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Pietro nell'alta società
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Abbiamo visto come L. Vitellio, delegato da Tiberio come plenipotenziario per procedere «ad una sistemazione generale dell’Oriente» (così Tacito) avesse deposto a Gerusalemme il gran sacerdote Caifa, e così fatto cessare le persecuzioni ebraiche contro i primi cristiani. Riprendiamo la cronologia del primo cristianesimo.

Anno 41 dopo Cristo – In quell’anno, e fino al 44, Roma restituisce alla provincia di Giudea l’autonomia, sotto il governo del tirannello locale Erode Agrippa. Immediatamente, la persecuzione riprende. Erode fa uccidere l’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni, e certamente su istigazione del sinedrio. Infatti gli Atti degli Apostoli (12, 1-3) ricordano che giusto in quel periodo Agrippa arresta anche Pietro, «visto che ciò faceva piacere ai giudei», «e prese a maltrattare alcuni membri della Chiesa».

Gesù era stato crocifisso da appena un decennio: e la Chiesa poteva finire lì. E’ certo infatti che Agrippa avesse l’intenzione di uccidere anche Pietro: voleva «farlo apparire davanti al popolo», lo stesso popolo che, sobillato dai sacerdoti, aveva fatto condannare Gesù. Pietro, dicono gli Atti, fu liberato miracolosamente da un angelo, mentre dormiva incatenato con due catene, in mezzo a due soldati: sorveglianza strettissima. Nella notte, il nostro pescatore va dritto alla casa di «Maria, madre di Giovanni soprannominato Marco, doverano molti radunati e in preghiera»: forse la prima riunione clandestina dei perseguitati.

Salutati gli sbalorditi cristiani, Pietro «uscì e andò in altro luogo». Dove? Gli Atti evitano di dirlo.
Ed anche Pietro, da latitante qual è, nella sua prima lettera (5,13), usa un linguaggio convenuto, da clandestino. Saluta infatti «la comunità degli eletti che è in Babilonia, insieme a Marco mio figlio». Marco è l’evangelista e suo segretario; Babilonia è senza dubbio Roma.

Anno 42 dopo Cristo – Pietro è dunque a Roma. Sulla sua presenza nella capitale e in quell’anno, «all’inizio del regno di Claudio» imperatore, le fonti sono molteplici, ancorchè tutte cristiane (Eusebio, Clemente Alessandrino, Gerolamo, Ireneo). Ma c’è un motivo preciso per cui Pietro, inseguito dall’odio giudaico, riparasse a Roma quasi fosse il luogo più sicuro dove nascondersi anziché la bocca del leone. Anzi due.

Primo: proprio allora Claudio, come dice Tacito, stava meditando di espellere gli ebrei dalla capitale, come aveva già  fatto Tiberio nel 19. Finì per non farlo per il momento (gli ebrei, «per la loro massa, non avrebbero facilmente potuto essere espulsi», dice Tacito), ma ne limitò il potere e l’arroganza: «Ordinò loro di non riunirsi tutti insieme», attesta ancora Tacito. Dunque la lobby ebraica (esisteva già, come vedremo) non poteva nuocere al pescatore più di tanto (1).

Il secondo motivo e più importante sfugge agli storici iper-critici: nel 42 si trovava sicuramente a Roma Lucio Vitellio, il potente delegato che Tiberio aveva inviato in Oriente per una sistemazione generale dei problemi, e che a Gerusalemme aveva stroncato la persecuzione ebraica contro i cristiani.

Anno 43 dopo Cristo – Che Vitellio godesse la massima fiducia anche del nuovo imperatore è certo: infatti, nel 43 Vitellio fu console, anzi Claudio, assente per la sua spedizione in Britannia, gli delegò poteri straordinari. Possiamo pensare che Pietro fu sotto la protezione di questo importante personaggio, apparentemente favorevole ai cristiani?

Un apocrifo del secondo secolo, gli Atti di Pietro, dice addirittura che il primo Papa, a Roma, fu ospite nella casa «di Marcello»: e vale la pena ricordare che Vitellio, dopo aver deposto Pilato a Gerusalemme (Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XVIII , 89), affidò provvisoriamente il governo della Giudea ad un suo amicus di nome Marcello.

Si tratta della stessa persona? Non possiamo saperlo con certezza. Ma è certo che Pietro fu accolto e ascoltato, nella sua prima predicazione, non dalla plebe, bensì dalla classe dirigente romana. Tacito (Annali, XIII, 32) attesta che proprio nel 42-43 l’aristocratica Pomponia Grecina si convertì ad una «religione straniera», externa superstitio, che è sicuramente il cristianesimo.

Ora, Pomponia Grecina, convertita dalle parole del pescatore galileo, era una donna della più alta società nobiliare e politica: suo marito è quell’Aulo Plauzio che giusto nel 43 fu generale della spedizione in Britannia con Claudio imperatore. Di più: nella Lettera ai Romani, (16,11) San Paolo accenna a fedeli che sono «nella casa di Narciso»: che era il più influente e potente dei liberti alla corte di Claudio. E Luca dedica il suo Vangelo a un Teocrito che chiama kratistos, traduzione greca del termine egregius, il titolo che spettava ufficialmente ai cavalieri romani.

La classe equestre, l’alta borghesia che a Roma stava sostituendo i nobili (senatori) nell’amministrazione dell’impero, a fianco dei liberti d’alto rango che erano, di fatto, ministri e amministratori imperiali. L’umile Pietro, e il messaggio di Gesù, si trovarono quindi accolti e ospitati da ministri, alti burocrati e grandi manager di Stato, membri del governo imperiale: da quei «cesarianis equitibus» di cui parla Clemente d’Alessandria nella sua Ipotiposi.

Anche Paolo, nella Lettera ai Filippesi, manda saluti a «quelli della casa di Cesare» (4,22). Non sono familiari carnali dell’imperatore, ma i dirigenti e i funzionari dell’amministrazione imperiale, la domus, la corte. A questi Pietro predica. E su loro richiesta viene redatto il Vangelo di Marco.

Anno 49 dopo Cristo – Pietro dev’essere partito da Roma, ma lasciandovi Marco. A lui, dice Eusebio attingendo dagli scritti di Clemente alessandrino, «i presenti (alla predicazione di Pietro), che erano molti, invitarono Marco, che lo accompagnava e ricordava le cose che aveva detto, a metterle per iscritto. Egli lo fece e consegnò il Vangelo a quelli che lo chiedevano».

Dello stesso passo ci è giunta una versione in latino: «Marcus, Petri sectator, predicante Petro evangelium palam coram quibusdam Cesarianis equitibus et multa Christi testimonia proferente, petitus ab his, ut possent quae dicebantur memoriae commendare, scripsit».

Furono i cavalieri della corte di Cesare a incitare Marco a scrivere il primo Vangelo, perché «potessero fissare la memoria» di quel che aveva detto il capo degli apostoli. E come scrisse Marco il suo Vangelo?

Lo dirà Papia vescovo di Gerapoli: «Marco, l’interprete di Pietro, scrisse con esattezza le cose che ricordava, ma non in ordine, sui detti e fatti del Signore. Egli (Marco) non aveva udito il Signore né lo aveva seguito, ma come ho detto più tardi aveva accompagnato Pietro. Egli dava gli insegnamenti secondo i bisogni, ma non come se facesse una raccolta sistematica dei discorsi del Signore».

E’ un’esatta descrizione del Vangelo di Marco: scritto senza pretesa di fare una storia, riportava le parole di Pietro con esattezza, ma senza ordine cronologico. Tutte invenzioni, hanno detto per un secolo gli ipercritici: i Vangeli non sono stati scritti che tardi, molto tardi, al minimo nel 70 dopo Cristo, più probabilmente dopo e lo hanno ripetuto fino al 1972, quando nelle grotte di Qumran fu trovato un piccolo frammento di papiro scritto in greco.

Prima ancora di tradurlo e capire di cosa parlava, gli archeologi – in base alla sola grafia del testo – lo datarono a prima del 50 dopo Cristo. Solo dopo ci si accorse che questo frammento conteneva un passo del Vangelo di Marco.

(D)Javid Bey
   Frammento 7Q5
E’ il celebre frammento 7Q5.

E’ la prova archeologica che dà torto agli ipercritici.

E dà ragione a Papia, Clemente, Eusebio, dimostrando lo scrupolo estremo con cui veniva tramandata la tradizione, a un secolo o due di distanza.

Non s’inventavano niente.

Anno 49 dopo Cristo (o 48) – E’ anche l’anno in cui Saulo di Tarso comincia a firmarsi con il nome latino, Paolo. Perché? Perché il proconsole di Cipro si chiamava Sergio Paulo (o Paullo) e aveva voluto conoscere Saulo e Barnaba, contro il parere di un suo mago ebreo, di nome Bar-Iesus, che aveva una certa influenza su di lui. L’incontro si trasformò in amicizia, probabilmente in conversione, come è accertato per il figlio del proconsole Sergio Paolo nel 70.

E’ per gratitudine che Saulo assume il nome del ricco benefattore (i Sergi Pauli avevano latifondi immensi in Asia Minore); è un’altra conferma del legame che si stabilì tra quei giudei primi predicatori e l’alta società di Roma. Non è inverosimile, anzi.

Anzitutto, i grandi personaggi di Roma non vivevano appartati, come gli Agnelli nelle loro ville e magioni. Si facevano un punto d’onore di essere accessibili (faciles), diremmo democratici, aperti alle richieste di gente di rango inferiore: è l’istituzione romana della clientela, l’istituto italico mai tramontato della raccomandazione: gli umili e i senza-potere chiedevano raccomandazioni ai potenti, i quali eseguivano ed esaudivano; s’intende che in cambio, esigevano dai clientes la loro fedeltà personale: do ut des. Una fedeltà che si spingeva fino all’obbligo di partecipare alla lotta politica, e nel caso alla guerra (civile), dalla parte dei patroni. A Roma, la potenza di un grand commis si misurava dalla folla dei clienti che la mattina si accalcava davanti alla sua casa per salutare, chiedere aiuti e favori.

Ma l’attenzione cordiale di quella classe dirigente verso gli umili galilei aveva scopi più eminentemente politici. Anzitutto, era attenzione per un certo tipo di giudei non ostili all’impero: è possibile che i grandi di Stato sperassero che la diffusione della nuova fede in Palestina, se favorita, pacificasse quella provincia sempre ribelle e difficile. Del resto, quella stessa classe aveva protetto, prima dei cristiani e per lo stesso motivo, i Samaritani: sottraendoli alle vessazioni del Sinedrio, se n’era assicurata la fedeltà. Però c’era un altro motivo, più profondo.

Nell’alta politica romana, e persino nella corte imperiale, si affrontavano due ideologie opposte, inconciliabili: quella che potremmo chiamare occidentale e repubblicana, e quella che diremmo orientale e monarchica. Chi voleva dare all’impero la forma di una monarchia – i discendenti e seguaci di Marco Antonio, divenuto egiziano nella relazione con Cleopatra – associava questa al concetto di Oriente, che comprendeva insieme la divinizzazione del sovrano e uno stile di vita orientale, ossia senza regole, dato alla crapula e agli eccessi, perché il sovrano orientale è un dio e dunque sopra ogni legge, anche morale.

L’ideologia degli occidentali mirava invece a tenere la nuova realtà di fatto, che era l’impero, nel quadro dell’antica città-Stato, e nello stile della repubblica. Bisogna infatti ricordare che quella situazione del potere che oggi chiamiamo impero non era sentita allora come legittima: era il risultato della guerra civile, il potere supremo di qualcuno che l’aveva preso con la forza delle sue legioni private. Per questo Augusto si comportò sempre attentamente come un primus inter pares, mantenne il Senato (che gli era ostile e che poteva spazzare con i pretoriani) e gli tributò onori formali.

Giudicò necessario per la pace di Roma mantenere, con un’alta finzione, la legalità del sistema politico precedente, quello ormai superato della città-Stato. Ebbene: la fazione repubblicana – fra cui i primi imperatori - tendeva ad uno stile di vita specifico, opposto a quello orientale: austero, semplice, alla mano. Moralistico e religioso.

La casa di Augusto era modesta in rapporto a quella di molti senatori. E Augusto si fece volentieri raffigurare come sacerdote, intento a celebrare i sacrifici della Roma prisca, il suovetaurilia dell’Ara Pacis. Gli amministratori e grand commis del primo impero, essendo borghesi e non aristocratici, avevano una ragione in più per adottare questo stile di vita, l’onesta frugalità di onesti manager di Stato, nei quali l’esibizione di lussi ed eccessi sarebbe stata interpretata come corruzione e illecito arricchimento. Non a caso, lo stoicismo era la loro filosofia di casta.

Non è dunque strano che questi grandi signori di recente potere abbiano guardato con cordialità quegli orientali (ebrei cristiani) che però praticavano, anziché le lascivie, le antiche virtù romane: la pietas, la fides (fedeltà), la verecundia, la fortitudo e nelle virtù teologali praticate dai primi cristiani costoro dovettero vedere la virtus romana.

Li sentirono affini, fratelli, anzi maestri in quelle virtù che sapevano Roma aveva perso, e che volevano restaurare per la saldezza stessa dell’impero.

Infatti, quando salirà al trono Nerone, e con lui l’ideologia orientale, il giovane imperatore proclamerà che con lui cominciava l’era della «laetitia», contro la «tristizia» degli stoici e dei repubblicani occidentali: il regno dell’allegria, delle lascivie, delle crapule a tavola, al circo e a letto, e degli eccessi d’ogni tipo. Via, gli «aerumnosi Solones» (i «Soloni arcigni» di Persio), è il momento di sesso-droga-rock’n roll.

Stiamo esagerando? Non troppo. Infatti in un graffito di Pompei, scritto sul muro tra il 64 e il 79, qualcuno deride un tale Bovio «che dà ascolto ai cristiani, questi 'saevos Solones’».

Soloni gli stoici e soloni i cristiani: unificati da un aggettivo che è un segno di tempra o volontà morale. Pomponia Grecina, la nobildonna d’altissimo rango che fu convertita da Pietro, cessò di andare a feste e ad assistere agli spettacoli del circo: a causa, diceva a chi se ne stupiva, del lutto per un’amica morta. Ma lo disse per quarant’anni. E Tacito, che detesta i cristiani, loda Pomponia per questo.

Dopotutto, Tacito è ferocemente repubblicano: perciò vede nell’austerità di Pomponia il pudore delle antiche dame della Roma arcaica, e di cui lamenta la scomparsa (2).

Maurizio Blondet

(articolo pubblicato su EFFEDIEFFE il 26 settembre 2006)

Prima parte > Gesù e Roma, affare di Stato




1) In quello stesso 41 dopo Cristo Claudio invia una lettera assai dura agli ebrei di Alessandria, numerosissimi nella grande città ellenistica, che procuravano continui disordini e scontri con la parte greca della popolazione. Ordina loro di «non assicurarsi più privilegi di quelli che già hanno, di non mandare ambascerie distinte quasi vivessero in due città diverse, di non infiltrarsi negli agoni (ossia di non manipolare lo sport, da cui dipendeva, allora, il favore popolare e che aveva una forza 'politica’), di accontentarsi dei beni propri (sic), e di non far venire per mare da Siria o dall’Egitto altri giudei, così da costringerci a gravi sospetti»: i sospetti, evidentemente, sono per le attività di lobby della nota comunità, così esattamente descritte e condannate. Nella lettera, l’imperatore definisce questa attività ebraica «una peste comune a tutto il mondo», ben visibile anche a Roma (Marta Sordi, «I cristiani e l’impero romano», Milano, 2004, pagina 40).
2) Pomponia Grecina verrà accusata di coltivare un culto estraneo nel 57 (primi anni del regno di Nerone): verrà salvata dai grand commis, che la faranno giudicare da un tribuinale domestico, ossia dai familiari, che l’assolsero: altra istituzione arcaica e repubblicana, rimessa in auge per l’occasione. Verranno poi i tempi in cui nobili e senatori saranno sospettati di essere segretamente cristiani se appena davano la sensazione di inertia, ossia di astenersi dalla vita politica, di appartarsi dalla società.


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