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I cosmologi: il tempo sparirà
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«Il tempo qui si muta in spazio»: così nel Parsifal, Wagner fa descrivere Monsalvat, la fortezza dov’è custodito il Graal, immagine del Paradiso terrestre, Mons Salvationis. Chi ha suggerito una simile definizione dell’eternità al musicista sensuale e sovversivo, ben poco esoterico fino a quell’opera? (1)

Fatto sta che l’intuizione mistica là evocata sembra trovare una sensazionale conferma da un gruppo di cosmologi spagnoli dell’università del Paese basco e della storica università di Salamanca. I loro nomi, José Senovilla, Marc Mars e Raoul Vera. Il tempo non è una costante cosmica; anzi sta rallentando, e un giorno scomparirà. «A quel punto tutto sarà immobilizzato, come la foto di un istante, per sempre», ha detto il professor Senovilla a New Scientist.

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La loro è una geniale ipotesi per spiegare uno dei più noti e strani fenomeni del cosmo: il fatto che l’universo sembri espandersi a ritmo accelerato. L’osservazione delle supernovae, con la loro luce che si sposta verso il rosso dello spettro, prova non solo che si stanno allontanando da noi, ma che le più lontane galassie si allontanano a velocità maggiori – tanto più accelerate quanto più sono lontane dal centro dell’universo.

È un assurdo logico e fisico – le galassie più lontane dovrebbero se mai rallentare, essendo state le prime a dipartirsi dal (presunto) Big Bang – che i fisici hanno finora provato a risolvere supponendo l’azione di una enigmatica forza anti-gravitazionale che disperde le galassie l’una dall’altra, che hanno chiamato «energia oscura» per analogia con la «materia oscura», l’altra fantomatica entità (sfugge alla ricerca sperimentale, benchè supposta comporre il 90% della massa dell’universo) ipotizzata per spiegare la potente gravità che tiene insieme il cosmo.

Il guaio è che l’energia oscura non è meno sfuggente della materia oscura; nessuno sa cosa sia e da dove venga; l’una e l’altra sono sospettate di essere puri espedienti mentali per tenere in piedi il modello cosmologico oggi accettato, ma sempre meno soddisfacente.

Senovilla e colleghi hanno proposto un’alternativa ingegnosa: non esiste alcuna energia oscura, dicono; noi abbiamo solo l’impressione che l’universo sia in accelerazione quanto più le sue galassie sono lontane, perchè in realtà è il tempo che sta rallentando.

Sì, gli ammassi stellari che si allontanano da noi appaiono più «rossi» di quelli che si avvicinano (segno che la frequenza della loro luce si «stanca», per l’effetto Doppler) ed anzi tanto più rossi quanto più sono lontani; fino ad oggi, abbiamo interpretato questo come un’accelerazione, perchè continuiamo a ritenere il tempo una costante in tutta la vita dell’universo. Ma si ritiene che l’universo sia nato circa 14 miliardi di anni fa; la luce che quelle lontanissime galassie ci mandano, è quella che sprigionarono, diciamo, dieci miliardi di anni fa, o ancor più antica e vicina all’origine del cosmo. Esse vivevano quando il tempo era più rapido,e perciò appaiono accelerate a noi, che le guardiamo dal nostro tempo, che è rallentato. È questione del punto di vista.

«Non affermiamo che l’espansione dell’universo sia illusoria», precisa Senovilla, «ma che sia illusoria l’accelerazione con cui si espande». Non sono quegli ammassi che si allontanano a velocità accelerata; è il «loro» tempo ad essere (essere stato) più veloce. In qualche modo, è come riprendere la realtà con una videocamera al rallentatore, e poi riprodurre la scena alla velocità standard: l’effetto-Ridolini che fa’ sembrare tutto accelerato. Con la differenza che qui, la videocamera è il tempo,e noi siamo quelli ripresi. Alla fine, la videocamera diventa una fotocamera: la macchina fotografica assoluta, che scatta una sola immagine: l’ultima.

Se ho ben capito, gli scienziati affermano appunto che via via che il tempo rallenta, gli eventi sembreranno avvenire sempre più rapidamente, fino a quando – fra altri miliardi di anni (ma come calcolare gli «anni» di un tempo rallentato?) – il tempo si fermerà – o meglio sparirà – e tutto sarà congelato: resterà solo lo spazio. O almeno così sembra inteso. «Il nostro pianeta sarà sparito da molto tempo», ci tranquillizzano i cosmologi.

Non ho i mezzi per commentare tale teoria, nè so come si situa nella convinzione ormai accettata del «continuum spazio-temporale» della fisica post-einsteiniana. Ma come ogni meditazione sul tempo affascina (è flusso del divenire o «architettura» che si estende in tutt’e quattro le dimensioni simultaneamente, come riteneva Fantappié?), questa affascina per la sua apparente conferma di antiche credenze o sapienziali conoscenze sulla «fine del tempo». Già è indicativo, forse, che nel linguaggio comune si parli di «fine dei tempi» e non di fine dello spazio. Vengono in mente le concezioni indiane sulle quattro età del mondo, i quattro Yuga, la cui durata è sempre più breve quanto più la storia (e preistoria) umana si allontana dallo stato primordiale e beato, di cui l’ultima, l’oscuro Kali Yuga, sarà il più corto. E forse, ciò in relazione con la promessa di Cristo che «saranno accorciati quei giorni».

V’è poi la simbologia della quadratura del cerchio, che è meno un antico insolubile problema geometrico che la metafora della Ruota – tempo che smette di girare e diventa Quadrato: e la Gerusalemme celeste, che mai più passerà, è descritta nell’Apocalisse come una Urbs quadrata, con tre porte su ciascun lato delle sue quadrate mura: 12 porte, come dodici sono i segni dello zodiaco; ma «allora» il Sole avrà smesso di correre lungo le dodici costellazioni, e non vi sarà più sole, perchè la Gerusalemme definitiva sarà illuminata da Cristo. E viene in mente il passo evangelico dove si parla della Sposo che «chiuderà la Porta», quello Sposo che altrove dice: «Io sono la Porta».

Monsalvat: il tempo qui si muta in spazio, la conclusione cosmica coincide con quella spirituale. Il tempo non ci sarà più – «l’ultima a morire sarà la morte», e tutte le lacrime saranno asciugate, tutti i dolori dimenticati. L’eternità.

Possa io, possa ciascuno di voi, lettori cari, essere ammesso per quella Porta prima che venga chiusa. Pensate che disdoro essere esclusi dalla conoscenza definitiva di questa grande avventura, di questo Progetto di cui a malapena vediamo le tracce, le croci, attraverso la porta stretta, e che ci viene indicato come Gloria, come Vittoria.

Lo dico a me e a voi: non perdiamo tempo, il tempo sta finendo.





1) Vale la pena di ricordare che il Parsifal fu l’opera che allontanò per sempre da Wagner il furente Nietzsche. Il solitario di Sils Maria aveva elevato Wagner a suo adorato maestro di «santa sensualità» dopo aver ascoltato Tristano e Isotta, che per lui e molti tedeschi dell’epoca fu un esaltante manifesto della libertà sessuale, una bomba sovversiva della repressività luterana («Il Tristano di Wagner è un’opera assolutamente oscena», così Thomas Mann); in Wagner aveva salutato il ritorno del Dioniso anti-classico e anti-cristiano, tanto più che Wagner praticava ciò che bandiva con la sua arte (sciupafemmine, conviveva con Cosima, moglie del direttore d’orchestra di Wagner). Non poté sopportare di vedere che Wagner con il Parsifal inginocchiarsi «derelitto e a brandelli davanti alla croce cristiana»; anzi cattolica, perchè vi è centrale la scena dell’Eucarestia (Wagner aveva chiesto i particolari a un prete cattolico a Monaco). Nietzsche ricorre agli insulti e strepita. Vede nel Parsifal «un’apostasia e un ritorno agli ideali oscurantisti di un cristianesimo morboso... la predicazione della castità resta una istigazione alla negazione della natura». Sulla vicenda, si veda l’indispensabile e impareggiabile saggio di Michael Jones, «Il ritorno di Dioniso – Musica e rivoluzione culturale», EFFEDIEFFE.



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