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Il vero ecumenismo in viaggio attraverso le dottrine dell’India
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Nei lunghi e tormentati anni del postconcilio la cultura cattolica ha manifestato una energica e inflessibile attitudine a criticare l’ideologia consumista e a condannare le devianze «modaiole» e le pratiche viziose suggerite dai messaggi lanciati dai promotori della spesa voluttuaria.

Purtroppo la propaganda cattolica, opportunamente intesa a suscitare resistenze al consumismo e all’immoralità ad esso associata, si è ridotta al silenzio «ecumenico» davanti alle porte dei santuari pagani e/o neopagani, che sono dedicati a «entità» nel nome delle quali si giustificano, oltre le violenze, i lussi scandalosi, gli squallidi vizi e le bestiali perversioni.

I nuovi teologi sognavano una chiesa universale, una radunata delle religioni finalizzata alla «pax mundi» e intonata alla tolleranza perfetta ossia alla «non vedenza» degli errori e dei mali associati alle false religioni. In ultima analisi i teologi «conciliari» desideravano una Chiesa calata nella neutralità silente e nella messa in parentesi di qualunque giudizio discriminatorio intorno agli oscuri orizzonti contemplati dagli erranti e alle discutibili «pratiche» ammesse o addirittura consigliate dalle false religioni.

Al seguito di una tale, «distratta» o non vedente pastorale l’ecumenismo diventò subalterno allo scetticismo «liberale» e obbediente al categorico imperativo di non indagare sugli errori e sui canonici peccati delle altre fedi. In ossequio al perfetto criterio irenistico e buonistico, alla prima adunata interreligiosa di Assisi furono invitati perfino esecutori di arcaici e selvatici riti, ad esempio due stregoni che officiarono (su un altare cattolico) il «pio» rito dello sgozzamento di galline. Per fortuna i sacerdoti del buddismo tantrico, onorati ospiti alla festa pseudo ecumenica di Assisi, si astennero dalla esecuzione dei loro caratteristici «riti», evitando lo scandalo di una scena orgiastica celebrata contro natura nella basilica di San Francesco.

Grazie a Dio, la memoria dei secoli missionari indica una via d’uscita dalla strettoia babelica in cui versa la pastorale. La storia dell’evangelizzazione «prima dell’infortunio ad Assisi», rammenta che il dialogo con i non cattolici fu preferibilmente indirizzato alle persone che la buona filosofia aveva allontanato dall’irrazionalismo pagano. Sant’Agostino, ad esempio, stabilì un dialogo fecondo con i platonici e i neoplatonici, perché nella loro filosofia leggeva il progetto di superare l’antica superstizione panteista-monista e i suoi prolungamenti nel delirio filosofante e nell’oscenità. Il sano criterio applicato da Sant’Agostino non è superato ma confermato dall’involuzione «ultima» del pensiero moderno.

Le sedicenti avanguardie filosofiche, impegnate nella promozione dell’ateismo radicale, infatti, raccattano antiche avversioni alla filosofia platonica o fanno riferimento ai poemi dell’antichità greca contestati e superati dal platonismo: si pensi al rifugio cercato da Marx nell’epicureismo, al rovente disprezzo che Friedrich Nietzsche nutriva nei confronti del platonismo, al culto quasi superstizioso che è tributato dagli heideggeriani e dagli atei «d’ultima frontiera» all’arcaico, desolato frammento di Anassimandro e alla fonte parmenidea cui si appella continuamente il panteista bresciano Emanuele Severino.

Va da sé che la preferenza accordata dai missionari ai non cristiani, che nutrivano pensieri in qualche modo  conformi alle verità di ragione, suggerisce un ordinato svolgimento del dialogo inteso al proselitismo, senza mai scadere nell’intenzione di escludere gli uomini che professano fedi superstiziose. Per nessuna ragione i missionari possono ignorare la verità sulla scala gerarchica che mette ordine nelle credenze dei popoli da evangelizzare. La rivelazione ai pagani, peraltro, non ebbe inizio dal compromesso con l’errore ma dall’appello di San Paolo alla verità oscuramente professata dagli ateniesi, che avevano dedicato un tempio al Dio sconosciuto.

L’annuncio cristiano, prima che a far «tabula rasa» della superstizione, è inteso a perfezionare, benedire e santificare i frammenti di verità attinte dalla sapienza naturale. Di qui la necessità di conoscere seriamente, attraverso un viaggio ecumenico «vedente», le luci e le ombre delle religioni e delle filosofie professate dai popoli che attendono la luce del Vangelo. Solo obbedendo al criterio collaudato dalla plurisecolare esperienza si stabilisce un dialogo seriamente finalizzato alla conversione dei non cristiani.

Un importante contributo alla conoscenza di una fra le più complesse, ricche e articolate tradizioni non cristiane si deve ultimamente a un filosofo e filologo italo-tedesco, Sebastian Kunkler, che ha esplorato, con animo rivolto all’autentico ecumenismo, le numerose e contraddittorie teologie e filosofie dell’India vedica. Kunkler ha esaminato le dottrine delle scuola vediche e fra le tante ha scelto il «Dvaita Vedanta» o «Madva Vedanta», una scolastica che ha contrastato e rovesciato il panteismo o monismo ontologico, propriamente la tendenza a riunire in un’unica sostanza i differenti aspetti dell’essere.

Śrī Madhvācāryaḥ
  Śrī Madhvācāryaḥ
La metafisica prevalente nell’India vedica suscita la memoria intorno alla filosofia eleatica: Samkara, che ha fondato nel secolo VIII dopo Cristo la più autorevole scuola di pensiero indiano, può essere legittimamente paragonato a Parmenide. Madhva (Śrī Madhvācāryaḥ, 1238-1317) ha invece fondato la scuola della quintuplice distinzione: Dio e le anime, Dio e gli enti fisici, le anime e gli enti fisici, le anime le une dalle altre, gli enti fisici gli uni dagli altri. Per facilitare l’approccio degli italiani alla scuola che ha elaborato una dottrina che riconosce, in qualche modo, la trascendenza dell’unico vero Dio, Kunkler ha tradotto e commentato puntualmente il saggio che Swami Tapasyananda ha dedicato alla vita e al pensiero di Madhva.

Il volume sarà pubblicato quanto prima in Chieti dall’editore Marco Solfanelli. Chiarite le differenze che corrono tra la filosofia di Madhva e la filosofia di Tapasynanda, Kunkler dimostra che il suo autore è vicinissimo al realismo metafisico e non distante dalla metafisica tomista.

Al proposito Kunkler cita l’interpretazione formulata dal professore Raghavenrachar dell’università di Mysore, secondo cui Madhva sostiene l’esistenza di una Causa prima creatrice, l’unica veramente increata e indipendente, mentre ogni altro ente deve essere dipendente anche al livello del suo essere creatura, cioè fondata quanto all’esistente in Altro da lei, in una ragion determinante (sufficiente) divina e non solo dipendente quanto all’operare.

Le testimonianze su Madhva, delle quali è annunciata la prossima pubblicazione, aprono una breccia nel muro fumoso che fu alzato dalle false convinzioni destate dai teologi intesi, al seguito di Karl Rahner, ad affondare le irriducibili differenze nel calderone di una salvezza che abolisce la responsabilità umana e l’obbligo di scegliere tra la verità e l’errore.

Piero Vassallo


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