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Bullismo: in Francia e in Italia
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Il tizio che conduce una rubrica di libri e letture su RAI3 - la nostra presunta radio «culturale» - nega che il bullismo scolastico sia un problema.
I bulletti sono sempre esistiti, dice; un tempo si chiamavano «monelli».
E fa l'esempio di Gianburrasca.
Un'insegnante, poveretta, prova a interloquire: nella mia scuola abbiamo avuto un ragazzo che ha strangolato il pappagallino di un compagno; non mi sembra una monelleria.
Ragazzate, replica giulivo il «coltissimo conduttore».
Così hanno luogo i dibattiti italioti, su una emergenza nazionale.
Per lo più, gli episodi più orribili vengono relegati in cronaca.
Quando si dibatte, lo si fa nei salotti TV, dove la mente più eccelsa è rappresentata da Barbara Palombelli, la moglie di Rutelli, che ripete la solfa: «Ragazzate, le facevamo anche noi».
Sentiamo invece come ne parlano in Francia.
Cosa scrive su «Le Monde» Philippe Meirieu (1), docente all'università Lione II e capo della rete TV educativa «Cap Canal» (in Francia, incredibilmente, esiste una TV pedagogica).
«I dibattiti educativi sono troppo spesso ridotti a dibattiti sulla scuola», dice.
Invece, il degrado dell'educazione, del rendimento scolastico, dell'autorità degli insegnanti, deriva da «un fenomeno completamente inedito: il capriccio, che un tempo era solo una tappa dello sviluppo del bambino, è divenuto il principio organizzatore del nostro sviluppo collettivo».

E' noto che il bambino, nato tra noi come un barbaro, passa per una fase dello sviluppo in cui si crede onnipotente, e crede di poter comandare agli altri esseri e persino alle cose.
E' il ben noto «narcisismo o egocentrismo infantile»: il piccino, preda dei suoi desideri e impulsi che non sa nemmeno ancora esprimere, tende a «passare all'atto», ossia a soddisfare i suoi impulsi con la violenza o la prepotenza.
Ma è proprio questo stato che l'educatore si sforza di far superare al bambino: gli deve insegnare, anche con punizioni, a dominare i suoi impulsi, a riflettere, a procrastinare, a prevedere le conseguenze, a metabolizzare le sue pulsioni.
Il fatto è, dice Meireu, che non si esce dallo stadio infantile da sé.
Occorre che tutta la configurazione sociale dia significato all'attesa, e permetta di vedere, nelle frustrazioni inevitabili, le promesse delle soddisfazioni future, più esigenti e più ardue.
E l'uscita da questo stadio non è mai assicurata: «L'infantilismo ci segue anche nella maturità, e ad ogni età della vita resta la tentazione di reinstallarsi sul trono del tiranno» di cinque anni.
Il fatto è che oggi «l'intero macchinismo sociale, anziché fornire i punti d'appoggio per liberarsi dall'infantilismo, esalta proprio il principio da cui l'educazione ci deve insegnare a liberarci».

Qual è questo principio?
«Le tue pulsioni sono ordini».
E' evidente che Meirieu ha di mira la pubblicità, e specialmente quella televisiva.
Il messaggio è ripetuto anche esplicitamente: «soddisfa la tua sete», dice una pubblicità della Coca-Cola.
«Odio le rinunce», grida un cartellone che vende latte scremato.
Peggio: gli economisti liberisti ci insegnano che «favorire la pulsione all'acquisto» è un bene, è il motore stesso della crescita economica.
La pubblicità rafforza il suo messaggio («soddisfa la tua sete») con immagini sensuali, che su personalità immature sono le più imperiose.
La TV fa «zapping» sulla mente dei telespettatori, più presto di loro, per impedir loro di fare zapping e passare a un altro canale.
Il telefonino «riduce le relazioni umane alla gestione di ingiunzioni immediate».
Tutto, assolutamente tutto nella nostra società  incita alla soddisfazione dei desideri: adesso, subito, a qualunque prezzo.
Questo imparano gli scolari e i ragazzini.
Perché nulla, assolutamente nulla incoraggia alla riflessione, a metabolizzare le pulsioni primarie.
Perché dunque stupirsi della difficoltà ad educare che incontrano oggi insegnanti e i (pochi) genitori che si rendono conto del problema?

«Ogni padre sa la fatica che occorre spendere per contrastare nei figli adolescenti la tirannia delle mode, delle griffes, degli stereotipi imposti dai cosiddetti media giovanili».
Quanto ai professori, soffrono giorno per giorno «la difficoltà di costruire spazi per la concentrazione, di formare la padronanza di sé, e l'adesione ad un compito assegnato. Vedono i loro allievi arrivare in classe con un telecomando trapiantato nel cervello…lo sforzo primario degli insegnanti d'oggi, che li riduce all'esaustione, è far abbassare la tensione per favorire l'attenzione».
La resa scolastica, quindi, è miserevole.
I rimedi?
Nei dibattiti si discute a vanvera di «restaurare l'autorità e di cambiare i metodi di lettura, o accelerare l'insegnamento all'asilo, creare classi speciali, identificare precocemente le devianze e medicalizzarle».
Tutto questo è, dice Meirieu, «pensiero magico», esso stesso infantile.
Non ci sono prescrizioni tecnocratiche che possano sostituire «l'ostinato lavoro di creare situazioni pedagogiche dove il bambino scopra, nell'azione, che il godimento dell'istante è mortifero, e che il desiderio può essere soddisfatto solo nella costruzione della temporalità» e nel rapporto con gli altri.

Tutto questo pensiero magico è anche in perfetta malafede.
Le soluzioni «tecnocratiche» vengono proposte per occultare le cause reali dalla crisi educativa.
Per esempio, non si vuole ammettere che oggi il bambino è usato come un «prescrittore di acquisti», un pubblico «captive» per la pubblicità televisiva, da spingere a desiderare per indurre la mamma a comprare.
Non si vuol dire, perché l'economia ne soffrirebbe.
Non si vogliono mettere in discussione i media: perchè se no bisognerebbe costringerli a riconoscere che «la libertà d'espressione si deve accompagnare a un dovere di educazione»; che la loro irresponsabilità non deve essere permessa, dato che la loro libertà si esercita all'interno di una democrazia.
Bisognerebbe, dice Meirieu, «ripensare la gestione del tempo dell'infanzia», oggi sovraccaricata nel tempo libero di scemenze (corsi di judo, di piano, di calcio, di lingue) che tengono il bambino sotto «costante pressione valutativa».
Ma questo non si può, perché la gestione tecnica del tempo «libero» infantile è un grande business.
Bisognerebbe ripensare ad una «rilancio dell'educazione popolare», per restituire al senso comune che «la frenesia consumatrice» non è l'ultima parola nel divertimento e nella cultura.
Infine, bisogna fare del «sostegno ai genitori una priorità politica».


Certo, anche la scuola deve rinnovare i suoi metodi, obsoleti in quanto pre-teleisivi.
Deve creare «una pedagogia basata sulla scoperta, che dia un senso alle nozioni, e insieme una pedagogia del rigore formale, che consenta di appropriarsi dei saperi».
Deve «sviluppare una vera educazione artistica, fisica e sportiva per aiutare i bambini a passare dalla gesticolazione al gesto».
Meirieu si spinge fino a immaginare una «pedagogia del capolavoro», insieme nel senso artistico (il valore educativo dell'estetica, non dell'etica!), e  nel senso artigianale: il gusto dell'opera ben fatta, insieme nella classe, «in cui ciascuno si iscriva nel progetto comune e smetta di esigere tutto, subito, per tutto il tempo».
Ma non basterà, dice Meirieu, finchè non si avrà il coraggio di porre la domanda fondamentale: «Se l'onnipotenza del mercato consumistico è compatibile con l'educazione alla democrazia».
Se il mercato, insomma, debba avere l'ultima parola, essere l'istanza più alta del nostro vivere comune.
Senza porre questa domanda coraggiosa, i nostri figli, e anche noi adulti, saremo vittime volontarie dell'ideologia del «capriccio mondializzato».

Che ve ne pare?
Non è un pensare un po' più rigoroso e ardito delle banalità del tizio di RAI3 e della moglie di Rutelli?
Alain Bentolilla (2), un docente di linguistica all'università di Paris V, ha il coraggio di sfidare il dogma più intoccabile del politicamente corretto: l'istruzione scolastica obbligatoria per tutti.
E' un pilastro della «democrazia di massa»: non vorrete mica mandare i figli dei poveri a imparare un mestiere affiancando un artigiano o un operaio… no, devono arrivare all'università, magari con l'aiutino dei diplomi falsi, o del CEPU.
Il dogma  intoccabile è stato poi interpretato dalle burocrazie nel modo più piatto, statistico: «La democratizzazione dell'istruzione viene giudicata dalla sua capacità di mantenere per più tempo possibile il massimo numero possibile di allievi nel sistema scolastico».
Prima del '68, la scuola non era veramente per tutti.

Era per privilegiati sociali che, in un modo o nell'altro, erano selezionati prima di entrare in classe, dalla cultura familiare.
Questi scolari, almeno, «avevano una certa idea comune della scuola e della necessità di andarci».
Si accettava il fatto che la scuola era «un luogo singolare, dove ci si comportava in modo particolare. Se ne accettavano le regole, magari più per timore che per piacere, ma senza esasperazione».
Inoltre, si sapeva precisamente cosa attendersi dalla scuola in termini di contenuti e di know-how comune.
Ora, sono entrati nella scuola ragazzi di ceti che hanno ricevuto in famiglia una immagine della scuola «confusa e negativa».
Che «hanno una padronanza solo approssimativa della lingua». La cui cultura è «televisiva».
E quanto alla mediazione familiare, questi ragazzi ne conoscono solo «il silenzio, l'indifferenza e spesso la violenza».
Risultato: la democratizzazione della scuola è un «mito e un miraggio».
Di fatto, i ragazzi dei ceti non-privilegiati vengono relegati «in classi-ghetto» e passati lungo i «corridoi vergognosi dell'analfabetismo che attraversano la nostra scuola», ma di cui per ipocrisia non si vuole riconoscere l'esistenza.
Non imparano niente, e magari ricevono un diploma; o abbandonano la scuola, frustrati ed esacerbati come i ragazzi delle banlieues, votati alla disoccupazione permanente, che è inoccupabilità.
Per salvare il «mito» politicamente corretto (non escludiamo nessuno), votiamo alla rovina centinaia di migliaia di vite.

Un tentativo di soluzione?
Sì, ma dovrebbe partire da un paio di presupposti essenziali.
Il primo: non tutti sono capaci di apprendere sui libri.
Il secondo: a parte greco, latino, matematica e lettere o filosofia, una quantità di materie «non si apprendono bene» sui libri.
Si apprendono meglio «vedendo fare» ad operai esperti, e facendole sotto la loro guida.
La parte più essenziale dell'istruzione - e io posso testimoniarlo, ciò vale persino per una professione «intellettuale» come il giornalismo; ma vale anche per la chirurgia o la chimica - si apprende «nella pratica», per affiancamento.
Si impara meglio «per affiancamento», perché si imparano valori e dignità, oltrechè segreti, che solo il caldo rapporto umano e funzionale può insegnare.
L'educazione  a fianco di un artigiano non è vergognosa, anzi: insegna l'estetica del mestiere, introvabile sui libri, il gusto dell'opera completa, del manufatto che è più di una merce.
Naturalmente, si dovrebbero prevedere sistemi d'istruzione per gli apprendisti che, proprio sul lavoro e nella pratica, scoprono di avere bisogno di «tornare a scuola», di imparare alcune basi teoriche di chimica, fisica o matematica, o anche di storia - che so - delle assicurazioni e dell'economia.
Spesso questa esigenza è sentita da chi lavora, e proprio perché vede che le nozioni sono utili sul lavoro: è un'esigenza nobile, che non viene soddisfatta.
Ancora una volta: occorre avere il coraggio di sfidare il politicamente corretto.
Sfatare il mito che il lavoro artigianale o operaio sia «inferiore», mito contrario alla democrazia.

Ma chi ne ha il coraggio?
Non certo RAI3, non certo la Palombelli.
Di qui si vede cosa sono gli intellettuali in Francia, come pensano, quale senso di responsabilità li anima verso la comunità (la République; possiamo osare il termine, verso la nazione e la patria).
Noi abbiamo la Palombelli. O Vespa.
L'irresponsabilità generale dei politici, dei docenti, dei pubblicitari, di coloro che chiamiamo «colti» (intellettuali nel senso francese, veramente, non ne abbiamo).
Così la barbarie cresce fra noi.



1) Philippe Meirieu, «L'école face à la barbarie consommatrice», Le Monde, 22 marzo 2007.
2) Alain Bentolila, «Ecole, mythe et mirage de la démocratisation», Le Monde, 16 marzo 2007.

 

 
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