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Sfida alla Russia. Senza testa
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Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, ai primi di aprile, ha compiuto una serie di visite alle capitali di Armenia, Azerbaijan, Kazakstan e Uzbekistan allo scopo di «rendere sicuro lIran contro un possibile attacco americano-israeliano attraverso i suoi vicini del Nord e dellEst»: così riferisce il sito ebraico DEBKA Files, che continua: «Al ritorno di Lavrov a Mosca il 6 aprile, larmata russa ha fatto sapere che avanzatissimi missili terra-aria S-400 sono stati spostati a Kaliningrad, lenclave baltica circondata da Polonia e Lituania, come risposta per il progetto USA di piazzare uno scudo missilistico anti-Iran in Europa e Medio Oriente».

Ancora: «A Yerevan (capitale dell’Armenia, ndr) il ministro russo ha concluso un accordo per il posizionamento di una base radar avanzata sulle montagne armene per contrastare il radar americano installato nella base aerea turca di Kurecik. Esattamente come la stazione turca (nonostante le smentite di Ankara) scambierà dati sui missili iraniani in arrivo con la stazione USA e il Negev israeliano, la stazione russa in Armenia condividerà i dati con Teheran».

Se le cose stanno così, la situazione è ben più allarmente di come la sottovalutano i nostri politici, euro-burocrati e media beoti: Mosca è sempre più certa che un attacco all’Iran sia imminente e vi si prepara con estrema decisione, agendo su un vasto scacchiere, anche sul piano direttamente militare. Coinvolgendosi militarmente, in funzione di deterrenza dell’avventurismo israeliano.

Infatti Joseph Farah, uno sperimentato giornalista americano con buone fonti, oggi a fianco di Ron Paul, conferma: «L’esercito russo prevede che un attacco contro l’Iran avverrà in estate, ed ha sviluppato un piano d’azione per spostare truppe russe attraverso la georgia in Armenia, che confina con la repubblica islamica, secondo fonti informate russe. Victor Ozerov, capo del Consiglio di Sicurezza Russo ha dichiarato che il Quartier Generale ha preparato un piano d’azione in caso di attacco all’Iran». (Russia Is Massing Troops On Iran's Northern Border And Waiting For A Western Attack)

Ammassare truppe russe al confine con l’Iran non può avere che un fine: correre in aiuto a Teheran in caso di aggressione. Non più solo fornendo intelligence e armamento, ma entrando direttamente nel conflitto. Del resto Dimitri Rogozin, l’ambasciatore del Cremlino presso la NATO, l’aveva detto a gennaio alle sue controparti a Bruxelles: la Russia non resterà inattiva in caso di aggressione contro l’Iran, in quanto la sicurezza dell’Iran tocca direttamente la sicurezza nazionale della Russia. Dato che Rogozin è vice-primo ministro e ministro dell’Armamento, e lo sarà anche sotto Putin, la sua è l’opinione della dirigenza russa al più alto livello.

Lo dimostra anche la responsabilità decisa che Mosca si sta prendendo nella situazione del Medio Oriente, e non solo sulla Siria, nel senso della sicurezza e stabilità della regione in quanto la ritiene connessa alla propria stabilità. I movimenti di truppe e gli spostamenti di missili sono volti ad avvertire i ciechi e sordi di Washington, Tel Aviv e Bruxelles che essa è molto seria nel sostegno ai suoi amici, fino al conflitto armato. Sta di nuovo assumendo anche la statura di attore diplomatico terzo e primario in Medio Oriente, rubando la funzione – così la mette DEBKA – ad Hillary Clinton.

Sergei Lavrov
  Sergei Lavrov
Il già citato ministro Lavrov ha messo in guardia i Paesi occidentali ed arabi contro la fornitura di armi ai gruppi d’opposizione siriani. È la risposta alla sfida più plateale, i 100 milioni di dollari che gli Stati del Golfo e USA hanno impegnato per alimentare con salari, addestramento e materiale i «ribelli» anti-regime in Siria, spesso stranieri infiltrati. Come ha detto a Press TV un ex analista del Pentagono di nome Michael Malouf, «la Russia ha in Siria importanti risorse militari, che probabilmente entreranno in gioco se l’opposizione continua a bombardare come sta facendo»,
nonostante il piano di pacificazione promosso da Kofi Annan, l’inviato speciale dell’ONU. Mosca «sta muovendo truppe e ammodernando le sue basi in Armenia in previsione che l’intera crisi medio-orientale, dalla Siria all’Iran, stia esplodendo... ed è estremamente a disagio per la stabilità della regione» e per «la minaccia che sentono non solo dagli USA, ma da Israele, che vogliono bombardare l’Iran».

Non sembra che i governi del blocco occidentale-israeliano prestino la dovuta attenzione a questo «disagio». Ancora a fine marzo il Dipartimento di Stato ha stanziato 50 milioni di dollari per «sostenere quelle ONG russe che vogliono lavorare con noi per una vibrante società civile in Russia», benchè il Cremlino abbia ripetutamente avvertito che questi finanziamenti possono «portare a gravi tensioni» nelle relazioni fra i due Paesi. La questione dei sistemi antimissile che gli Usa stanno allestendo a ridosso dei confini russi, con la scusa di difendere l’Europa da improbabili missili iraniani, continua ad essere trattata dagli americani come se la Russia, e le sue preoccupazioni, nemmeno esistessero.

Michael McFaul
   Michael McFaul
Nè aiuta la distensione il fatto che Washington mantenga in Russia l’ambasciatore McFaul, uno specialista delle «rivoluzioni colorate» che, appena insediato, ha preso contatto con le ONG russo-democratiche «spontaneamente» nate e finanziate da lui stesso. Questo McFaul, a giornalisti della TV russa NTV che l’assediavano con domande sui suoi contatti coi gruppi d’opposizione anti-Putin durante la campagna elettorale, è sbottato chiamando la Russia «un Paese selvaggio» (a wild country): un insulto di cui ha dovuto scusarsi, ma che è probabilmente la valutazione della Russia nutrita nei centri di potere che moltiplicano queste provocazioni. Centri di potere che non sembrano coincidere con la Casa Bianca, date le frasette sussurrate da Obama a Medvedev nell’incontro di Seul il 25 marzo (a microfoni aperti): «Dì a Vlad che su tutte le questioni, e specie sulla difesa missilistica, mi dia un po’ di spazio; è la mia ultima elezione, dopo l’elezione avrò più flessibilità». Al che Putin ha risposto qualche giorno dopo, chiedendo ironicamente se «l’ambasciatore McFaul è d’accordo».

Il che apre la questione su «chi comanda in America», a cui ogni tanto, qui, proviamo a dare una risposta. Ma la risposta oggi non può essere semplicista (lobby israeliana), perchè sembra che diversi centri di potere, spesso in antagonismo reciproco (come le fondazioni repubblicane che pagano le opposizioni russe anti-Putin), si impadroniscano via via del timone della politica estera USA, dirigendola nel modo più caotico, inutilmente pericoloso e senza cervello. Il punto è che mai si è visto andare con tanta irresponsabilità verso un conflitto di prima grandezza – questa volta non l’abituale «intervento umanitario» occidentalista contro le loro solite vittime, regimi semi-inermi. Stavolta si vuole sfidare la seconda potenza atomica mondiale, minacciarla nella sua stessa integrità interna (è questo a cui puntano le ONG pagate) (1), quindi renderla sensibile al più estremo pericolo; una sfida che può degenerare da un momento all’altro nelle conseguenze più gravi, un conflitto armato, se non una guerra mondiale.




1) È stato Sergei Mitrokin, capo del partito liberale Yabloko, oppositore di Putin ma contrarissimo ai finanziamenti americani dell’opposizione, ad evocare questo argomento delicatissimo. Mitrokin ha detto di voler scongiurare categoricamente uno scenario «rivoluzionario» in Russia, tipo «primavera araba», per via dell’enorme spazio russo e della grande varietà etnico religiosa: «Per questa ragione una rivoluzione porterebbe alla disintegrazione del Paese». Ma, come sanno i nostri fedeli lettori, il frazionamento dei Paesi nemici «per linee etniche e religiose» è il progetto esplicitato dalla rivista sionista Kivunim nel febbraio 1982. Tale progetto era apparentemente raccomandato per i Paesi islamici. Non è difficile ipotizzare che sia stato esteso anche alla Russia. (Western money ‘not option’ for Russian opposition)



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