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Quando Berlusconi diventa complottista
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Quando fa comodo al padrone, diventa complottista anche il Giornale, che appena può suole schernire il complottismo di Blondet come campato in aria. Detto questo, ammetto che in questo articolo Micalessin racconta finalmente la pura verità: il crollo di Silvio fu voluto da Washington (e dai suoi complici europidi, Merkel, Hollande & C.) per mandare a monte un accordo strategico fra Eni, Gazprom e Gheddafi. L’invasione della Libia e la demolizione del premier Berlusconi sono stati parte dello stesso piano. La magistratura milanese ha agito in funzione di questo piano (già dal tempo di Mani Pulite agiva sotto la regia dell’FBI per distruggere Craxi e la DC); anche se Berlusconi, circondato da tali potenti nemici, ha offerto l’occasione con il «caso Ruby» da vero infantile cretino (quella parte del corpo che comincia con «K», ahimè, non sostituisce il cervello).

Il guaio è che la «rivelazione» del Giornale ha uno scopo di piccolo cabotaggio: salvare B. dai processi. Far capire alla Corte Costituzionale e a Napolitano, a cui la Corte obbedisce, che lui è pronto a fare disastri politici internazionali se non viene graziato. Peccato: se lo scopo fosse strategico e di lunga gittata, potremmo salutare in Berlusconi con la battuta che Churchill applicò alla democrazia: «Berlusconi è il peggior uomo politico italiano, a parte tutti gli altri».

In una conversazione con Giuliano Ferrara sul Foglio di oggi 7 giugno, Berlusconi le spara ancora più grosse. Dice: «Bisogna che il governo Letta sappia ingaggiare un braccio di ferro, con autorevolezza, senza strepiti ma con grande risoluzione, allo scopo di convincere i Paesi trainanti l’Europa, e in particolare la Germania di Angela Merkel, che siamo di fronte ad una alternativa secca: o si rimette in moto il motore dell’economia in forma espansiva, compreso quello finanziario legato alla moneta unica, (...) oppure le ragioni della solidarietà si esauriscono con la rottura dell’equilibrio attuale. Un’Italia che perde ancora peso e ricchezza oltre quello che ha già perso, pronta ad essere messa all’incanto con metodi egemonici da chi è in posizione di forza, non è una prospettiva accettabile. O così o ciascuno deve trovare le proprie soluzioni nazionali o regionali, scomponendo i meccanismi dell’area euro».

Splendido, forte e coraggioso programma politico di Berlusconi! Applausi! C’è solo da chiedergli: perché non ha ingaggiato lui il braccio di ferro, quando era Presidente del Consiglio? Perché non ha minacciato l’uscita dall’euro prima che l’industria italiana fosse devastata dal «tecnico» Monti?

La risposta è che quel programma è di Ferrara, non di Berlusconi. Il linguaggio non è del frequentatore di Lele Mora, Emilio Fede ed Olgettine: «Italia messa all’incanto», «le ragioni europee si illanguidiscono»... È chiaro: sono le parole che Ferrara ha messo in bocca a Silvio, il quale gli ha parlato solo di una cosa: i suoi processi, la spada di Damocle del 19 giugno con la decisione della Corte costituzionale che può costringerlo alla latitanza... Dietro, non c’è alcuna politica di lungo termine, né alcuna visione; solo micro-tattica, solo piccolo cabotaggio.

Anche così, però, da qualche ora il Pd e tutti gli altri partiti si accaniscono a ribattere, rigettare scandalizzati, rifiutare sdegnati le frasi di Berlusconi (Ferrara): dandogli il merito e l’apparenza del solo che lancia iniziative politiche. Con il solito meccanicismo idiota, e riflesso da cani di Pavlov, i sinistroidi «devono» dire il contrario di quel che dice Silvio. Accade lo stesso sul presidenzialismo: nel Pd molti sono a favore sottovoce, parlano tra loro che il sistema alla francese andrebbe bene come sistema per uscire dal pantano immobilista italiota, ma appena lo dice Berlusconi, loro gridano «No», «Siamo parlamentaristi!» «Colpo di Stato!» (sorvolando sul fatto che il golpe presidenzialista è già avvenuto, con Napolitano riconfermato per governare dal Quirinale). La sinistra agisce sempre di rimessa, non ha idee proprie ma nega quelle di... Ferrara, non è mai la prima ad agire e sa solo reagire, e sempre, invariabilmente, nel senso del più ottuso conservatorismo e immobilismo.

Com’è meccanico e ripetitivo, tutto ciò: da far dubitare che a sinistra esista un briciolo di capacità intellettuale, il minimo necessario per articolare un dibattito pubblico decente sulle istituzioni. E ancora una volta, cadono nel tranello; lasciano a Berlusconi l’iniziativa «politica» (o pseudo-politica), a cui loro si limitano a reagire, ottusamente negando il discorso.

È proprio vero che Berlusconi, come la democrazia, «è il peggio politico italiano a parte tutti gli altri».

Riportiamo di seguito l’articolo di Micalessin tratto da giornale.it:


La guerra della Casa Bianca all’asse tra il Cav e Mosca


Se vivete di pane e complotti, il 15 febbraio 2011 vi sembrerà una congiunzione fatidica e fatale. Se non ci credete, godetevi le bizzarrie del destino e della storia. Quel giorno tra Mosca, Bengasi e Milano si compiono tre avv enimenti chiave, apparentemente slegati tra loro.

Nella capitale russa, il consigliere del Cremlino Sergei Prikhodko annuncia l’arrivo a Roma del presidente Dmitry Medvedev per la firma di uno storico contratto con l’Eni,destinato ad aprire le porte della Libia al gigante del petrolio russo Gazprom.

A Milano, nelle stesse ore, il giudice per le indagini preliminari Cristina Di Censo deposita il rinvio a giudizio per gli imputati del processo Ruby. A Bengasi, invece, scoppiano i disordini che spingeranno la Nato all’intervento militare e all’eliminazione di Gheddafi.

Nessuno quel giorno può intravvedere la minima correlazione fra i tre eventi, destinati a determinare l’emarginazione internazionale dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e portarlo alle dimissioni.

Le conseguenze del processo Ruby e della rivolta di Bengasi sono ormai chiare.

Quelle dell’annuncio di Mosca, seppure meno trasparenti, sono fondamentali per comprendere perché i legami intessuti dal governo Berlusconi con Mosca e Tripoli fossero un ostacolo agli interessi di alcuni importanti«alleati»dell’Italia. L’accordo firmato dal presidente Medvedev, a Roma il 17 febbraio 2011, mentre a Bengasi già infuriano gli scontri, garantisce il passaggio a Gazprom della metà dei diritti di sfruttamento, detenuti per il 33 per cento da Eni, del pozzo libico di El Feel. Quel giacimento non è una risorsa come le altre. Scoperto nel 1997 da un consorzio internazionale partecipato dall’Eni, e battezzato Elefante per le sue dimensioni, il pozzo, situato a 800 chilometri a sud di Tripoli, custodisce circa 700 milioni di barili di greggio. È insomma una delle più importanti riserve della nostra ex colonia. La cessione di un sesto di quel greggio a Gazprom, la compagnia petrolifera considerata il braccio armato di Mosca nella guerra per l’energia tra Russia e Stati Uniti, viene visto come uno sgarro dell’Italia alle politiche energetiche dell’Europa e della Casa Bianca. Uno sgarro frutto degli stretti legami d’amicizia in­tessuti da Silvio Berlusconi con Vladimir Putin e Muhammar Gheddafi. Per capire perché l’accordo sul pozzo di El Feef diventa la goccia capace di far traboccare il vaso spingendo i nostri alleati a eliminare Gheddafi e a ridimensionare Berlusconi, bisogna far un salto indietro al 3 novembre 2003. Quella notte un’operazione organizzata dal Sismi di Niccolò Pollari, d’intesa con Cia e MI6 britannico, porta alla scoperta nelle stive del portacontainer «Bbc China», da po­co attraccato nel porto di Taranto, di un importante carico di frequenziometri, pompe, tubi di alluminio e altre parti essenziali per assemblare le centrifughe destinate all’arricchimento dell’uranio. Quel carico destinato a Tripoli diventa la «pistola fumante» sufficiente a provare i tentativi del Colonnello libico di dotarsi di armi nucleari. La «pistola fumante» viene subito usata da Cia e MI6 per mettere Gheddafi con le spalle al muro e convincerlo a rinunciare ai suoi programmi nucleari garantendogli, in cambio, la fine delle sanzioni e la ripresa dei rapporti commerciali con l’Occidente.

La capacità dell’Italia di assicurarsi le più importanti commesse libiche, grazie ai rapporti tra Berlusconi e il Colonnello, finisce con il mettere in crisi il patto siglato tra le banchine di Taranto. I primi a soffrire e a lamentarsi sono gli inglesi. Sir Mark Allen, l’uomo dell’MI6 mandato a fine 2003 a gestire la resa di Gheddafi, si ritrova a dovergarantire la liberazione dello stragista di Lockerbie, Abdul Baset Ali al Meghrai, per assicurare alla Bp un contratto da 54 milioni di sterline.

Berlusconi nel frattempo inanella accordi assai più fruttuosi, usando esclusivamente il rapporto personale con l’estroso dittatore libico. Il malessere di Londra resta confinato finché la Casa Bianca resta nelle mani di un George W. Bush e di un’amministrazione repubblicana disposti ad accettare le politiche «parallele» dell’alleato italiano in cambio della collaborazione a livello internazionale, dell’impegno in Iraq e Afghanistan e degli stretti rapporti intessuti con Israele. Lo scenario cambia bruscamente agli inizi del 2009, quando lo Studio Ovale passa nelle mani di Barack Obama e dell’amministrazione democratica. Con il cambio d’inquilino, cambiano anche strategie e obbiettivi. Le costanti frizioni con il premier israeliano Benjamin Netanyahu spingono gli strateghi democratici a definire un’ardita politica di avvicinamento ai Fratelli Musulmani. Dopo averli frettolosamente identificati come la forza emergente pronta ad abbracciare la democrazia e ad accettare, grazie all’aiuto del Qatar, le politiche di Washington, i teorici liberal di Obama scommettono su di loro per sostituire quei dittatori fulcro delle strategie americane in Medio Oriente e Nord Africa. La nuova alleanza, oltre a rendere marginale il ruolo d’Israele, sancisce una svolta nell’ambito dello scontro energetico con la Russia. Il Qatar, nemico dell’Iran sciita e quinto produttore mondiale di gas, diventa- nei piani messi a punto dai think tank democratici - uno dei tanti tasselli destinati impedire a Gazprom e a Mosca di egemonizzare le forniture energetiche all’Europa.

Nell’ambito di questa nuova strategia anche l’Italia di Berlusconi si trasforma in un ostacolo da spianare. E a farlo capire, sollecitando inchieste segrete capaci d’innescare accuse di corruzione e interesse privato ben peggiori di quelle piovute su Berlusconi un anno dopo, ci pensa il segretario di stato democratico Hillary Clinton. «Preghiamo di fornire qualsiasi informazione sulle relazioni personali tra il primo ministro russo Vladimir Putin e il premier Silvio Berlusconi. Quali investimenti personali, potrebbero aver indirizzato le loro politiche economiche ed estere», scrive un lungo cablogramma segreto, diventato pubblico grazie a Wikileaks , in­dirizzato a fine di gennaio 2010 dalla segreteria di stato di Washington alle ambasciate di Mosca e Roma. La Clinton chiede insomma a diplomatici e a servizi segreti di fornirgli delle prove da usare contro l’«alleato » Berlusconi e contro il «nemico » Putin. Cosa vuole fare con quelle informazioni il capo della diplomazia americana? Come intende utilizzarle? A chi vuole passarle? Forse non lo sapremo mai. Ma sappiamo che, in quel gennaio 2010, all’assalto giudiziario contro Berlusconi si aggiunge la guerra internazionale.



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