla mente, purché non sia iscritto nel Decalogo.




1) Jean-Claude Michéa, L’empire du moindre mal. Essai sur la civilisation libérale, Flammarion, 2010, p.32. Si noti che le posizioni di Michéa coincidono con quelle espresse da Giovanni Paolo II in Veritatis Splendor, dove il pontefice rigetta la «libertà» divenuta fonte unica dei valori: «I valori e le categorie morali non sono più dei principii trascendenti che cerchiamo di rispettare, ma sono opera della libertà stessa. Ogni individuo ritiene di essere all’origine dei suoi giudizi e si da dunque il diritto di decidere da se stesso quel che stima essere buono o cattivo, giusto o ingiusto».
2) Christopher Lasch, The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy, New York 1996. Lasch completò questo libro negli ultimi mesi di vita, in lotta contro il tempo ed il cancro, perché lo considerava la sua opera capitale: dopo la critica alle «minoranze trasgressive» della cosiddetta «sinistra», Lasch sferrava qui una critica rovente alla «destra» del reaganismo liberista e alle élites che la Reaganomics stava generando: «la nuova classe che si autodefinisce meritocratica, il gruppo di successo attraverso la mobilità verso l’alto della sua istruzione e carriera, e sempre più privo di radici, e sempre più definito dal suo cosmopolitismo, poco senso dell’obbligo, e riserve al minimo di patriottismo». Questa nuova classe, disse, «ha molto vizi dell’aristocrazia e nessuna delle sue virtù», in quanto rigetta il senso di «reciproca obbligazione che era stato tipico del vecchio ordine», dell’ancien régime. È istruttivo sapere che Lasdch rifiutò la chemio, perché gli avrebbe tolto le energie di cui aveva bisogno per scrivere, «Disprezzo il vile attaccarsi alla vita solo per vivere, che sembra così fortemente insito nel temperamento americano».
3) Lo Stato liberale – come afferma von Humboldt (1767-1835) – «attraverso l’equilibrio così raggiunto dei diritti, deve porre i cittadini nella condizione di educare sé stessi». Ed inoltre, «ogni impegno dello Stato è da respingere, quando porti ad immischiarsi nella sfera d’affari privati dei cittadini, salvo che questi affari non si traducano immediatamente in un’offesa al diritto dell’uno da parte dell’altro».
4) Lasch è stato un conservatore ostile alla plutocrazia americana, e ha detto esplicitamente che uno dei compiti dello stato democratico è «restringere la sfera della vita dove contano i soldi» (restrict the sphere of life in which money matters), e «porre limiti all’imperialismo del mercato che trasforma ogni bene sociale in una merce». La democrazia deve garantire che i cittadini senza mezzi siano eguali ai ricchi nell’arena politica. Per lo stesso motivo, per cui deve scoraggiare le «minoranze» militanti, identitarie, etniche o sessuali: nell’arena pubblica, i cittadini non si definiscono né per il colore della pelle, né per il genere, né tanto meno per le loro preferenze sessuali. Lasch si definiva «populista», nel senso propriamente americano: fra il 1886 e il 1906 è esistito in Usa un Populist Party, cui aderirono milioni di agricoltori ed altri lavoratori, che ingaggiò fiere lotte contro i monopoli privati, le mega-corporation, e fece passare temibili leggi anti-trust. La dottrina politica sottostante era «il popolo» (senz’altre specificazioni) contro «le élites». Il Populist Party intendeva promuovere la diffusione della piccola proprietà e dei mestieri indipendenti (agricoli o artigianali) come essenziali per formare il carattere di cittadini democratici responsabili.



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