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Forse il Messia è arrivato. Il loro, almeno
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«Gesù disse ai suoi discepoli: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla legge neppure un iota o un segno senza che tutto sia compiuto».

Forse non a tutti è chiaro perché Cristo dice questo ai giudei in Matteo (5. 17-19), il più ebraico dei Vangeli: contrasta una forte convinzione ebraica, secondo cui il Messia, venendo, libera il popolo dalla Legge, la abroga, e permette ciò che è vietato.

Una rivelatrice profonda insofferenza della norma – propria di spiriti bassi: «il nobile aspira ad un ordine e ad una legge, vivere a proprio gusto è da plebeo», sancì Goethe –, e una intima protesta contro la Legge mosaica, proprio mentre i giudei se ne caricavano il peso sempre più, inventandosi nuovi tabù divieti, colmi di nevrotiche ansie di impurità. Il tema di essere liberato da Gesù dal peso inutile, dalla catena della Legge percorre tutte le lettere di San Paolo, lo studente rabbinico: «Siamo stati liberati dalla legge, essendo morti a ciò che ci teneva prigionieri, per servire nel regime nuovo dello Spirito e non nel regime vecchio della lettera» (Romani 7), «la legge infatti non ha portato nulla alla perfezione (Ebrei 7, 19), «dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno»»... Sì, anche Paolo saluta in Gesù colui che lo ha liberato dalla Legge. Continuamente oppone alla Legge la fede, la grazia e la carità, un nuovo regime di libertà. Giunge quasi ad identificare la Legge mosaico-deuteronomica con il peccato stesso, o la causa del peccato.

E tuttavia lo stesso Paolo precisa: «...Ci metteremo dunque a peccare perché non siamo sotto la Legge, ma sotto la grazia? È assurdo!» (Romani, 6, 15). Evidentemente, si oppone ad una convinzione vigente e diffusa: che il popolo eletto, dopo la venuta del Messia, può liberamente mettersi a peccare.

Sappiamo (1) che nell’anno 1666 centinaia di migliaia di ebrei, fra cui eminenti rabbini, credettero al Messia Sabbatai Zevi, proprio perché compiva trasgressioni della Legge: si vestiva da sposa, pronunciava ad alta voce il nome vietato di YHVH, il Tetragramma. Fatto singolare, fra i più convinti seguaci di Zevi erano rabbini insigni cabbalisti e talmudisti discendenti dalla stessa tradizione dei farisei che, al più antico Messia, non facevano che rimproverare di infrazioni alla Legge: miracolava il Sabato, i suoi discepoli non si lavavano le mani prima dei pasti, cenava con prostitute e pubblicani…

Sabbatai, in pompa magna e con seguito di ebrei deliranti di gioia, si mise in viaggio per Costantinopoli: poiché il regno messianico è «di questo mondo», il sultano gli avrebbe ceduto il trono, anzi il diwan. Arrestato il 6 gennaio del 1666, il 16 dicembre il neo messia fu portato davanti al sultano che gli offri salva la vita se si fosse convertito all’Islam. Altrimenti, sarebbe stato impalato.

Come noto, Sabbatai si fece musulmano. Molti dei suoi seguaci, anziché dichiararsi delusi, videro nella sua apostasia la conferma definitiva del suo stato messianico: il Messia ha compiuto la massima trasgressione della Legge, scendendo oltre le «porte d’impurità». Molti lo seguirono nell’apostasia sacra, fingendosi musulmani però restando ebrei in segrete sinagoghe, e mantenendo una stretta endogamia. Ma ebrei che, siccome il Messia è venuto, non hanno più obblighi con la Legge e le norme morali. Sabbatai Zevi in persona ricompose la tradizionale preghiera mattutina ebraica, «Benedetto tu Signore, Dio dell’universo, che liberi coloro che sono schiavi» (mattir assurim) in «che permetti ciò che è vietato» ( con un lieve mutamento: mattir issurim). Orge ed incesti furono praticati in rituali segreti dai sabbatei e dai loro discendenti in Turchia: «Dervish Effendi, capo degli Izmirlik (i sabbatei di Smirne), grande cabbalista, aveva difeso apertamente la dottrina mistica dello scambio delle donne e della fornicazione rituale» ancora nel ‘900, secondo lo storico di questi mistici giudaismi, Gherson Scholem.

Morto Sabbatai, la vedova Aisha si coniugò con il proprio fratello, Jacob Querido, in cui aveva «riconosciuto» l’incarnazione del Messia Sabbatai. Il figlio di questa unione si chiamò Osman Baba per i turchi ignari, ma nella setta fu il famoso Baruchia Russo, auto-dichiaratosi dio incarnato. La setta dei sabbatei – dunmeh vengono chiamati in Turchia – prosperò. È istruttivo ricordare che quando nel 1909 la società segreta dei Giovani Turchi s’impadronì del potere ottomano, esautorando il sultano con un colpo di Stato, la giunta putschista contava un ebreo, Emmanuel Carasso di Venezia, gran massone e fiduciario della Banca Commerciale Italiana – ed anche tre dunmeh importanti. Il più importante di loro, il Ministro delle finanze Djavid Bey, era discendente diretto di Baruchia Russo e capo della setta. S’intende che all’esterno, i dunmeh instaurarono un governo laicissimo, progressista, secolarista modernizzante – perciò sostenuto da grandi banche ed esaltato dalle logge e genocida.

La giunta si dedicò allo sterminio degli armeni, antica aspirazione ebraica. Talaat Pasha, uno dei tre dunmeh al potere, emanò direttive di questo tenore:

«Tutti i diritti degli armeni che vivono e lavorano sul territorio turco sono abrogati. La responsabilità di ciò viene assunta dal Governo, il quale ha ordinato di non risparmiare neppure gli infanti nelle culle. I risultati dell’esecuzione di questo ordine sono evidenti in varie provincie. Nonostante ciò, per ragioni a noi sconosciute, trattamenti speciali sono accordati a ‘certi individui’ i quali, invece di essere esiliati direttamente verso le aree di deportazione, sono tenuti ad Aleppo, causando al Governo nuove difficoltà. Non si ascoltino le loro spiegazioni o ragionamenti; li si espellano, siano donne e bambini, incapaci di muoversi. Invece dei mezzi indiretti usati in altre zone (allusione alle «marce della morte», dove centinaia di migliaia di armeni furono spinti a bastonate verso l’interno dell’Anatolia, senza meta, finché morivano di fame, sfinimento, brutalità e violenza e occasionali massacri organizzati soprattutto dai curdi, ndr) è fattibile usare metodi diretti con sicurezza. Informare gli ufficiali designati a questa operazione, che possono adempiere al nostro scopo reale senza timore di esserne tenuti responsabili» (dalle Memoirs of Naim Bey, Londra 1920, citate nella monumentale opera di E. K. Sarkisian e R. G. Sahakian, «Vital Issues in Modern Armenian History: A Documented Exposé of M isrepresentations in Turk ish Historiogr aphy , Armenian Studies Watertown, Massachusetts, 1965, p. 38).

L’intenzione di arrivare alla «soluzione finale», come qui si vede, è stata scritta nero su bianco, al contrario della volontà di soluzione finale da parte hitleriana, di cui manca documentazione scritta. Come poi il genocidio degli armeni venga accollato al califfo ottomano anziché ai putschisti dunmeh che l’avevano detronizzato, è uno dei miracoli della narrativa ebraica.

Come forse saprete, la storia testimonia di un altro messia, Jacob Frank, nativo della Galizia (1726-91): anche lui si disse la reincarnazione di Sabbatai Zevi, anche lui si convertì falsamente: al cattolicesimo, vivendo in ambiente polacco, e con migliaia di seguaci. Frank convinse molti Vescovi polacchi che la sua conversione avrebbe agevolato quella di tutti gli ebrei nei tempi ultimi. Diede alla setta una tinta rivoluzionaria e politica. Profetizzò una rivoluzione comunista, a cui preparò i suoi seguaci imponendo loro una formazione militare.

Il Talmud, Sanhedrin 97a, specula che il Messia trionferà quando il mondo sarà totalmente buono oppure totalmente cattivo. Frank decise che era più facile adoprarsi a rendere il mondo marcio: tradire gli stessi ebrei era il compimento del giudaismo. Il Talmud vieta il ritorno in massa degli ebrei in Terrasanta, come mezzo illecito di accelerare l’avvento messianico; i frankisti, contro i rabbini, elaborarono forse il primo germe del sionismo politico. Vari passi della Torah assicurano che Dio farà tornare il suo popolo eletto in Israele, dopo averlo punito per la sua malvagità: la teologia frankista incita dunque a commettere malvagità su una dimensione titanica, come azione sacramentale onde attrarre sugli ebrei un orribile castigo divino, olocausto senza precedenti e poi, di conseguenza, accelerare l’era messianica.

L’infiltrazione nella comunità cattolica fu un altro mezzo per corrompere quella religione: era obbligo dei frankisti praticare il nichilismo e l’inganno, e infiltrare – forniti di nuovi cognomi polacchi, spesso nobiliari (erano quelli dei loro aristocratici e ingenui padrini di battesimo) – i piani alti della classe dirigente europea dell’epoca.

Scholem cita una frase di Jacob Frank: «Tanto vi dico: Cristo, come sapete, ha detto di esser venuto per redimere il mondo dalle mani del diavolo, ma io devo redimere il mondo da tutte le leggi e i costumi che sono esistiti. È mio compito annichilire tutto ciò onde Dio si manifesti. Dovunque Adamo ha posato il piede è sorta una città, dovunque io passo tutto sarà distrutto, perché sono venuto al mondo per distruggere e annichilire. Non sono venuto in questo mondo per elevarvi, ma per affondarvi nel più profondo dell’abisso. Tanto a fondo che non si possa andare più in basso, né risollevarsi per forza sua, perché solo il Signore può sollevare con la forza della sua mano». Di suo, Frank prostituì moglie e figlia (la bella Eva) per barattare favori d influenza dai potenti; in seguito impose attorno ad Eva un culto ricalcato sulla Vergine Nera di Czestokhowa.

Alla voce Frank, Jacob, l’Encyclopedia Judaica recita: «Il motto che Frank assunse fu massa dumah (Isaia 21:11) a significare il peso del silenzio, la necessità di tacere assolutamente la fede celata nell’abolizione di ogni legge. (...) Gesù di Nazaret non era che la scorza, la quale nascondeva il frutto, che era Frank stesso. Benché prescrivesse ai suoi una scrupolosa adesione esterna al Cristianesimo, gli vietava di mischiarsi ai cristiani o di sposarsi con essi, perché nel fondo la speranza di Frank restava di un futuro ebraico, anche se in forma ribelle e rivoluzionaria. Frank viaggia Vienna, con sua figlia, nel 1775 e fu ricevuto in udienza dall’imperatrice (Maria Teresa) e dal suo figlio, il futuro Giuseppe II. Secondo alcuni, Frank promise all’imperatrice l’aiuto dei suoi seguaci in una campagna per conquistare parte della Turchia, ed effettivamente furono successivamente inviati in Turchia emissari frankisti, ad operare in stretto contatto coi dunmeh, forse come agenti e spie dell’impero absburgico. A quel tempo Frank parlò molto di una rivoluzione generale che avrebbe rovesciato i regni, e la Chiesa Cattolica in particolare; arrivando a sognare la conquista di territori nelle guerre della fine dei tempi, che sarebbero stati sotto il dominio frankista».

Uno stretto parente di Jacob partecipò alla Rivoluzione francese: era Moses Dobruska, alias Junius Frey, alias Franz von Schoenfeld, secondo l’opportunità e gli ambienti in cui si infiltrava. Come Dobruska o Frey si distinse fra i giacobino e fondò una loggia massonica. Durante il Terrore fu ghigliottinato, lo stesso giorno in cui fu giustiziato Danton.

Nel 1799, dalla sede frankista di Offenbach – dove regnava Eva Frank – partì una «epistola rossa» per tutte le comunità giudaiche del mondo, con l’invito ad abbracciare la «religione di Edom» (il cristianesimo) per sovvertirlo. Il peso del movimento frankista nei moti rivoluzionari è inaccertabile, data la stretta clandestinità e l’obbligo del silenzio settario: appaiono solo certe punte dell’iceberg. Certo è che nel 1848 scoppiarono moti rivoluzionari «liberali» e di sinistra in tutte le capitali europee: la simultaneità fece pensare allo stesso Mazzini all’opera di «Superiori Sconosciuti» con cui cercò di mettersi in contatto. Quando la rivoluzione pan-europea del 1848 fallì, per opera di Metternich e dello Zar, un buon numero di famiglie frankiste – sia o no coincidenza – persa la speranza di instaurare un nuovo ordine «progressista» in Europa, emigrarono negli Stati Uniti dove conquistarono presto alte cariche nel Governo USA.

Uno dei maggiori esponenti fu Louis Dembitz Brandeis, che il presidente Woodrow Wilson aveva imposto alla Corte Suprema – contro l’accanita opposizione del Senato. Brandeis, per la sua speciale influenza su Wilson, fu cruciale nel trascinare nella prima guerra mondiale gli Stati Uniti a fianco della Gran Bretagna, secondo quanto avevano promesso gli esponenti sionisti a Londra, in cambio della promessa del «focolare ebraico» in Palestina. Praticamente fu Brandeis – che teneva il ritratto di Eva Frank sulla scrivania di giudice – a stilare la «dichiarazione Balfour», in cui il Ministro degli Esteri inglese sir Arthur Balfour prometteva al barone Rotschild il «focolare» in Terrasanta. L’intervento americano fece tracollare la guerra a sfavore degli Imperi Centrali, proprio mentre questi stavano sondando il terreno per giungere ad un armistizio alla pari, senza vinti né vincitori.

Fino a quel momento la potente comunità ebraica americana era neutralista, anzi simpatizzava con la Germania. Il Ministro francese Aristide Briand, inviato in USA per ottenere l’appoggio dei banchieri ebrei, li trovò duri: niente appoggio agli Alleati, la cui colpa era di essersi alleati con l’odiato impero zarista. «Per la Russia hanno un odio universale», scrisse Briand; «Ci si rimprovera di tollerare la persecuzione degli ebrei russi...». Di lì a poco, la rivoluzione bolscevica avrebbe abbattuto l’ostacolo. Il 22 marzo 1917 Jacob Schiff, della banca d’affari Kuhn, Loeb & Co., scrisse al figlio Mortimer: «Dobbiamo stare attenti a non apparire troppo zelanti, ma tu puoi telegrafare a Cassel che, data la recente azione della Germania (la dichiarazione di guerra ai cargo neutrali con gli U-boot) e gli sviluppi in Russia non ci asterremo più dal finanziare i Governi alleati quando l’occasione si offra».

Contemporaneamente, Jacob Schiff spediva un telegramma di congratulazioni al Governo provvisorio russo, quello liberale di Aleksandr Kerenski, per aver liquidato il regime degli «spietati persecutori dei miei correligionari». Gli USA, al Governo Kerenski, aprirono immediatamente una linea di 190 milioni di dollari, perché «è di incommensurabile importanza per gli ebrei che la rivoluzione riesca», aveva scritto l’Ambasciatore americano in Russia, David R. Francis. Il primo atto del Governo Kerenski era stato di rimuovere tutte le restrizioni vigenti in Russia per gli ebrei, e di emanare leggi penali contro «l’antisemitismo». In quello stesso marzo, Lev Davidovic Bronstein, alias Lev Trotski, partiva da New York diretto in Russia con un fondo di decine di milioni di dollari in oro della Kuhn & Loeb per finanziare la rivoluzione ulteriore, la bolscevica.

Il quadro dell’epoca assunse l’aspetto profetizzato da Frank, una rivoluzione generale in cui sarebbero morti regni millenari in un’orgia di violenza, disordini, sangue, fra abiezione morale e abolizione di ogni legge. Non manca nemmeno la conquista di territori «sotto dominio frankista». In queste «guerre della fine dei tempi».

Perché ho rievocato queste cose? Chiamatela pure suggestione. Ma nell’immane stagione di disordine artificialmente provocato, la dozzina di guerre e massacri in corso nel mondo globalizzato, scontri dove tutto è permesso e si decapitano i nemici e gli innocenti non solo in Siria ma in Ucraina, e si sgozzano i bambini a Gaza; in questo tempo di fosse comuni, di miseria crescente, di crisi economica mondiale senza uscita, a tutto questo si aggiungono volontà come matrimonio fra omosessuali, fecondazioni eterologhe, trapianti di utero, la viscida «bontà» di disporsi a dar l’Eucarestia ai divorziati risposati – tutte insieme, queste pretese configurano una rivoluzione culturale ulteriore, un attacco finale contro la Legge, contro ogni legge e norma non solo morale, ma contro la natura stessa.

È il limite sentito come scandalo, il rigetto della propria finitezza: il voler essere dèi. È l’equivoco di supporre che «il comandamento della legge sia la matrice del peccato» – e dunque, abolita la legge resta abolito il peccato – «quando invece è il peccato che è presupposto della legge» (2), che la rende necessaria. In questi momenti, se no, perché dovrebbe apparire sui giornali – nella fattispecie su Il Fatto Quotidiano del 29 settembre, a firma di tale Elisabetta Ambrosi – l’articolo che qui di seguito vi trascrivo?

«Incesto, ecco perché ha senso depenalizzarlo».

Ecco il testo:

«Premessa: del tema incesto è quasi inutile parlare in Italia, Paese dove qualsiasi proposta libertaria sui cosiddetti temi «etici» (come se tutto il resto, dalle riforme del lavoro ai tagli, fosse senza conseguenze sulle persone), suscita reazioni indignate – che gridano al relativismo e allo sfaldamento sociale – perfettamente strumentali a che tutto resti inalterato. E però vale la pena commentare il documento del Consiglio etico tedesco dal quale viene l’indicazione di depenalizzare l’incesto. Un documento che propone argomentazioni a mio avviso giuste: per prima, quella per cui «non è compito del diritto penale applicare standard morali o porre limiti alle relazioni sessuali tra cittadini adulti e consenzienti, ma difendere i singoli dai danni e da gravi disturbi». Un principio liberale semplice e ovvio, ma che nel nostro Paese ancora – che punisce una creazione incestuosa, soprattutto quando ne derivi un «pubblico scandalo», con il carcere, da uno a otto anni – fatica ad essere accettato, e non solo su temi come l’incesto. Eppure sarebbe estremamente semplice dirimere questioni morali che solo a chi ha pregiudizi appaiono complesse: se un’azione morale crea danni ad altri, va vietata, altrimenti no. Che tipo di danni può creare una relazione sessuale tra consanguinei? Quando non ci sono figli, nessuna, quindi non dovrebbe interessare lo Stato, quando il rapporto è consensuale.

(...). Per fortuna, comunque, con la legge che equiparava figli naturali e illegittimi è arrivata anche la possibilità di riconoscere i figli di relazioni incestuose (anch’essi portatori di diritti, esattamente come tutti i bambini), che prima era vietata. L’obiezione potrebbe essere: ma se si riconoscono i figli di relazioni incestuose e si depenalizza l’incesto, il passo successivo non potrebbe essere addirittura anche il matrimonio tra consanguinei? Non è detto. Dal punto di vista liberale, forse un’ipotesi del genere non dovrebbe essere del tutto esclusa, ma resta altrettanto vero che andrebbero favorite le pratiche che agevolano l’incontro tra diversità e ricchezze biologiche. Ma allora, se vogliamo seguire rigorosamente il ragionamento, proprio chi considera tabù l’incesto dovrebbe con coerenza difendere e incoraggiare la diversità e l’unione tra diversi in ogni caso, non solo quando il “diverso” rientra tra i suoi standard morali: ad esempio eterosessuale, sposato, cattolico, in una parola come ci hanno insegnato i serial televisivi, “bianco caucasico”».

Ciò che colpisce qui è la vacuità gratuita, che intende essere provocatoria, dell’argomentare. Non c’è alcuna spiegazione del perché «ha senso depenalizzare» l’incesto, se non il gratuito infrangere «un tabù», di buttarlo in faccia ad un immaginario «eterosessuale, sposato, cattolico», da insultare per la sua normalità, anzi in quanto normo-tipo. Che infinita stupidità, che bassezza – e che conformismo. Ormai l’anomia è una banalità per signore, il luciferismo è sanitizzato e la trasgressione estrema ha il bisogno di essere riconosciuta rispettabile dai tribunali. E nemmeno riesce a capire, la signora, che «legalizzazione dell’incesto», e decapitazioni, lo sterminio e i massacri e i milioni di profughi in fuga, c’è un nesso necessario e profondo: che nascono dalla stessa pulsione – il rigetto della Legge.

Forse è davvero arrivato il Messia, e le ultime briciole di leggi vengono abolite, sui giornali si prescrive una discesa ulteriore nell’abisso frankista, «tanto a fondo che non si possa andare più in basso». Ma sì, si può andare più in basso. Ancora un poco di più, ancora un sforzo per il peggio, quello che avete già non vi basta?...

Sì, il Messia di Frank dev’essere arrivato, se le leggi sono così risibili e caduche. È interessante che nella sapienza islamica, questo Messia sia chiamato il Ciarlatano. È gran tempo di ciarlatani. Imperversano in tv, sui giornali, nelle più alte sedi.




1
) Se si è letto Maurizio Blondet, Cronache dell’Anticristo, EFFEDIEFFE Edizioni.
2) Questa idea che sia la legge a far esistere il peccato percorre, come una tentazione rigettata, il tormentato passo di San Paolo in Romani 7,7:  «Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto e io un tempo vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita e io sono morto; la legge, che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte. Il peccato infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte. Così la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento. Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero! È invece il peccato: esso per rivelarsi peccato mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento».




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