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Chi è il nuovo Hitler
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Il regime dell’Iran spende in armamenti 5 miliardi di dollari l’anno: è tanto? È il segno di un riarmo spaventoso in atto da parte di quello che viene definito «il nuovo Hitler»? Mettiamo i numeri in prospettiva. Con il suo intero bilancio per la difesa, Teheran non potrebbe acquistare nemmeno tre bombardieri B-2. Gli Stati Uniti, che proclamano che l’Iran è una minaccia non solo per Israele ma per il mondo, per il Pentagono spendono ufficialmente (bilancio 2007) 522 miliardi di dollari, ossia 104 volte più dell’Iran (1).

Ma questa cifra non comprende il costo dell’armamento nucleare, nè una quantità di voci collegabili alla difesa, come la NASA, la Homeland Security, e le «operazioni speciali» che può condurre anche il Dipartimento di Stato. La vera cifra è vicina ai 728 miliardi di dollari. Supera i mille miliardi, se si tiene conto degli interessi che il Pentagono paga sulle sue spese (oltre 208 miliardi di dollari).

Ma anche a prender per buona solo la cifra ufficiale, la spesa militare iraniana è oltre cento volte inferiore a quella americana. Gli USA da soli spendono il 47% dell’intera spesa mondiale per gli armamenti. Se si aggiungono i suoi alleati nella NATO, la percentuale è probabilente sul 70%. Con tanto saluti allo slogan: «Le dittature sono guerrafondaie, le democrazie non fanno le guerre».

Non si dimentichi, nel conto degli «alleati», Israele. Il bilancio ufficiale per le armi nel 2006 superava gli 11,370 miliardi di dollari. Ovviamente la cifra ufficiale non ha alcun senso di verità, dati i numerosi programmi segreti nel settore militare sparsi in altre voci di bilancio come del resto in America (le armi atomiche sono nel  bilancio del ministero dell’Energia), e soprattutto gli aiuti in denaro (2 miliardi di dollari annui), gli stanziamenti a fondo perduto continuamente varati dal Congresso per la «sicurezza dell’unica democrazia del Medio Oriente», e in armamenti che Sion riceve dagli USA a costo zero: grandi sistemi d’arma da grande potenza, costosissimi caccia F-15 e F-16, missili e sistemi missilistici, bombe a guida laser, munizionamento in abbondanza prodigiosa.

Basta ricordare che nel lontano biennio 1996-98, quando ancora non era scoppiata la seconda Intifada, gli USA regalarono ad Israele 13 mila fucili d’assalto e lanciagranate, 29 milioni di proiettili, gas tossici per operazioni antisommossa; per non parlare delle attrezzature logistiche e dei mezzi di trasporto (come i pianali per portare in zona d’operazione i carri armati) con i motori e i ricambi, apparati di telecomunicazione, materiali di consumo e sussistenza, equipaggiamenti e gas tossici  ampiamente usati in funzione antisommossa contro la popolazione civile palestinese.

Non dimentichiamo i quattro sommergibili tedeschi che portano missili a testata atomica, armi strategiche da egemonia globale - per un Paese di 6 milioni di abitanti - praticamente regalati dalla Germania come ennesima riparazione per la shoah.

Il bilancio ufficiale di Israele, per quanto falso, dice tuttavia qualcosa: che lì sì la corsa agli armamenti è frenetica. Nel 1999, il bilancio ufficiale era di 8,8 miliardi di dollari; l’anno dopo Sharon lo elevò a 9,4, e così via aumentando. Nel 2006, la cifra di bilancio per la guerra risulta di 11,373 miliardi.

Anche Washington, notoriamente, s’è lanciata in un enorme riarmo dopo l’11 settembre, onde perseguire la «global spectrum dominance», ossia la dominanza globale su ogni settore strategico.

Nel 2005 Donald Rumsfeld si domandò ad alta voce: «Visto che nessuna nazione sta minacciando la Cina, bisogna interrogarsi: perchè avviene questo aumento delle spese militari?».

È il caso di rifare la domanda: quale terribile nemico hanno di fronte gli USA e i suoi «alleati», per doversi accaparrare da soli il 70% delle spese militari del mondo?

 La Russia? Mosca ha aumentato a malincuore le sue spese militari dopo le minacce  implicite nell’espansione della NATO ad est, e conclusesi col piazzamento dei missili antimissile in Polonia: ma si tratta pur sempre di 32 miliardi di dollari l’anno, in gran parte dedicati all’ammodernamento e alla messa in efficienza dell’antiquato arsenale sovietico.

La Cina? Secondo gli americani, spende 59 miliardi di dollari l’anno; anche fosse vero, è sempre meno di quel che spende l’alleata atlantica Gran Bretagna (62,38 miliardi), e meno della metà di ciò che spende il Pentagono per la guerra e occupazione in Iraq: 145 miliardi. E un decimo del bilancio offensivo degli Stati Uniti.

E allora chi? La Siria, la Corea del Nord, Cuba o il Sudan e l’Iran? Ciascuno di loro rappresenta  più o meno l’1%, se va bene, della spesa di armamento globale. Eppure quasi tutti questi Stati sono stati minacciati, prima o poi, di aggressione, invasione ed attacco preventivo. Anche atomico.

È bene mettere le cifre in prospettiva. Soprattutto da quando Benny Morris, lo storico israeliano con forti agganci con il potere militare sionista e americano, ha scritto che «Israele dovrà quasi sicuramente attaccare i siti nucleari iraniani nel prossimo quattro-sette mesi»; se il mondo occidentale non fermerà il programma atomico di Teheran, Israele - la vittima - «dovrà lanciare un attacco nucleare preventivo». Dovrà, sennò non è tranquillo. Rischia di essere incenerito dal «nuovo Hitler». È in gioco la sua stessa esistenza (2).

Ora, non è nemmeno il caso di ricordare che il vecchio Hitler - quello vero - nel 1939 era a capo della prima o seconda potenza economico-industriale mondiale, e delle forze armate più efficaci in qualità di uomini e materiali, a detta degli stessi nemici, dal maresciallo Zukov ai generali americani. Nulla di nemmeno lontanamente paragonabile all’armamento e alle capacità industriali dell’Iran - regime che peraltro, è bene ripeterlo, non ha mai preso alcuna iniziativa militare in tutta la sua esistenza.

Al contrario, la presidenza Bush ha ripetutamente minacciato l’Iran - ed altri Paesi che non dispongono di armamento nucleare, come Siria e Iraq - di attacco atomico. Che questa minaccia non sia fino ad oggi stata attuata non deve far dimenticare una cosa essenziale per la nostra civiltà: il fatto che già minacciare Paesi non-nucleari con armi nucleari è una violazione dei Trattati di Non-Proliferazione (NPT) che gli Stati Uniti hanno firmato nel 1968, e più precisamente dell’»addendum» che vieta questo tipo di minaccia, aggiuto agli NPT nel 1978, e riconfermato nel 1995.

Ebbene: quante volte ci siamo sentiti ripetere che Hitler violò trattati internazionali ed impegni che la Germania aveva sottoscritto? Oggi, conviviamo con una super-potenza nucleare, che da sola spende il 50% di quel che spendono tutti gli altri Paesi del globo in armamenti e continua a sfornare sistemi d’arma da terza guerra mondiale, che ha già dimostrato la volontà di aggressioni preventive non provocate contro Stati infinitamente meno armati, e che viola uno dei più importanti trattati da essa sottoscritto, anzi promosso e voluto.

Chi è dunque il vero ed unico «nuovo Hitler» della nostra generazione? La potenza aggressiva di cui dobbiamo veramente aver paura?

L’America del 1968 volle e promosse il NPT per cercare di limitare la diffusione dell’arma atomica, allora in mano a soli cinque Paesi: oltre USA ed URSS, la Cina, la Francia e la Gran Bretagna. L’idea era che in mano a Stati più piccoli e numerosi avrebbe aumentato il rischio di un uso irresponsabile dell’arma assoluta. Per convincere questi Stati a rinunciare al nucleare, le cinque potenze atomiche si impegnarono (all’articolo VI del Trattato) a «perseguire al più presto negoziati in buona fede su misure efficaci in relazione alla cessazione della corsa all’armamento nucleare, al disarmo mucleare, e ad un trattato sul disarmo generale e completo sotto stringente ed efficace controllo internazionale».

Insomma, gli Stati non atomici (180 circa) accettarono di rinunciare all’arma atomica, perché le cinque potenze nucleari si impegnavano a smobilitare gradualmente (ma «al più presto») i loro arsenali nucleari. Nessuna delle cinque potenze ha adempiuto a questa clausola; ma mentre per esempio Mosca ha effettivamente ridotto i suoi arsenali atomici - dapprima in proporzione bilanciata alle riduzioni USA, poi, dopo il crollo dell’URSS, in una caotica dismissione «da crisi» (con testate lasciate in Ucraina, e sommergibili strategici abbandonati nell’estremo Nord) - gli Stati Uniti sono tornati ad accelerare, anzi ad aprire ad una nuova generazione di testate atomiche dopo l’11 settembre: ormai apertamente preparando atomiche «tattiche» da usare nel quadro convenzionale di conflitti limitati.

Se le altre potenze minori hanno sospeso il disarmo atomico, è per questo atteggiamento USA di aperta minaccia. Dopotutto, un armamento nucleare è il modo più economico che un Paese debole ha di dissuadere una potenza più forte e palesemente aggressiva dall’invaderlo, dall’attaccarlo preventivamente dal rovesciare il suo governo.

Non è un caso se una decina di Paesi che hanno firmato il NPT stiano ora meditando di violarlo e crearsi un deterrente atomico: Giappone e Argentina, Turchia e Brasile, Sud Africa e Sud Corea hanno i mezzi e le conoscenze per dotarsi di un arsenale nucleare entro un decennio. L’Iran non è che uno di questi Paesi che hanno bisogno di darsi un mezzo di dissuasione, tanto più che è apertamente minacciato di aggressione dalla superpotenza e dal suo servo-padrone atomico, Israele.

Israele non ha firmato il NPT; come la responsabilità di un’eventuale corsa al nucleare globale risiede negli Stati Uniti (nel loro mancato disarmo atomico e nello sviluppo di testate «tattiche» per uso in conflitti limitati), così Israele è responsabile morale della dinamica che può portare ad una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente.

Ammesso (e non concesso) che Teheran si voglia fare la bomba atomica, in termini di diritto internazionale va sottolineata la differenza fondamentale: Teheran vuole una forza di dissuazione contro minacce attive, mentre per Israele le sue 200-300 testate nucleari sono diventate un mezzo di minaccia. Da una parte l’intento è la dissuasione, dall’altra, l’aggressione.

Le frasi di Benny Morris non lasciano dubbi sull’attitudine dei circoli al potere: Israele è disposta ad essere il primo Stato della storia a lanciare bombe atomiche contro uno Stato ad armamento convenzionale, che non gli ha dichiarato nè fatto guerra, in base ad una percezione di minaccia «percepita». Percepita in modo patologico e ossessivo.

C’è una frase rivelatrice di Benny Morris, che mostra fin troppo bene questa patologia del pensiero (se così si può chiamare) che cova in Israele: «Ci sono circostanze nella storia che giustificano la pulizia etnica. So che il termine è completamente negativo nel discorso del ventunesimo secolo, ma quando la scelta è fra la pulizia etnica e il genocidio - l’annichilimento del tuo popolo - io preferisco la pulizia etnica».

Come un lapsus freudiano, questa frase rivela l’amalgama fra due «pericoli» ben diversi, che diventano tutt’uno nella mentalità israeliana. La «pulizia etnica» evoca il «pericolo» palestinese: pericolo inesistente, dato che i palestinesi non hanno certo la minima possibilità di compiere un genocidio contro gli ebrei, ma indice della necessità per Israele di cacciare tutti i palestinesi, se vuole sopravvivere come «Stato ebraico» (ossia razziale) nel futuro; la prospettiva di diventare uno Stato dove gli arabi abbiano pari cittadinanza viene infatti percepita come «annichilimento del mio popolo», ossia della ebraicità razziale.

Ma che c’entra questa frase nel discorso volto ad agitare il «pericolo» di un Iran nucleare? L’attacco atomico all’Iran non sarebbe «pulizia etnica», ma appunto  genocidio. Basta pensare che le bombe atomiche che incenerirono Hiroshima e Nagasahi erano da 15 chilotoni, mentre oggi le testate-tipo sono fra i 150 e i 250 chilotoni. Insomma, la mente sionista si autorizza moralmente (e sdogana) la «pulizia etnica», e cerca di convincere  il resto che l’attacco all’Iran non è che una pulizia etnica un po’ più intensa, più che legittima per sventare «l’annichilimento del proprio popolo». Dopotutto, il mondo fa finta di non vedere la pulizia etnica dei palestinesi, che è ferocemente in corso; accetterà anche il genocidio degli iraniani, che vogliono «annichilire» Israele.

Qui, il vero problema è la percezione di ciò che gli israeliani (e gli ebrei in generale) sentono come «annichilimento». Ciò che temono non è - nonostante la propaganda - la distruzione fisica dell’intero popolo ebraico - pericolo tanto ipotetico da essere fantomatico - bensì l’assimilazione.

Ciò che i rabbini e gli ideologi dell’ebraismo temono, e lo dicono ad alta voce, è l’assorbimento della minoranza ebraica nella comune umanità, per via d’integrazione, di matrimoni misti, di perdita graduale e spontanea  delle usanze che «separano» gli israeliti dal resto del genere umano.

Posto in questi termini, il pericolo di «annichilimento» è assolutamente reale ed incombente: basta che Israele e la comunità ebraica nel mondo vivano in pace, e presto o tardi saranno assimilate pacificamente nel vasto genere umano. Nemmeno un ebreo sarà ucciso, ma questo non basta: tanto più gli ebrei sono accolti alla pari, cordialmente e pacificamente, tanto più «è in pericolo l’esistenza stessa di Israele».

Ne consegue che, perchè Israele smetta di temere «l’annichilimento» (ossia l’assimilazione) occorre che l’intera umanità sia vista come nemica. E al fondo, che tutta l’umanità muoia, perchè solo così  Israele potrà essere sicura di esistere anche domani.

Questa psicopatologia cova in una comunità armata di 200 testate nucleari. Chi è dunque il nuovo Hitler? Quello che mette in pericolo l’umanità presente?




1) Conn  Hallinan, «An unconfortable conversation about nukes», AntiWar.com, 22 luglio 2008.
2) Benny Morris, «Using bombs to stave off war», New York Times, 18 luglio 2008. A proposito di questo articolo, Justin Raimondo ha commentato: «Non accade spesso di vedere il male allo stato puro, in tutta la sua satanica oscurità, espresso così apertamente su una pagina stampata». It isn't very often that we get to see pure, unmitigated evil, in all its Satanic darkness, expressed openly on the printed page.


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