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Motu Proprio e vescovi «adulti»
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Parecchi lettori mi segnalano che i vescovi  stanno facendo resistenza alla messa in latino.
E vi stupite?
L'avevo previsto.
Lo so, lo so, ne hanno già scritto Antonio Socci e Andrea Tornielli.
Quest'ultimo ha informato che il cardinale di Milano Tettamanzi ha detto (o meglio fatto dire) di non sentirsi tenuto a obbedire, perchè il Motu Proprio del Papa parla del rito romano, e non del rito ambrosiano.
Tettamanzi è di un'altra parrocchia.
E' quel che succede per aver consentito che, sulla cattedra del cardinale Federigo Borromeo salisse don Abbondio: il che non sarebbe stato possibile senza il «clima» conciliare.
Il cardinal Abbondio difende dunque il suo posto, in fondo.
Come i burocrati quando fanno resistenza passiva, il cardinal Abbondio si trincera dietro le «procedure», le «norme» per disobbedire untuosamente.
Aggiunge Tornielli che costui ha detto (fatto dire) che «sarà vagliata l'applicazione del Motu Proprio anche in quelle zone della diocesi dove si usa il rito romano per verificare che esistano gruppi stabili»che vogliono la messa in latino.
Ciò, inutile dire, è esattamente il contrario di quanto dispone il Papa: che ha voluto proprio sottrarre i fedeli, su questo punto, alla «autorizzazione» dei vescovi.
Naturalmente i vescovi fingono di non capire.

Sono stato una sera con un giovane sacerdote che, presso Prato, sta cominciando a celebrare la messa su richiesta di fedeli.
Anche il suo vescovo ha sospirato: «Spero che almeno mi chiederà il permesso».
Ecco cosa temono: una diminuzione del loro potere.
Come don Abbondio, zitti davanti ai preti protervi e magari omosex, ma occhiuti se uno prova a dir la Messa di San Pio V.
Lì vedono un pericolo.
Uno dei giovani che hanno chiesto la messa in latino a Prato mi ha raccontato di avere, con dei ragazzi più giovani, composto un film di 15 minuti.
La trama, come l'ha raccontata lui: un quindicenne fugge dal manicomio.
Vi è stato  rinchiuso perchè gli è apparsa la Madonna, e l'ha detto in giro.
Con l'assenso del parroco: prima una bella cura psichiatrica, e poi - dice - si potrà «accompagnare il giovane in un percorso adulto di fede».
Impossibile non ridere: quante volte abbiamo sentito questa frase?
Anche Prodi s'è dichiarato «un cristiano adulto».
«Percorso adulto di fede» è una fede che esclude le apparizioni e per principio non crede ai miracoli, non ne ha bisogno per credere.
C'è qui tutto il «clima» conciliare, è tutto quel che ne resta.
Il bello è che Gesù addita proprio il «percorso» contrario: «Chi non accoglie il Regno come un fanciullo, non vi entrerà».
Al sapiente fariseo che lo va a trovare di notte, sapendo che è il Messia (un cristiano, ma adulto e dunque prudente) insiste sul concetto, tanto che quello si perde d'animo: dovrò tornare nell'utero di mia madre?
Il bambino crede che suo papà possa tutto, che lo sappia difendere, proteggere e provvedere
a lui (1).
E si affida a lui in tutto.
Crede che suo papà possa fare miracoli.

Il percorso bambino di fede è il più sicuro: ad un bambino si perdonano mancanze e ribellioni e ostinazioni.
Un bambino può dire: «Padre, ho paura».
Un bambino non solo crede ai miracoli, ma li pretende, se li aspetta: fida nella Provvidenza.
E non smette mai di chiederli, fino a scocciare.
Un bambino esercita piccole superstizioni.
Madre Teresa distribuiva la medaglietta miracolosa a chiunque (in alluminio, una povera cosa), facesse «novene rapide»per ottenere aiuti urgenti.
Aveva fatto un patto con Dio: per ogni foto che mi fanno, libera un'anima del Purgatorio.
E oggi scrivono che aveva perso la fede: era tornata solo bambina.
Giovanni l'Evangelista, quello che scrive il Vangelo più complesso e profondo («adulto», ma non abbastanza per Martini: Sua Vanità  lo trova un po' «antisemita»), è lo stesso che scrive tre epistole a gente che chiama «figliolini miei».
Naturalmente i cristiani adulti pongono il dubbio: la Bibbia CEI parla del «Vangelo che la tradizione attribuisce a Giovanni», e delle epistole «tramandateci col nome di Giovanni», sottintendendo che si tratta di leggende.
Eppure non è difficile vedere lui, l'adolescente che posò il capo sul petto di Cristo, ora nell'esilio a Patmos, un vecchione centenario, con la gran barba bianca e gli occhi acquosi, mentre scrive «Figliolini miei», e scrive cose semplicissime: «Figliolini, vi scrivo queste cose perchè non pecchiate. Ma se qualcuno pecca, noi abbiamo come intercessore presso il Padre Gesù Cristo, che è giusto».
Scrive per bambini che cadono e ricadono - sono bambini - e lui stesso è diventato bambino.
Non c'è santo che, da ultimo, non sia divenuto bambino.
E quando i cristiani adulti dubitavano di padre Pio e delle sue stimmate (mandarono padre Gemelli a investigare), il popolo meridionale già aveva capito, e lo andava a trovare e a chiedere: miracoli, guarigioni, grazie, chiedeva il popolo-bambino, a cui non pareva vero che Dio avesse mandato uno così familiare, a cui poter chiedere in dialetto, farsi sgridare e cacciare, ma ritornare testardi, perchè che Dio è se non fa miracoli?
E noi di miracoli abbiamo bisogno.
Bambini che capiscono le cose nascoste ai sapienti.

Parlo del vecchione Giovanni, perchè c'entra con il ricordo personale che ho dell'antica Messa.
Una Messa feriale, con pochi o nessun fedele.
Il chierichetto era, spesso, un vecchio pensionato con il campanellino.
Quando il prete esordiva: «Salirò all'altare di Dio», il vecchio pensionato rispondeva: «Il Dio che allieta la mia giovinezza».
Ciò non pareva incongruo e men che meno ridicolo, anzi al contrario: era un mistero che si rivelava.
Tutti noi presenti, di colpo, qualunque fosse la nostra età nella vita comune, eravamo ragazzini, perchè con Dio c'è solo giovinezza, e lieta.
Pronti ad assistere un'altra volta al miracolo, la Transustanziazione.
E perchè quelle parole erano così potenti, da trasformare in  giovinetti anche il pensionato e le tre vecchiette che assistevano biascicando il Rosario?
Perchè non erano inventate da teologi.
Erano le parole di un salmo.
Tutta la Messa di allora era così: nessuna intrusione verbale «personale», nessuna aggiunta arbitraria; tutto ciò che il sacerdote diceva, e che dicevano i fedeli, era tratto di peso dalle Scritture.
Ne varietur, come annotavano nei loro spartiti certi grandi musicisti.
Il bello della liturgia stava in questo: ne varietur.
Si stava tranquilli, non si doveva per forza avere «delle idee» proprie, anzi ci si spogliava già del proprio «io» fin troppo tumescente di opinioni personali.
Non occorreva cercare le parole: a Dio ci si rivolgeva con parole antiche, potenti, consacrate dalla Scrittura.
Come bambini, si potevano dire parole grosse, grandiose, che ci stavano larghe come le scarpe di papà: «Sancte, sancte, sancte Dominus Deus Sabaoth...».
Non sapevamo che Sabaoth era un genitivo ebraico, ma sapevamo il senso: «Signore degli Eserciti».
Ora non si dice più, ed abbiamo perso quella immagine che ci si presentava allora alla fantasia, biblica, del Padre e delle sue innumerevoli armate corrusche d'acciaio e d'oro, i vessilli, armate che si lanciavano ad aiutarci contro Lucifero, il generale Michele con la spada sguainata... perchè nella liturgia c'era la spada, anche.
Si era pronti a ricevere la spada nel cuore, sicuri sapendoci in grazia di Dio: giovanissimi soldati, «vita est militia super terram».

Si dirà che l'uso di quelle formule già fatte e invariabili spersonalizzava, consentiva ai fedeli di astrarsi e pensare ai casi loro.
Certo, possibile.
Ma a dire il vero quelle formule non diventavano mai consunte: erano Bibbia, erano Vangelo, e per questo restano aguzze nei millenni.
Il tempo non le leviga nè rammollisce, la ripetizione non le rende viscide, come invece le «lettere pastorali» di monsignor Abbondio.
Incomprensibili?
In realtà, non era necessario dirle in latino.
Già Pio XII aveva consentito che la Messa fosse anche nelle lingue locali (fu un grande innovatore per amore di noi fedeli: ci diede di fare la Comunione dopo una sola ora di digiuno, per molti impiegati milanesi fu una vera festa, si potevano comunicare ogni giorno feriale, prima di entrare in banca o in ufficio).
Si capiva, si capiva.
L'importante era che le parole fossero la traduzione esatta di quelle della Scrittura: «Signore degli Eserciti», qualunque cosa ne possano pensare i non-credenti e i pacifisti.
Ne varietur.
Anche alla fine, era bellissimo.
Quando il sacerdote elevava l'Ostia con cui ci avrebbe poi imboccato, dicevamo:
«Signore, non sono degno che tu entri nella mia casa; ma di' soltanto una parola, e il servo tuo sarà guarito».
Erano le parole del centurione famoso, lodato da Cristo per la sua fede: di colpo eravamo tutti centurioni corazzati, e nello stesso tempo bambini, visto che il sacerdote - noi inginocchiati - ci imboccava del Pane («Corpus Christi», mormorava).
Come capite, era anche una recita.
Difatti la Messa, oltre che espiazione e intercessione, oltre che sacrificio umano, è una sacra rappresentazione.
Ciò voleva dire che ci si spogliava dei nostri abiti da lavoro feriale, del nostro io di tutti i giorni (così poco significativo) e vestivamo - come diceva Machiavelli - i costumi curiali di un teatro sacro.
Si recitava il dramma millenario, senza tempo: all'inizio eravamo Davide adolescente che sale danzando all'altare che lo rende lieto; a metà, eravamo gli apostoli nell'Ultima Cena; alla fine, eravamo il centurione romano.
Come Machiavelli parlava con Tito Livio e le grandi anime romane, anche noi diventavamo parte della Storia.
Recitando parole non nostre, che solo per un sacro gioco infantile, incantato, potevamo applicare a noi: «Non sum dignus ut intres sub tectum meum».
Ed eravamo là, tra l'afrore della folla palestinese, odore di lana di cammello e di capra, e la calca si allargava per lasciar passare il messo romano che piegava il ginocchio davanti a Lui.

Oggi si dice invece: «Non sono degno di partecipare alla tua mensa».
Un lettore, pur favorevole al rito tridentino che per età non ha mai conosciuto («Sono nato nel '62», premette), domanda: cosa c'è di sbagliato nella messa di Paolo VI?
Perchè tanta veemenza contro la «cena», da parte vostra?
Gesù disse: «Ho desiderato ardentemente mangiare questa Pasqua con voi», dunque la convivialità era già nella prima Eucarestia.
D'altra parte, aggiunge, anche la Messa tridentina è stata «nuova», non nacque nell'Ultima Cena.
Perchè non ammettere che la liturgia possa subire evoluzioni ulteriori?
Non vi sembra arbitrario decidere che l'evoluzione del rito è accettabile fino al Concilio di Trento, e da quel momento non più?
Sì, ha ragione.
Personalmente, non partecipo alla «veemenza».
La Messa «antica» ha una  data di nascita e una ragione storica ben precisa, la Controriforma.
Ha tutte le ragioni.
Però, ogni volta che sento e dico «... di partecipare alla tua mensa», so che questa variazione è stata introdotta non per recitare meglio la sacra rappresentazione, ma nella speranza di concelebrare coi protestanti, per cui la Cena è una cena, non un sacrificio umano e divino.
Che la variazione è stata introdotta, insomma, per sbiadire, annacquare la Transustanziazione: la sola cosa intoccabile, senza la quale saremmo «cristiani adulti» come quelli che non credono ad alcun miracolo, nè a Maria nè alla sua verginità «post partum», scientificamente impossibile.
E' stata una variazione burocratica.
Una piccola deviazione che poi si allarga.
Fino ad arrivare al distinguo del cardinal Abbondio Tettamanzi: non si parla di rito ambrosiano, dunque il Papa per me può dir quello che vuole...
Quanto ai protestanti invitati a cena, non sono poi venuti.
Resta lo sbiadimento, la Messa in sordina.
E' quello che i vescovi difendono.
Ci credono ancora?
Forse sì, sbiaditamente.

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Don Abbondio Dionigi Tettamanzi

Questi vescovi progressisti che ripetono le untuose formule della «fede» con unzione professionale, danno l'impressione di voler dire altro.
Per esempio: da una parte dicono che bisogna «difendere la vita», dall'altra dicono che «l'evoluzione (nel senso darwiniano) è un fatto».
Ma se sono evoluzionisti, che senso ha la difesa della vita fin dal primo istante?
L'evoluzionismo non contempla un particolare rispetto per la vita; la Natura secondo Darwin non fa che sterminare vite, e quella umana non ha diritto ad alcun occhio di riguardo.
E' solo un'altra specie zoologica, con un destino zoologico.
Essendo addomesticato, può anche essere soppresso quando non rende.
La cosiddetta «fede» adulta di questi prelati, quando pur esiste, è dunque appesa ad un sistema di credenze («scientifiche», scientistiche, ideologiche: marxiste, materialiste) in cui cose come «l'anima immortale» e il sacrificio di Cristo al posto nostro non hanno alcun posto.
Non si sa dove metterle, nella visione del mondo della modernità.
Restano lì appese nel vuoto, come corpi estranei.
Vivono dunque tra due visioni del mondo incoerenti, filosoficamente eterogenee.
Vivono in contrasto con se stessi, se credono a Gesù presente nel Pane.
Per quanto tempo si può vivere così, in contrasto con se stessi?
Si può solo abbassando il gas spirituale e intellettuale, fino al livello in cui non ci si pongono più le domande scomode, e si accetta «quello che c'è», il sistema di credenze «scientifico», di cui sanno ciò che leggono su Repubblica o su l'Espresso.
Questo tipo di fede è letteralmente «superstizione»: qualcosa che «super-est», un avanzo di un passato incompreso, un residuo di cui non si sa rendere ragione.
Altro che progressismo, altro che «fede adulta», è il contrario.
Superstitio.
E allora che fanno?
Innovazioni per «adattare» la fede alla modernità.
«Eventi» mediatici, kolossal con cantanti di moda scritturati a caro prezzo, per «attrarre i giovani»: ed esultanza perchè ci sono «tanti giovani»ad ascoltare il Papa, ed è stato «un successo», come dicono a Mediaset.
Che infatti è il modello della nuova liturgia.
Nessuna veemenza, caro lettore che non hai conosciuto la Messa.
So che essa sparirà, che i progressisti adulti avranno la meglio.
Ma spero di averti fatto capire cosa mi manca di essa.
La sacra rappresentazione dove non c'è spazio per lo scientismo: «Ad deum qui laetificat juventutem meam», anche se sono vecchio.
«...ut intres sub tectum meum», che mi trasformava in centurione fedele.
Davide, il Signore degli Eserciti, l'antichità che ci dava forza nella modernità irridente, il vino che diventa sangue.
Mi manca l'infanzia che la liturgia ci donava, dove tutti i miracoli sono possibili, checchè ne dicano Veronesi o Odifreddi.
E non devo essere il solo.

Un altro lettore mi manda l'intervista che, su «Firenze-epolis», ha rilasciato tal Lindo Ferretti: a me sconosciuto, ma è stato «leader del complesso rock CCCP, poi  chiamato  CSI, complesso di musica punk, molto dura, e di ispirazione comunista».
Ecco alcune delle cose che dice l'ex CCCP:
«Parola sacra, preghiera rivelata, perde fascino che è legame se tradotta.
La traduzione serve a capire, fin dove si può, il testo e come tale è indispensabile, ma manca di suoni il respiro, il soffio e perde potenza.
E' stata la riforma degli anni sessanta a produrre il vuoto nelle Chiese (maiuscolo nel testo).
La liturgia deve avere fascino misterico.
Non tutto può essere compreso.
Altrimenti, invece che assistere alla Sacra Messa, ci dovremmo recare in una scuola.
La componente religiosa ha un'aura sacrale che deve essere rispettata.
Quando questo non accade più e i giovani vanno a ricercare il quid altrove.
Ed ecco il risultato.
La realtà è che la pochezza dell'attuale liturgia, tutta votata alla parola e alla comunità, produce  forme di rito paraprotestanti.
Personalmente non ne posso più.
Il latino è solo l'aspetto più facilmente riscontrabile ma c'è tutto il resto.
Mi riferisco ai paramenti, alla ritualità nel suo complesso.
Perché forma è sostanza e la liturgia funziona anche senza gente.
Non è una questione di pubblico, mi creda.
E oggi cosa accade?
Siamo costretti a sorbirci prediche scadenti, inquadrati in una razionalità che ci tarpa le ali.
Per esempio, l'uso dell'incenso è fondamentale nella liturgia.
Nel compendio della Chiesa cattolica c'è perfino una preghiera copta che accompagna il momento in cui il sacerdote utilizza il turibolo.
Mettiamoci d'accordo: lo spessore della storia non può essere diminuito, altrimenti dovremmo pensare alla croce come a un semplice incastro tra piani, tra orizzontale e verticale.
Quindi sono felice che le  tradizioni vengano rispettate.
L'esperimento non è andato bene, meglio tornare  all'antico...»
«Dopo il Padre Nostro mi irrigidisco. Questa roba del segno di pace è davvero insostenibile. Come se ci costringessero a cantare 'Il ponte di Bassano'.
Ecco, il segno di pace e 'Il ponte di Bassano' si equivalgono.
Ma  come si fa a ridurre la pace ad una stretta di mano?
Imbarazzante».
A questo punto, l'intervistatore politicamente ovino gli chiede: E ai bambini alle prese col latino ci ha pensato?
«Certo.
Meglio il latino che la stretta di mano.
Così le parrocchie smetteranno di allevare batterie di polli che producono solo bravi moralisti e riacquisteranno la loro funzione. Che è quella di arricchire, di lasciarci attraversare il mistero in punta di piedi».

Don Abbondio Tettamanzi non sarebbe nemmeno capace di pensare cose così: ecco perchè, al punto in cui siamo, si può imparare di più da Blade Runner (il film dove il problema è l'anima immortale, e il bisogno di avere l'eternità), da questo Lindo Ferretti che chiede il mistero (era comunista ma ora, maturando, è diventato un bambino), o persino dai musulmani che hanno timor di Dio, e leggono le sue parole nell'arabo classico.
Più da loro che dall'astuto Abbondio Tettamanzi.




1)
Si pensi dunque a cosa distruggono i soldati israeliani quando umiliano i padri palestinesi davanti ai figli piccoli, quando li legano, quando li picchiano o li  trascinano via. I bambini si scoprono di colpo indifesi, il papà è impotente, non può far nulla per me... Non stupisce che, da quel momento, vogliano solo morire uccidendo. Andare subito nel paradiso di Allah, il Padre che fa i miracoli, e che è giusto. Anche a questo speciale infanticidio spirituale si applica la minaccia di Cristo: «Se uno sarà di scandalo a questi piccoli, meglio per lui che gli si attacchi al collo una macina asinaria, e sia gettato nel fondo del mare... Guardatevi dal disprezzare uno di questi piccoli, perchè vi dico che i loro angeli contemplano continuamente il volto del Padre mio che è nei cieli».

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