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Quei jihadisti di discutibili origini
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Svegliato ad un’improvvisa consapevolezza: il generale israeliano Aviv Kochavi, capo dell’intelligence militare (AMAN) ha lanciato l’allarme. La Siria, ha detto pubblicamente, sta diventando un «centro di jihad globale proprio ai confini di Israele». La guerriglia contro il regime laico di Assad sta attraendo nell’area migliaia di estremisti islamici da tutto il mondo. «Migliaia di Al Qaeda» (sic), vengono e vogliono creare uno Stato islamico. E dalla Siria, la minaccia qaedista sta sciamando, come da un nido di vespe, a infestare «Libano, Giordania e la penisola del Sinai egiziana».

Il sito Russia Today ha dato il benvenuto a questa presa di coscienza: dopotutto, è quello che Vladimir Putin e il suo ministro degli esteri vanno dicendo da anni, inascoltati. (Syria turning into ‘center of global jihad’ – IDF Intel Chief)

Il sito sionista DEBKA File, vicino a un settore dei servizi, dà la notizia con molti particolari; e se la prende con la «politica » di Nethanyahu, di sottovalutazione della crisi ai confini. Le due incursioni aeree israeliane «contro le armi chimiche siriane e il convoglio di armamenti avanzati ad Hezbollah» – in pratica, due interventi a fianco dei terroristi islamisti – «si sono rivelati molto sbagliati. Adesso il maggior pericolo risulta essere la potenza diffusiva di Al Qaeda». ( IDF faces oncoming Al Qaeda tide on three Israeli borders: Golan, Lebanon, Sinai)

Kochavi avrebbe potuto aggiungere qualcosa sulla paranoia di Nethanyau che per anni ha additato come maggior pericolo l’Iran, il suo regime come il nuovo Reich giudeocida, ed elaborato piano su piani per mandare i suoi aerei a bombardare le sue centrali nucleari a migliaia di chilometri di distanza; e adesso si trova il pericolo ai confini. Giordania, Siria e Libano, governi storicamente innocui per Israele, possono diventare staterelli fanatici governati dalla Shariah in guerra perpetua contro Sion. L’incubo dell’accerchiamento di assassini e tagliagole, per di più armati dall’Occidente e dai suoi «alleati» arabi, i sauditi. Stati innocui che Israele ha avuto l’abitudine di destabilizzare, tanto per esercitare il suo dominio e far terrore, adesso possono diventare davvero destabilizzati e fanatici. Bisognerà alzare muri nuovi, blindare il ghetto...

Sembra quel vecchio film dei Fratelli Lumières, «L’arroseur arrosè», l’annaffiatore annaffiato. Dopo tanti sforzi per creare «Al Qaeda» come potenza mondiale onnipresente, ci sono riusciti. E il risultato sembra non piacergli.

DEBKA, ben informata di quel che accade oltre il Golan, rende noto che in Siria «i gruppi Al Qaeda sono stati per la prima volta rafforzati dall’arrivo di combattenti talebani dal Pakistan (...) Assassinano tutti i capi ribelli non-islamisti, specialmente comandanti della Free Syrian Army che si mettono in mezzo, e muovono verso Libano e Giordania». DEBKA, giunge fino a dolersi del «limitato aiuto» che Israele ha dato «a certi gruppi siriani ribelli, come cure mediche per i loro feriti e certe operazioni su piccola scala riservate». Forse, dopotutto, era meglio Assad?

Il sorgere dell’improvvisa consapevolezza può spiegare altre cose. Per esempio la precipitosa retromarcia di Washington, che in Egitto ha palesemente «consigliato» il colpo di Stato dei suoi generali egiziani (li paga) per sbattere fuori i Fratelli Musulmani, dopo averli salutati come la prova che in Egitto era arrivata la democrazia, ed adesso sta cercando di presentare il suo generale Al Sissi come un nuovo introvabile Nasser, laico, secolare e modernizzatore. Il punto è che ormai è troppo tardi per tappare di nuovo nella bottiglia, il genio malvagio dell’Islam wahabita, che proprio americani ed ebrei hanno fatto uscire, complici della monarchia saudita.

Gli Stati Uniti sono geograficamente lontani; siamo noi europei, e specie italiani, ad essere troppo vicini al maligno nido di scorpioni, che – coi petrodollari sauditi – ha cambiato troppe «anime e cuori» nelle popolazioni musulmane. Noi soprattutto avremo a che fare con questi fanatici ultra-fanatizzati. Né le forze dell’ordine, né soprattutto i nostri politici col loro buonismo di corta veduta (magari solo in odio alle misure berlusconiane anti-clandestini) e tanto meno i cattolici plaudenti a papa Bergoglio a Lampedusa, capiscono cosa è l’Islam impazzito, aizzati dal wahabismo, e non sono preparati a farvi fronte.

Ben dice Meyssan quando nota che la Confraternita dei Fratelli Musulmani è una galassia di gruppi distinti uniti dal motto «Allah è il nostro fine, il Corano la nostra legge, il Profeta il nostro capo, il Jihad la nostra via, e il martirio la nostra più alta speranza». E che essa è «di fatto la matrice di tutti i movimenti salafisti (ossia che vogliono vivere come i compagni del Profeta) e o takfiristi (ossia che lottano contro gli apostati)». In Egitto, la Fratellanza s’è sempre distinta per opportunismo, praticando il massimalismo a parole e il collaborazionismo nei fatti, cercando di farsi accettare dagli americani e fornendo loro servizi (l’assassinio di Sadat che ha permesso la salita al potere di Mubarak, più gradito a Washington e Tel Aviv; la fornitura dell’attuale «capo di al Qaeda», l’egiziano ex Fratello musulmano Zawahiri...). Adesso il fatto di essere stata cacciata dal potere al Cairo, che effetto avrà su questa formazione? Facile prevederlo: il suo spaccarsi in gruppuscoli incontrollabili da una sola centrale (la centrale opportunista avendo subito uno scacco gravissimo), inveleniti, impazziti: quel che accadde in Algeria negli anni ’90.

Là il partito islamico FIS vinse le prime elezioni libere nel ’91, solo per essere privato dei suoi diritti dal gruppo di potere esistente (i vecchi capi del Fronte di liberazione, arricchiti dai miliardi petroliferi, sostenuti nel golpe dalla Francia di Mitterrand). Da quel momento il movimento islamico algerino si spaccò in decine di sigle che adottarono il terrorismo come sistema. Gruppi largamente infiltrati (anche dal potere algerino golpista), sognanti il Califfato e intanto producentisi in massacri: massacri di musulmani di villaggi, è il caso di notarlo, perché magari renitenti o poco convinti della bontà dei loro metodi. Un decennio di incomprensibile violenza, decine di migliaia di morti. Ammazzati nei modi più orrendi.

Come un musulmano integralista possa credere di fare «jihad» assassinando altri musulmani, e andare in Paradiso a godersi le urì dopo averli sgozzati, è cosa che può sfuggirci: noi saremmo portati ad assicurarlo che finirà nel più profondo degli inferni per lo sterminio gratuito di fratelli di fede. Ma questo integralista ha la sua scappatoia: lui dichiara quegli altri musulmani – quelli che non gli piacciono – «miscredenti», o apostati, scomunicati, kafir. Questo atto di dichiarare musulmani dei miscredenti si chiama appunto takfir, e cova come una perversione permanente nel seno dell’Islam. Oggi, nella versione islamica del «fai da te religioso» che da noi ha aspetti New Age, qualunque estremista o gruppuscolo si arroga la funzione del «takfir» di testa sua (1).

Quelli che sognano come un’età d’oro gli anni dei «primi compagni del Profeta», e sono indotti (da chi?) a sognare il Califfato, sognano in realtà un sanguinoso processo di esclusione («purificazione») intra-musulmano. Il Califfato non è stato istituito da Maometto né è contemplato nel Corano. È un’istituzione umana e politica. Era un’età d’oro?

«I Ben Guidati» sono detti i primi quattro califfi, da Abu Bakr ad Omar, da Otman ad Alì, succedutisi subito dopo la morte del Profeta tra il 632 e il 661 d.C. Ebbene, tre su quattro muoiono assassinati, in un’orgia di complotti, scontri e rivalità fra clan medinesi e meccani (che i primi chiamavano «immigrati», con spregio...) nepotismi, tribalismi, complotti di donne e favorite (i quattro califfi sono parenti del Profeta per matrimonio), favoritismi scandalosi della propria kabila. Alì, messo sù dai medinesi, regna su cinque anni di guerra civile, e viene assassinato da un colpo di spada avvelenato infertogli, mentre usciva dalla moschea a Kufa, da un karajita: ucciso – s’intende – come kafir, miscredente, perché i karajiti erano appunto specializzati nel takfir, dichiarare apostati tutti gli altri.

Altro che età dell’oro. Il secondo califfato, che sposta la capitale a damasco, non pare più aureo. Nel 750 viene terminato da Abu Abbas As-Saffah (ossia «il Sanguinario») che massacra l’intera famiglia del suo predecessore Marwan II e ne prende il posto. Il Sanguinario inizia la dinastia degli Abbassidi, porterà la sua capitale a Damasco a Bagdad, governerà con brutalità inaudita; e sarà il primo ad alzare la bandiera nera, la preferita dagli islamisti estremisti d’oggi che combattono in Siria, pagati dai sauditi ed armati dagli americani, contro altri musulmani.

A farla breve: nei primi 308 anni, si succedono 39 califfi; di essi 13 muoiono di morte violenta o sospetta; un califfo ha una possibilità su tre di finire assassinato o avvelenato. Età d’oro, proprio. I superstiti sconfitti del secondo califfato, l’Ommiade, si rifugiano in Spagna e costituiscono il califfato di Codova. Immediatamente, per intolleranza religiosa, si spaccano in sette che si combattono a vicenda, frantumando il califfato in principati in guerra fra loro (i regni di Taufas, ovviamente indeboliti davanti alla riconquista cattolico-ispanica.

Per non parlare del califfato ottomano, non arabo e perciò ritenuto usurpatore. Basti ricordare che ogni nuovo sultano, appena salito al trono, faceva sterminare tutti i suoi fratelli e fratellastri, figli del califfo precedente e delle tante donne dell’harem, perché potevano rubargli il potere; aggiungendo quando necessario tutti i maschi della sua famiglia, zii nipoti e cugini. Ciò, perché non si riuscì a concepire, anzi nemmeno si tentò, un metodo di successione istituzionale. Anzi di più: tutti i sudditi erano, sul piano giuridico, schiavi del sultano; tutti senza diritti – anche i più influenti consiglieri del Diwan, i ministri e ciambellani, anche quelli colmati di favori favolosi; erano appunto «favori» non diritti. Ciò ebbe una parte imprevista nell’indebolire la risolutezza dei capi navali turchi durante la battaglia di Lepanto, 7 ottobre 1571, quando le sorti volsero a loro sfavore; avevano ragione di ritenere che, se sconfitti, il Sultano li avrebbe perlomeno impalati. Sulla Sultana, la nave dell’ammiraglio in capo, Alì, i cristiani trovarono l’immenso tesoro personale del favorito, 150 mila zecchini: Ali s’era portato con sé l’intera sua fortuna, per evitarne la confisca se fosse caduto il disgrazia presso il sultano Salim.

Unica eccezione a questa scia di sangue: il vasto califfato Fatimide , nato nel 909 da tribù berbere, che fu integratore, religiosamente tollerante, ed ammise nella sua amministrazione, anche nelle funzioni più alte, cristiani ed ebrei. È grazie all’impero fatimide se in Egitto ha potuto sopravvivere la vasta minoranza cristiana copta. Non a caso: i fatimidi erano musulmani ismaeliti ossia sciiti. In quanto seguaci di Alì – cugino e genero del Profeta – a cui ritengono spettasse di diritto il califfato che gli fu usurpato, gli sciiti si vivono essi stessi come minoranza perseguitata dagli arabi e sunniti. I fatimidi sono stati i più decenti, nessuno dei loro califfi è stato assassinato. Ciò non l’ha fatto ammettere nei califfati idealizzati dagli storici sunniti e dagli attuali islamisti estremisti, spiacendo alla schiacciante maggioranza sunnita. Salafisti e takfiristi non lo considerano nell’età aurea.

In conclusione: il takfir cova nel seno dell’Islam come perversione velenosa e permanente, come abbiamo detto. L’assenza di una autorità religiosa dogmatica generalmente riconosciuta nell’Islam rende questa tentazione continuamente presente, essendo perennemente indecisa la domanda «chi è il vero musulmano?». E dunque, è facile per i nemici dividere i musulmani eccitare questa tendenza; come premere un pulsante, l’eccitare il takfir provoca automaticamente orribili lotte ed estremismi feroci, ovviamente esercitantisi anche – a maggior ragione – contro i non-musulmani. Cristiani sono in pericolo estremo; ancorché Maometto non li ponesse fra gli idolatri ma fra i popoli del Libro, i super-islamici li bollano come miscredenti e quindi ammazzabili.

Detto questo, è bene ricordare quali forze sono promotrici oggi del takfirismo, e lo nutrono in proprio. Non c’è molto da cercare: basta indicare il wahabismo, la setta saudita, che grazie ai petrodollari (e al beneplacito di Washington e della nota lobby) ha diffuso i suoi imam, con il loro tipico, ottuso e feroce rigorismo, e la sua predicazione esclusivista. L’Islam che oggi domina, con questi mezzi, è questa versione saudita.

La monarchia dei Saud ha il gioco tanto più facile in quanto ha oggi il possesso dei Luoghi Santi e se ne è fatta protettrice, usurpando il titolo agli hascemiti (i re giordani): guadagnando due volte dall’enorme business dei pellegrinaggi alla Mecca, sia intercettando il grosso dei 50 miliardi di dollari che rende l’industria del pellegrinaggio, sia lucrando legittimità della loro «autorità» presso le anime semplici.

Singolare legittimità, che va alla pari con la reale distruzione, accanita e inarrestabile da parte della monarchia saudita, delle vestigia storiche di Mecca e Medina, che il regime sostituisce con enormi centri commerciali, grattacieli post-moderni e peggio; si pensi che la casa della prima moglie del Profeta, Khadja, è diventata una toilette, e la moschea di Al Haram (il luogo più sacro per i pellegrini) è eclissata dal gigantesco centro commerciale «Jabal Omar» per edificare il quale hanno demolito la fortezza di Ajyad d’epoca ottomana e spianato la collina su cui sorgeva. Il luogo di nascita del Profeta è stato ridotto a bookshop, la polizia «religiosa» wahabita cerca di impedire ai pellegrini la visita ai luoghi dell’era del Profeta; si ritiene che il 95% degli edifici storici dell’età di Maometto siano già stati demoliti. Istruiti ed eccitati dai predicatori wahabiti, gli islamisti estremisti fanno lo stesso dovunque prendono piede; in Tunisia incendiano le tombe venerate dei santi locali, iniziatori delle «catene sufi», il tutto nel silenzio ipocrita, o disorientato, dei fedeli e delle loro «autorità». La distruzione che questi «super-islamici» puristi hanno perpetrato sistematicamente in Siria, sarà nota nella sua misura solo a cose fatte.

In compenso, i rigoristi wahabiti diffondono una vera ossessione per le carni «halal» (un altro grosso affare, la sua certificazione da parte di «sacrificatori musulmani» , simili ai rabbini specializzati in kasheruth). Questo formalismo unito alla sistematica cancellazione delle memorie religiose, vi ricorda qualcosa?

Qualcosa di rabbinico, magari, che si è insinuato nell’integralismo islamico contemporaneo?

Infatti. La diceria dell’origine ebraica della famiglia reale saudita , discendente da un antenato chiamato Mordechai bin Ibrahim, mercante di Bassora, è piuttosto diffusa; come la voce secondo cui il fondatore della setta wahabita, Muhammad ibn Abdul Wahhab, fosse un cripto-giudeo, uno dei «dunmeh» che vivevano nell’impero ottomano. Il giornalista investigativo Wayne Madsen ha condotto un’inchiesta in proprio, anche basandosi su un rapporto della US Defense Intelligence Agency del 2008, che appunto assevera l’ascendenza ebraica della famiglia Saud (in parte basandosi su un rapporto dell’intelligence irachena del 2002).

Non sorprendentemente, Madsen ha scoperto nella faccenda le tracce di operazioni dell’Intelligence Service britannico. Nel XVIII secolo una spia britannica, Hempher, che si faceva passare per azero, affiancò Wahhab, influenzandolo come si deve, allo scopo – permanente per Londra – di suscitare una rivolta araba anti-ottomana (compito cui si dedicherà anche Lawrence d’Arabia); Hempher scrisse le sue memorie che furono ampiamente citate in un saggio di uno storico ottomano, Ayyub Sabri Pasha, che nel 1881 scrisse un saggio sulla «Nascita e diffusione del Wahabismo».

All’inizio della prima guerra mondiale un altro agente britannico, che era anche ebreo e si faceva chiamare David Shakespeare (sic), fu messo al fianco di Ibn Saud (che sarebbe stato il primo monarca saudita) come consigliere militare: ne guadagnò la fiducia tanto che Saud gli affidò il comando di una sua truppa per debellare una tribù rivale. Nel 1915 Saud ebbe uno storico colloquio con il diplomatico britannico per l’area, Bracey Cocas, e diede il suo assenso all’insediamento ebraico in Palestina; accordo preliminare perché, nel 1917 il ministro degli esteri britannico, Lord Balfour, potesse scriverà al barone Rotschild assicurando agli ebrei il «focolare ebraico» sotto gli auspici di Londra in Terrasanta; e poiché la Palestina era ancora sotto gli ottomani, Londra inviò per occuparla oltre un milione di uomini sotto il comando del generale Allenby. In cambio, la lobby fece entrare in guerra gli Usa, ciò che determinò il tracollo degli imperi centrali. Nel 1932, ovviamente, furono i britannici a mettere Ibn Saud al trono come re d’Arabia.

Era una scelta ben ponderata. Il 17 settembre 1969 re Feisal, il re saudita di quegli anni, rilasciò un’intervista al Washington Post in cui diceva: «Noi, la famiglia Saud, siamo cugini degli ebrei; siamo in totale opposizione con qualunque autorità araba o musulmana che mostri antagonismo verso gli ebrei. Dobbiamo vivere in pace...». In pace coi giudei. Ma nel «Libro di Storia Saud», testo ufficiale della famiglia, è detto esplicitamente che la dinastia Saud non ritiene vero musulmano chi non appartenga alla setta Wahabi. Sicché gli altri islamici sono apostati e blasfemi; il che autorizza a versare il loro sangue, prendere le loro donne concubine, raderne al suolo gli abitati e confiscarne le proprietà. (The Saudi Royal Family Are Crypto-Jews)

Insomma, le tesi che animano salafiti e takfiriti in lotta contro il regime secolarizzato in Siria, che uccidono cristiani dalla Nigeria all’Egitto e fanno saltare tombe di santi sufi. È davvero ironico che costoro credano di seguire una dottrina islamica rigorista e «pura» e intransigente, che è in realtà elaborata da cripto-giudei; e che loro così «veri» musulmani pronti alla guerra santa, siano ancora una volta manipolati dai loro nemici, e vittime di un «état d’esprit» collettivo creato i ambiente dunmeh. Ahimè, il senso dell’umorismo manca negli ambienti jihadisti, troppo impegnati ad odiare altri musulmani...

Adesso che la virulenza jihadista si avvicina troppo alle frontiere israeliane, allarmando lo Stato ebraico, sarà interessante vedere cosa farà la centrale dei Saud che largamente la manovra: verso quali obiettivi svierà la demenza sanguinaria jihadista? Ci siamo sempre noi europei, «infedeli» di facile bersaglio.

Intanto, dell’ebraismo dei Saud ho avuto una conferma inaspettata e indipendente. Da un lettore di questo sito, gran viaggiatore per lavoro, che da una capitale estremo-orientale mi scrive di un suo strano incontro:

«...ero in un nightclub di mala morte quando mi sono trovato in questa situazione: un wahab, completamente ubriaco, che mi prese per un ebreo (in verità ho qualche somiglianza...) mi abbraccia e dice: noi principi wahab siamo dei conversi ebrei. Sembra sia avvenuto 150-200 anni fa. Una cosa del genere non l’avevo mai sentita; ma il tizio era troppo ubriaco per dire bugie».

Il lettore mi chiede cosa ne penso di questa storia. Ora lo sa. E grazie a lui sappiamo che nell’ambiente dei «principi wahabi» c’è tutt’ora la coscienza di essere dunmeh, cripto-giudei e falsi musulmani. L’incontro del lettore ricorda molto da vicino quello che Itamar Ben-Avi, un giornalista ebraico sionista, ebbe (come ricordò nelle sue memorie) «con un giovane capitano dell’esercito ottomano a Gerusalemme, nel bar dell’hotel Kamenitz in cui alloggiavo». Era l’inverno del 1911. Fra un bicchiere e l’altro di raki, il giovane capitano turco confidò commosso all’altro che anche lui in realtà era ebreo; giunse a cantare lo «Shemà Ysrael» (Shema Ysra’el, Adonai Elohenu, Adonai Ehad), e disse: «È la mia preghiera segreta». Questo ufficiale era Mustafà Kemal, il futuro Ataturk, il liquidatore del califfato ottomano. http://islamreinfo.wordpress.com/2013/06/13/wayne-madsen-les-donmeh-le-secret-le-plus-chuchote-du-moyen-orient/




1) Sembra che esistano hadith o detti memorabili del Profeta, che paiono condannare chi si affretta a fare «takfir», ossia a denunciare affrettatamente di apostasia altri musulmani. Si veda qui.


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