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Com’è «triste» il buonismo
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E’ stato veramente molto istruttivo per me leggere l’editoriale di Le Monde diplomatique di giugno.
Non soltanto perché dà la piena idea del decadimento di un giornale che pure ha avuto (e in certi servizi ha ancora) molti meriti; ma soprattutto perché fornisce un’idea precisa della povertà di idee del politically correct, un tempo monopolio dei conservatori e ormai, da almeno trent’anni, della sedicente sinistra (e anche, purtroppo, di quella «radicale»).

Intanto, la lettura mi ha ripiombato quasi (non del tutto, ci sarebbe mancato solo questo!) nel clima del ‘68 e post, quando si leggevano giornali di pessimo e involontario umorismo del tipo di Servire il popolo.
Dall’editoriale in questione ho appreso (con viva sorpresa) che negli USA, in Francia, in Italia, nel Regno Unito, i partiti al potere (nei primi due, i conservatori; negli altri due, i «progressisti») hanno perso le elezioni (di vario genere, da quelle politiche come in Italia a quelle amministrative, da quelle parzialissime come negli USA a quelle nazionali complessive) a causa della collera popolare susseguente ad una situazione di impoverimento; effettivo ma descritto con toni tali da far pensare alla Francia di Emile Zola, cioè di «qualche tempo fa».
Per creare l’impressione di un clima di rivolta popolare, l’editorialista affastella a casaccio scioperi di operai tedeschi (quanti e in quali settori?), di insegnanti britannici, di camionisti greci e di pescatori francesi.
Difficile immaginare un’accozzaglia più insensata di questa per dare l’idea della (presunta) diffusa protesta di interi popoli europei di fronte alla (altrettanto presunta) miseria nera che avanza.

E’ evidente che la sinistra (certa sinistra) è «alla frutta», non ha veramente più cervello per cercare di capire le sue sconfitte, la sua ormai sempre più scarsa presa (questa sì molto reale) sulle «tanto adorate» masse popolari (per non parlare della Classe per antonomasia che, perfino in Italia, l’ha «mandata a quel paese» in modo ormai abbastanza rude).
Bisogna ricominciare a ragionare con schemi sufficientemente larghi (e laschi, aperti a varie ipotesi) da consentire la valutazione di situazioni molto complicate e variegate.
Intanto, non è ancora certo se sia prossima una vera crisi finanziaria o semplicemente un arresto e stagnazione dell’economia reale (si tratta di tipi di crisi assai diversi e con ben differenti conseguenze sociali).

Auguro comunque alla sinistra suddetta che non arrivi una crisi di veramente grave portata, perché ne verrebbe sotterrata com’è accaduto in altre contingenze storiche; dato che essa si presenterebbe ad un simile «appuntamento» con idee ancor più arretrate e scervellate di quelle che aveva negli anni ‘20 e ‘30.

Nelle nostre società, ad oltre sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e con una media di alti ritmi di sviluppo (mentre il loro supposto «antagonista» è miseramente crollato nel 1989-91), non esiste per nulla una miseria diffusa e generalizzata.
In questi ultimi anni si è indubbiamente creata una situazione di arresto, e in certi casi di arretramento, delle condizioni di vita per una notevolissima quota della popolazione, ma non credo di sbagliare di molto affermando che per circa un terzo della stessa siamo ancora in fase di netto avanzamento.
E quest’ultimo riguarda anche ampi settori del lavoro salariato, l’unico che questa sinistra riesca a prendere in considerazione.
Della parte di salariati a livello retributivo più basso - gli operai, che hanno dimostrato irrefutabilmente di essere un ceto sociale e non una classe nel senso marxista del termine - una grossa quota, come già ricordato, ha abbandonato la sinistra con i suoi miti miserabilisti e di vita meschina e grama, poiché anch’essa insegue la sua porzione di benessere, non certo di potere «rivoluzionario» per creare la «nuova società»: che i «comunisti» di antico stampo vogliono di un certo tipo, i «riformisti sociali» di un altro, gli anarcoidi e disgregati del Movimento di un altro ancora, e… arrestiamo qui l’elenco delle melanconiche follie «di sinistra».

In Italia in modo particolare, ma comunque anche negli altri Paesi capitalistici avanzati, esiste una quota di popolazione consistente, e forse persino crescente, che vive del cosiddetto lavoro autonomo (non lo è affatto, ma comunque vi è netta differenziazione di condizioni di vita e di lavoro, e quindi di mentalità, rispetto al lavoro salariato o dipendente).
Una notevole porzione dei lavoratori, sia dipendenti che autonomi (questa porzione è probabilmente più numerosa tra gli autonomi), appartiene al sedicente ceto medio, ormai assai stratificato al suo interno e, per certi versi, ancora scarsamente conosciuto, malgrado gli studi di cui è stato fatto oggetto, studi che - forse consapevolmente, forse no, oppure un po’ questo e un po’ quello - hanno contribuito a intorbidare le acque più che a renderle più limpide.

Il ceto medio è proprio la «bestia nera» della sinistra: di quella «rivoluzionaria» (ormai all’osso) ancor più che di quella «progressista», i cui dirigenti sono in gran parte «figure» di quel ceto medio che vive, sia come lavoro dipendente che come lavoro autonomo, di «spesa pubblica».
La sinistra cosiddetta «radicale», che predichi la rivoluzione o semplicemente una «forte riforma» delle istituzioni, è solo capace di vedere il conflitto capitale/lavoro; dove il lavoro è semplicemente quello salariato (e dei livelli più bassi).
Quest’ultimo è solo in parte quello degli operai, delle un tempo denominate tute blu.
Il ceto in questione ha in ogni caso (giuste) aspirazioni ad un benessere crescente, non a fare le barricate e a rischiare la vita per «rivoltare la società»; ma nemmeno per compiere riforme di equa e solidale redistribuzione del reddito.
Vuole vivere meglio; e una buona maggioranza di questo ceto comprende bene che, per vivere meglio, ci si deve sviluppare e allargare la «torta» prodotta, non semplicemente cercare (invano) di ritagliarsi fette più grosse di una «torta» sempre più piccola o stagnante.

Nessuna corrente della sinistra «radicale» ha la minima idea di come allargare la «torta»; è solo «cattocomunista», vuole togliere ai ricchi per dare ai poveri; un’idea peregrina che ha sempre favorito la schiacciante vittoria dei dominanti in ogni grande crisi (per nostra fortuna, questa non sembra alle porte).
Alla sinistra «radicale» non affluiscono in massa i lavoratori salariati, non vanno le simpatie della stragrande maggioranza degli operai.
Essa riesce a catturare quote minoritarie (e molto minoritarie) di quelle frange che si formano sempre, nelle società capitalistiche avanzate, nei vari interstizi tra un ceto lavorativo e l’altro, in settori in rapido mutamento e che, in questo trasformarsi, lasciano dietro di sé costantemente una scia di detriti e rottami sociali vari.
Si tratta di frange labili, fragili, molto fluide e disgregate; forse capaci di violenza, non certo di utilizzarla con lucidità.

Certa sinistra, che tale lucidità non possiede, crede di averle costantemente in mano, a sua disposizione per agitazioni scomposte; ma solo se non arriva veramente «La Crisi» che essa sempre agogna, perché in una simile contingenza, da non augurarsi, ci si accorgerebbe che ci sono ben altri «direttori d’orchestra» in grado di forgiare, da queste masse (certo accresciute in tal caso dalla crisi stessa), le «squadre d’azione» per ben altri indirizzi strategici.
Bisognerà uscire dallo pseudoconcetto di ceto medio, analizzare invece la suddivisione tra lavoro dipendente (salariato) e autonomo, individuando però le differenti fasce di reddito esistenti nell’ambito dell’un comparto lavorativo e dell’altro.
Bisognerà inoltre andare a vedere quanto dell’attività lavorativa prestata nei settori «pubblici» è effettivo lavoro utile (e quindi «produttivo», pur se non secondo i canoni della teoria del valore e plusvalore; diciamo indirettamente produttivo) e quanto è puro e semplice finanziamento (e corruzione) di clientele varie, usate da cosche politiche, la cui etichetta - destra o sinistra - non ha alcuna significazione effettiva.

Non ci si deve prestare alla polemica contro i «fannulloni», che solleva un problema reale ma svisandolo e deviando l’attenzione della popolazione (in specie di quella ai livelli più bassi di reddito).
Il problema non è la «non volontà» di lavorare, bensì il legame con le suddette cosche politiche, che - stando alla dicitura ancora in voga - sono sia di destra che di sinistra, in modo equanime; ci si ricordi inoltre che il legame in oggetto non significa sempre inserimento dei «tirapiedi» nella burocrazia statale e parastatale, ma anche in una miriade di lavori privati e autonomi del tutto inutili, finanziati con enorme dispendio di soldi pubblici per finalità di corruttela politica.

La sinistra si divide in almeno tre tronconi (a volte con confusioni e commistioni fra loro).
Innanzitutto quella molto moderata, assimilabile per molti versi alla destra nel suo liberismo (a volte anzi critica verso il sedicente colbertismo di alcuni uomini chiave di destra) e nel suo ultralegalitario rifarsi al «formalismo democratico» (vero regno del Tartuffe di Molière), che tenta di sanzionare l’oliato e «soffice» meccanismo riproduttivo dei rapporti di predominio capitalistici. Abbiamo poi quella «progressista», che si pone oggi come intermediaria (ma con atteggiamenti di continuo cambiamento camaleontico delle posizioni, alla guisa di personaggi alla D’Alema) rispetto a quella «radicale»; la quale, a sua volta, è estremamente confusa tra l’appoggio a presunte riforme strutturali (talvolta populistiche) - inerenti al mero aspetto redistributivo, con però modalità tali che, se seguite, danneggerebbero gravemente quello produttivo - e l’appello alla riproposizione di un ormai mitico e scervellato mutamento socialistico o addirittura comunistico.
Siamo tra la farsa tragica e la pochade.
Salvo forse che in Sud America (per l’aspetto populistico), dove certe politiche hanno altro significato (però geopolitico più che realmente sociale).

Come già rilevato, il primo handicap di tale sinistra è l’incapacità di uscire dal concetto di capitalismo in generale (modo di produzione capitalistico) con la sua rozza divisione in classi (antagonistiche); talvolta, quest’ultima viene ammorbidita con varie ipotesi ad hoc, passando al generico lavoro salariato o alle masse lavoratrici, e via dicendo.
Insomma, tale sinistra si dibatte, ma non riesce a liberarsi dall’incantamento di un marxismo, dei cui concetti ha però fatto strame o puro oggetto di dibattito accademico per professori universitari.
Si è così preclusa ogni possibilità di corretta analisi del ceto medio, che viene ridotto, quando va bene, ai «quadri-e-competenti», cioè all’apparato manageriale di medio livello delle imprese e degli apparati lavorativi della sfera pubblica (la «burocrazia»).

La prima mossa è invece proprio l’abbandono del concetto di ceto medio, sostituendolo con la distinzione tra lavoro dipendente (salariato, sia pubblico che privato) e autonomo.
Nel settore pubblico, come sopra ricordato, non va confusa l’autentica prestazione lavorativa con la presenza di clientele corrotte (un ammasso di parassiti che alligna sia nel «pubblico» che nel «privato» sovvenzionato dallo Stato e dagli Enti locali) al servizio delle varie bande di destra e di sinistra.
Infine, ed è un punto decisivo, bisogna distinguere le differenti fasce di reddito all’interno dei due tipi di lavoro, cercando la sintesi politica - attualmente difficile, anche perché pochi vi dedicano un minimo di riflessione - tra le fasce basse e medie di entrambi i raggruppamenti lavorativi.

Se qualcuno obietta che restiamo al semplice livello dei rapporti di distribuzione, e non di quelli di produzione, ricorderò che i bolscevichi - prendendo atto che il proletariato non poteva essere altro che l’alleanza tra due tipi di lavoratori nettamente diversi tra loro: gli operai (una minoranza) e i contadini (l’enorme maggioranza) - si presero gran cura di individuare quali erano i contadini ricchi (minoritari) e quelli medi e poveri, dalla cui unione nacque la base di massa della rivoluzione.
L’errore forse più grave dei sinistri - insanabile finché non si allarga la concezione marxista della società dal concetto di modo di produzione capitalistico a quello di formazione sociale globale composta di numerose sue parti (formazioni sociali) particolari - è quello di limitarsi ai cosiddetti rapporti tra classi (fra l’altro ormai resi fluidi e confusi), facendo mero appello ai conflitti tra capitale e masse lavoratrici, alla divisione del reddito tra profitti (e rendite) e salari, ecc.
Se si resta a questo livello, siamo in netto arretrato rispetto a Lenin (si parla di un secolo fa!), che almeno teneva conto dei rapporti di forza tra potenze imperialistiche, i cui conflitti comportavano lo sviluppo ineguale delle stesse.

Oggi, proprio perché non siamo in epoca o fase imperialistica (anche su questo punto certi marxisti ortodossi affermano delle fesserie megagalattiche), bensì ancora per l’essenziale monocentrica ma con tendenze al policentrismo (se esse prevarranno o meno è parte di una scommessa teorica basata su ipotesi), dobbiamo tenere nel massimo conto la configurazione dei rapporti di forza che corrono tra le varie formazioni particolari nell’ambito di quella globale.
[Detto per inciso: invito le persone sensate a non comportarsi come i marxisti ortodossi che straparlano di tendenze (ad esempio alla centralizzazione dei capitali, alla caduta del saggio di profitto, ecc.) anche quando queste non si sono affermate definitivamente dopo un secolo o più; se il policentrismo non si delinea con nettezza entro 20-30 anni al massimo, si dovranno rivedere le varie ipotesi; altrimenti non si è scienziati, ma sacerdoti di una fede].

La sinistra è del tutto incapace di analisi di questo genere, non capisce che quella che era denominata «lotta di classe» (cioè il conflitto tra i vari raggruppamenti sociali di cui constano le diverse formazioni particolari) è in stretto intreccio con lo scontro (segnato da mediazioni e alleanze, da subordinazione di alcune ad altre, ecc.) tra queste formazioni; e, per converso, quest’ultimo è fondamentale per comprendere, e poi orientare, il conflitto sociale interno alle formazioni in questione nelle varie congiunture caratterizzate da differenti configurazioni dei loro reciproci rapporti (geopolitici).

Oggi, ad esempio, è assai limitata e gretta la conduzione del conflitto sociale in Italia poiché non tiene conto del prevalente fine rappresentato dall’indebolimento del predominio globale degli statunitensi.
E’ (forse) esistito fin troppo a lungo un certo blocco sociale, che funzionava assegnando il potere preminente alla GFeID o «piccolo establishment».
Se è esistito, e tutto sommato credo di si, esso si trova in fase di indebolimento (congiunturale o tendenzialmente definitivo? E’ da capire).
Segnali  - tuttavia ancora del tutto contingenti - come la Relazione di Draghi o il discorso di investitura della Marcegaglia sembrano dare un’indicazione del genere; da non accettare però subito, in modo acritico e con la solita malsana abitudine (puramente giornalistica e non scientifica) di proiettare nel lungo periodo ciò che si verifica nel breve o brevissimo.

Insisto affinché si lavori (culturalmente, non illudiamoci di avere adesso una sponda politica, del tutto inesistente a quanto sembra) per la formazione, in prospettiva, di un diverso blocco composto dalla riunione (ma occorrono le strategie politiche per ottenerla) delle fasce basse e medie del lavoro salariato e autonomo.
Naturalmente, le prime misure da prendere nel tentativo di creare questo nuovo blocco sono senza dubbio l’aumento salariale per il lavoro dipendente (medio-basso) e la detassazione per il lavoro autonomo (sempre medio-basso).
Non si creda però che questo sia sufficiente per saldare un blocco sociale.
Occorrono valori, idee forti, emozioni da suscitare.
Ammetto di non sapere come.
Teniamo però intanto presente che le misure (economiche) appena indicate - le scelte politiche proprio minime, di base - sono possibili solo con l’accrescimento della «torta» prodotta; ed è necessario «dimostrare» al «popolo» (le fasce medio-basse di cui sopra) che la sua crescita è possibile solo con la reale autonomia del Paese (e dei maggiori Paesi europei) dagli Stati Uniti.
E allora, ulteriore passo necessario, bisogna chiarire che l’autonomia si conquista con la lotta alla GFeID e con il robusto impulso impresso ai settori produttivi di punta (delle più recenti ondate innovative e di quelle ormai «in arrivo»).
Di conseguenza, il blocco sociale da formare non può prescindere dal collegamento (senza supina acquiescenza) con i gruppi imprenditoriali di questi settori avanzati.

Quanto appena sostenuto non significa quindi la ripresa della lotta per il socialismo e comunismo; non significa le riforme «sociali» che piacciono ai buonisti, quelle consistenti nel togliere ai ricchi per dare ai poveri; non significa sollecitare una redistribuzione del reddito senza sviluppo (anzi, con il sicuro arretramento produttivo delle nostre formazioni particolari); non significa esaltare il lato della domanda e del consumo per ridare slancio all’economia delle formazioni in questione.
Se c’è ancora chi non ha imparato nulla dall’esperienza fallimentare del secolo scorso, è inutile perdere tempo con lui.
Non è affatto all’ordine del giorno, almeno per la prossima fase storica (20-30 anni almeno), il socialismo; ma nemmeno il riformismo, che significa gradualismo, evoluzione lenta e pacifica verso un ordine sociale di rinnovato «tartufismo», di ipocrito «andare al popolo» nel mentre si olia ulteriormente il meccanismo riproduttivo atto a riportare in auge i soliti dominanti sul piano interno (nella nostra formazione particolare), con i loro collegamenti di dipendenza nei confronti dei predominanti centrali.

E’ invece necessario uno scatto drastico, una dura lotta contro i vecchi gruppi dominanti al fine di riconfigurare i rapporti di forza in ambito geopolitico; anche in Italia, devono prevalere coloro che costruiscono un blocco sociale capace di indipendenza (quello appena accennato poco più sopra), l’unico che possa porre le basi per future più radicali rimesse in discussione della nostra società dei funzionari del capitale.
La sinistra, in tutti i suoi spezzoni, non ha più nulla da dire a questo proposito; la destra nemmeno nasconde da che parte sta.
Iniziamo una nuova strada che infine esuli completamente dal «gioco degli specchi» e non riconosca più le vecchie, e ormai fasulle, dicotomie: destra e sinistra, capitalismo e comunismo, fascismo e antifascismo, ecc.
Non ne andiamo fuori così; resteremo sempre nell’attuale «orizzonte degli eventi», che ci sta portando sempre più a fondo.

Non esitiamo: «Alice vada oltre lo specchio», in un nuovo mondo; non però quello ridicolo dei no global, quello del «vorrei ma non posso», quello che ci consegna «in eterno» alla dipendenza e ritarda perciò anche il rafforzamento delle nuove potenziali potenze che stanno muovendosi ad est. Occorre un nuovo blocco sociale - fatto anche, ma non solo, di popolo - per rafforzare il nostro Paese, per «buttare nelle discariche» gli oppositori che si fingono buonisti e tanto favorevoli ai lavoratori, mentre pongono invece le basi per il nostro ulteriore sprofondamento e indebolimento, consegnandoci ad una «perpetua» (cioè per la prossima fase storica) subordinazione agli USA.

Professor Gianfranco Lagrassa
www.lagrassagianfranco.com


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