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Il grande spreco
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Il mercato finanziario globale è divenuto «un mostro che va domato»: l’ha detto Horst Koehler,  il presidente della Germania. La carica è ornamentale; ma il fatto che Koehler sia stato capo del Fondo Monetario Internazionale dice che la vastità della devastazione provocata dal capitalismo terminale senza regole sta creando, persino fra i sacerdoti del dogma iperliberista, sgomento e forse qualche dubbio.

Persino il Financial Times comincia a dubitare della «razionalità» ed «efficienza» di un «mercato senza confini» dove «il gestore del più grande hedge fund ha guadagnato 3 miliardi di dollari l’anno scorso», mentre ponevano le basi per la rovina di migliaia di piccoli risparmiatori, lavoratori e famiglie col mutuo variabile, nonchè dei fallimenti bancari a catena e della restrizione mondiale del credito.

Il giornale della City riconosce che 25 anni di «libero flusso di capitali, massiccio, istantaneo, e controllato solo da poche istituzioni finanziarie di pochissimi Paesi» ha prodotto «un’era di inquità oscene», dove i 1.100 più ricchi del mondo si sono accaparrati il doppio della ricchezza distribuita fra i 2,5 miliardi di uomini dello strato più povero (1).

Hanno raccomandato e imposto lo smantellamento dello «Stato sociale» in Europa, additando come modello il privatismo assistenziale americano e la mancanza di costi del lavoro cinese, nonchè la «flessibilità» (precarizzazione) come soluzione ai problemi della «concorrenza». Lo Stato spreca, ripetevano, solo il mercato sa come «allocare le risorse nel mondo più efficace».

Ora constatano che il trionfo del liberismo privatistico ha dato come risultato immensi sprechi di ricchezze, e la depressione economica planetaria. I soldi risparmiati smantellando sistemi previdenziali e sanitari sono finiti in mano a pochissimi che erano già ultraricchi, e che li hanno dilapidati, in lussi e speculazioni rovinose.

«I capi di multinazionali, che 30 anni fa guadagnavano 35 volte il salario di un dipendente medio, oggi prendono più di 350 volte». Il liberismo aveva promesso il benessere diffuso.

Ora il Financial Times si accorge che ha prodotto una inaudita concentrazione di potere in pochissime mani:  «Le prime 50 banche controllano quasi 50 mila miliardi di dollari, un terzo di tutti gli attivi del mondo». A causa di questa concentrazione, quando è scoppiata la bolla dei subprime che ha innescato a catena le altre crisi, i «regolatori», le Banche Centrali e i governi, si son trovati a trattare con poche banche che sono più potenti di grandi Stati, ed hanno dovuto chiederne «la collaborazione su base più o meno volontaria».

Stramiliardari che avrebbero dovuto immediatamente essere arrestati per bancarotta fraudolenta, «campioni del non-intervento dello Stato nell’economia, hanno convinto i governi a curare le loro ferite» con iniezioni colossali di denaro dei contribuenti. Troppo grossi per fallire.

Paul Krugman (per la verità uno dei pochi economisti critici anche prima) sul New York Times ha deriso un sistema di liberismo senza regole studiato a tavolino «nelle università», dove si suppone che «i mercati siano composti da individui ben-informati e da imprese che agiscono razionalmente nel miglior interesse proprio e dei propri clienti, massimizzando le opportunità di profitto, impegnati a mantenere l’integrità del sistema da cui dipendono loro e le loro economie nazionali».

Secondo la teoria della perfetta razionalità del mercato senza norme, dice Krugman, il prezzo del greggio quadruplicato dovrebbe ottenere effetti razionali: la gente dovrebbe andare meno in auto e abbassare il termostato del calorifero, i padroni di pozzi petroliferi marginali rimetterli in funzione, le grandi petrolifere spenderebbero di più in nuove esplorazioni e in nuove raffinerie, le ditte automobilistiche produrrebbero auto più piccole e risparmiose; in breve, il petrolio tornerebbe a prezzi decenti, per la nota legge della domanda ed offerta.

Questo in effetti avvenne nel 1973, quando fu l’OPEC a rialzare il prezzo del greggio. Ma adesso non funziona. E dov’è l’intoppo?

Nella titanica speculazione puramente finanziaria che si è buttata sul mercato dei derivati petroliferi. Oggi, scrive William Pfaff, «nessuno speculatore che tratta in greggio se lo fa consegnare; invece, lo accaparra finchè il prezzo sale», e siccome la speculazione stessa continua a far salire i prezzi, il petrolio non giunge al mercato del consumo (2).

«Il trading speculativo si avantaggia su quarti di punto. Uno compra un contratto mentre il petrolio rincara, e lo rivende tre minuti dopo a un altro convinto che rincarerà ancora di più. Non è ignoto che gli speculatori, dopo comprato il contratto, spargono voci che implicano la penuria del bene, cosa non difficile da quando ci sono TV con trasmissioni finanziarie non-stop, che si aggrappano ad ogni straccio di notizia».

Così le Borse-merci, nate per stabilizzare i prezzi, si sono trasformate in mostri che ne amplificano selvaggiamente le variazioni. Ciò grazie alla lievità dei «margini», che i fautori del libero mercato senza regole hanno impedito agli Stati di alzare.

«In genere, per comprare un contratto future si chiede un margine del 10%. Metti sul piatto 10 mila dollari e compri un documento che vale 100 mila dollari di greggio. Ma non essere tirchio: metti sul piatto 100 mila dollari, e compri un contratto da un milione. Cinque minuti dopo, se il greggio rincara di un dollaro, hai fatto un milione».

Queste «non sono più normali transazioni tra produttori e consumatori, previste dalle regole economiche classiche» elaborate dagli economisti da università. «Questi commerci, privi di regolamentazione, non hanno più alcun ruolo economico utile; sono una forma di gioco d’azzardo professionale, e parassitario, che distorce le transazioni tra produttori e utilizzatori», ossia che strangola l’economia reale; e mentre la strangola, ne ricava profitti indebiti ed astronomici.

Anche le banche italiane, assicurazioni e grandi gruppi privatizzati (ENI, ENEL, fate voi) vantano profitti in crescita del 30-50%; e ciò, sulla pelle di una popolazione produttiva che si impoverisce di giorno in giorno. Occorre che siano gli inglesi e gli americani ad accorgersi che nel sistema c’è qualcosa di sbagliato, altrimenti i nostri  Padoa Schioppa, Ciampi e simili continuano a ripetere la lezione che gli hanno insegnato. E le sinistre, insieme ai grandi media, a deridere Tremonti  come «protezionista».

Le bancarotte fraudolente sempre più gigantesche - Enron, Parlamat, Société Generale, Northern Rock - non bastano a convincere questi servi sciocchi dei poteri forti. Deve venire Kenneth Griffin, gestore di uno dei più grossi fondi speculativi, il Citadel Investment Group (20 miliardi di dollari gestiti) a rivelare che la finanza internazionale è stata abbandonata al giudizio di «ragazzini appena usciti dalla business school, che controllano il mercato dei capitali in America», mentre i loro super-capi e amministratori delegati «capiscono solo in parte» il tipo di affari che questi ventenni stanno facendo.

Bisogna che sia il Financial Times, non Liberazione, a scrivere: «I pochi pesci grossi fanno miliardi sia che i mercati salgano o che scendano, e le loro banche strappano il sostegno dello Stato mentre i pesci piccoli perdono la casa». Griffin e il Financial Times, non Veltroni nè Berlusconi, parlano, ora, della necessità di «porre regole al mercato».

L’ex capo del fondo Monetario, Koehler, attacca le «grottesche remunerazioni» dei banchieri d’affari responsabili «della massiccia distruzione di ricchezza» che stiamo vedendo e soffrendo. E invoca il ristabilimento di «una coltura bancaria continentale europea».

Questo è il problema. La cultura economica europea c’era, si chiamava Stato sociale di mercato, si chiamava «modello renano». Creato da Stati autoritari (Bismarck, fu il primo a introdurre la previdenza obbligatoria per gli operai; Mussolini fu il primo a fare altrettanto in Italia), e adottato poi dalle cosiddette «democrazie» come dai socialismi riformisti, mirava a compensare le più scandalose iniquità fornendo a tutti un minimo di sicurezza davanti alla malattia e alla vecchiaia.

Lo scopo non era la massimizzazione razionale del profitto (individuale), bensì «dar fondamento ad un patto sociale che consenta la decente convivenza tra classi sociali differenti, e quindi un ordine che non sia solo costrittivo, di polizia» (3). Solo che, in mano alle «democrazie pluraliste», il modello s’è guastato: a causa della corruzione delle democrazie stesse.

Esempio: l’IRI, da ente di salvataggio di industrie e competenze nazionali strategiche, fu trasformato in distributore di tangenti ai partiti. Proprio questo ha consentito ai modellisti economisti anglo-americani di parlare di inefficienza del modello europeo-sociale, di additare l’aumento della spesa pubblica e gli sprechi, e di raccomandare (o imporre) il razionalismo iper-liberista, di stampo calvinista, dove il profitto è «l’oggettiva misura» della razionalità e della moralità. Ora, ricostruire quella cultura  è possibile?

Un quarto di secolo di liberismo globale senza Stato ha devastato molto più che i beni materiali e reali. Ha devastato mentalità, cancellato anche la sola idea che il politico debba occuparsi di qualcosa chiamato «bene comune» e patto sociale; e se ancora qualcuno volesse nutrire una volontà di operare per regolamentare e ridistribuire, non avrebbe più le competenze per lanciare un New Deal del 21mo secolo.

Come dice benissimo Luigi Copertino nel suo ultimo saggio (4), nel liberismo mondiale «la flessibilità delle opzioni sociali, che dissolve ogni legame comunitario, rendendo a tempo determinato i rapporti di lavoro e quelli politici di cittadinanza», corrisponde perfettamente alla «flessibilità delle scelte morali che dissolve tutti i legami familiari, rendendoli assolutamente revocabili e temporanei».

Se volete il matrimonio temporaneo, perchè vi lamentate del vostro contratto di lavoro a termine? Se non vogliamo più gli obblighi che ci chiedeva la patria, perchè il gestore di fondi comuni dovrebbe sentirsi legato al bene dei concittadini poveri, e trattenuto dal ritagliarsi emolumenti di 3 miliardi di dollari l’anno, mentre milioni di suoi compatrioti perdono - per causa sua - la casa?

Nel liberismo globale, tout se tient. Ci ha voluti così, individualisti, sciolti da ogni obbligo durevole, perchè solo così diventavano efficienti «consumatori». Ora che ci ha lasciato poco da consumare, ci resta il precariato della vita, e - più irrimediabile - la perdita del senso del comune destino, e persino la capacità di ricostruirlo nella società.




1) David Rothkopf, «Change is in the air for financial superclass», Financial Times, 15 maggio 2008.
2) William Pfaff, «Commodity speculation versus economists’ model», williampfaff.com, 16 maggio 2008.
3) La frase è di Franco Cardini, «Astrea e i Titani - le lobbies americane alla conquista del mondo», Laterza, 2003, pagine 144-145.
4) Luigi Copertino, «Spaghetticons - La deriva neoconservatrice della destra cattolica italiana»,
Il Cerchio, Rimini, 2008. E’ il primo saggio che fa il punto sulla penetrazione delle idee neoconservatrici israelo-americane  (in Italia proclamate da Giuliano Ferrara ateo devoto) nella destra cattolica italiana; ponte semi-cosciente della «penetrazione di un intero mondo di valori e opzioni tipicamente anglosassoni nel mondo cattolico italiano, tradizionalmente non proprio vicino alla visione del mondo statunitense». Da leggere.


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