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Il Cuore del Mondo
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Le rivoluzioni colorate hanno travolto uno dopo l’altro i sistemi politici di Serbia, Ucraina, Georgia, Kyrgyzstan.
Se oggi la guerra è nel Caucaso, la colpa è di chi ha scherzato col fuoco, con l’intento di accerchiare la Russia e depredarla della sua sovranità e delle sue risorse neturali.
Halford Mackinder, il fondatore della Geopolitica, aveva posto alla base della sua concezione geopolitica globale una celeberrima massima: «Who rules East Europe commands the Heartland: who rules the Heartland commands the World-Island: who rules the World-Island commands the World» (Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland [letteralmente: il Cuore della Terra]: chi controlla l’Heartland comanda l’Isola - Mondo [la massa terrestre eurasiatico-africana]: chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo»).

Se Josef März poneva nell’eterna contrapposizione tra Terra e Mare (Landmächte e Seemächte), il cuore dello scontro, l’asse centrale della storia e della geopolitica è allora rappresentato dall’Heartland.
E’ lì nel «cuore» dell’Eurasia, contrapposta all’Asia gialla del Medio Oriente e della penisola Arabica, dell’India, dell’Indocina, dell’arcipelago nipponico (a quella serie cioè di isole e penisole che proprio come una «mezzaluna» circondano la massa continentale), lì nel «cuore» dell’Eurasia, fortezza del Mondo, che spesso sono venute linfa ed energia guerriera capace di cambiare nel corso dei secoli la storia del Mondo.
Dalla Russia zarista all’Unione Sovietica di Stalin, l’impero terrestre eurasiatico, l’«Heartland» appunto, ha seguito le direttive geopolitiche d’espansione in grado di contrapporsi alle nuove potenze marittime: Istambul prima, l’impero britannico poi, gli Stati Uniti d’America nel secolo scorso ed oggi.

Ad un tratto la caduta dell’Unione Sovietica sembrava spianare la strada alla conquista dell’Heartland da parte delle potenze marittime.
L’Apocalisse - tante volte Blondet lo ha ricordato - parla di una grande Bestia «che sale dal mare», adorata da «tutti gli abitanti della terra» e di una piccola Bestia che «sale dalla terra», amministratrice della superpotenza satanica che «aveva due corna come l’agnello, ma parlava come il dragone. Esercitava tutta l’autorità della prima Bestia per conto di essa».

Non c’è solo il controllo delle fonti energetiche presenti e future dell’Eurasia nello scontro che sta infiammando il Caucaso, quanto proprio l’intento di sterilizzare per sempre quelle terre che da sempre sono state il grembo di energie guerriere e di culture tradizionali.
Ecco perché la farsa dell’11 settembre e la scusa della «guerra al terrorismo islamico» sono state la scusa perfetta per cominciare con l’invasione dell’Afghanistan la realizzazione di questo piano: dopo gli ultimi lembi d’Europa annientati con le due Guerre mondiali, è nelle democrazie di matrice non liberista ma popolare, che sopravvive una volontà di resistenza alle sirene del modello elaborato dalle «Seemächte», le potenze del mare.

L’erosione dell’«Heartland» è cominciata subito dopo il fatidico 11 settembre: Polonia, Ucraina, Serbia, Georgia, Kirghizstan, Bielorussia, Azerbajan, Mongolia sono state solo le tappe intermedie e convergenti di questo attacco da ovest, da sud, da est per la conquista dell’obiettivo strategico: il retroterra russo-siberiano prima e quello cinese poi.
Non tutte sono rivoluzioni riuscite, ma tutte sono state tentate.

In verità si era cominciato ben prima: mentre si bombardava Belgrado, era a Mosca che si puntava.
E la distruzione dell’ambasciata cinese nella capitale serba fu un avvertimento al colosso asiatico.
Gli eventi contemporanei ci confermano tragicamente in queste previsioni.
Il disegno si sta compiendo.

Mentre dopo l’11 settembre gli USA chiamano il mondo alla «crociata antislamica», i soldati americani entrano in Georgia in sostegno di Eduard Shevardnadze, ieri ministro dell’URSS e poi acerrimo nemico di Mosca, con la scusa che nella regione di Pankisi abbiano trovato rifugio uomini di Al Qaeda.
Proprio dalla patria di Stalin, il moderno, spietato e geniale creatore della potenza russa moderna, proviene ora il pericolo per l’integrità e la sopravvivenza stessa della Russia.
E’ la vendetta di Tbilisi per la tutela che la Russia accorda all’Abkhazia, la Repubblica indipendente autoproclamatasi tale dal 1992, ma non riconosciuta tale da alcuno Stato.
E’ così che la Georgia apre alla NATO dalla confinante Turchia le porte del Caucaso russo.
Se il Cremlino aveva pensato di sfruttare il sostegno all’invasione americana dell’Afghanistan per avere sostegno e mano libera in Cecenia adesso è servito: le potenze del mare, mentre annientano palestinesi e irakeni, guaiscono di diritti civili per i ceceni.

Tuttavia all’inizio Putin dichiara che la presenza di truppe USA in Georgia non è una tragedia.
Poi la politica di Washington è così aggressiva da divenire insopportabile.
Dopo l’11 settembre si inaugura appunto l’epoca delle rivoluzioni colorate.
Movimenti studenteschi ed organizzazioni non governative, anche utilizzando metodi di disobbedienza civile, ispirati tra l’altro ai testi di Gene Sharp, manifestano contro i governi in carica ritenuti filo-russi, sostenedo le candidature di politici filo-occidentali come Viktor Juščenko, Mikheil Saakašvili e Kurmanbek Bakiyev.
Le rivoluzioni colorate fanno il giro del mondo, adottando uno specifico colore (o fiore) come simbolo e strumenti di marketing politico: dispongono di risorse straordinarie, creano «gruppi di educazione alla democrazia», distribuiscono ogni tipo di gadget (adesivi, ombrelli, impermeabili e altre forme di merchandising).
L’opinine pubblica occidentale è come stregata: le rivoluzioni colorate ottengono successi di velluto in Serbia (la cosiddetta Rivoluzione del 5 ottobre del 2000), Georgia (Rivoluzione delle Rose, 2003), Ucraina (Rivoluzione Arancione, dicembre 2004 e gennaio 2005) e con derive violente in Kirghizistan (Rivoluzione dei Tulipani, 2005).
L’apertura ad occidente si accompagna spesso però ad una delusione per le aspettative sfumate, ad un calo del consenso e a dover fronteggiare nuove manifestazioni di massa, che obbligano i nuovi regimi ad un compromesso con i vecchi nemici (come in Ucraina) o ad una sorta di deriva autoritaria (come in Georgia e Kirghizistan).

Il Cuore del Mondo però è oramai incendiato.
Invano Putin aveva ammonito: «E’ estremamente pericoloso creare un sistema che inneschi una rivoluzione permanente, sia essa rosa, blu, o di qualsiasi altro colore. Le leggi di questi Paesi vanno rispettate».
Ma i nuovi vincitori e gli ingegneri delle rivoluzioni permanenti irridono la pazienza russa dichiarando che questa nuova ondata spazzerà via come uno tsunami personaggi come Vladimir Putin o Loukachenko.
Poi l’Occidente ha alzato la posta: via il Kosovo dalla Serbia.
Putin ammoniva: se vale per il Kosovo, varrà per tutti.
E così un comunicato del ministero degli Esteri russo diffuso mercoledì 16 aprile rendeva noto che il presidente uscente Vladimir Putin aveva dato istruzione ai suoi ministri e ad altre agenzie statali di stabilire «relazioni ufficiali» con le controparti delle regioni secessioniste georgiane d’Abkhazia e Ossezia del Sud.

La Georgia si prepara all’attacco: lunedì 20 aprile un aereo da combattimento russo abbatteva un velivolo da ricognizione georgiano che volava sull’area contesa.
Il 6 maggio Dimitry Rogozin, inviato della Federazione Russa presso la NATO, affermava che «effettivamente la Georgia è molto vicina alla guerra, ma è colpa è della Georgia».
Infatti pesanti armamenti e più di 7.000 soldati venivano concentrati da parte georgiana lungo il confine amministrativo con l’Abkhazia.
In maggio i primi risultati delle elezioni parlamentari georgiane attribuiscono la maggioranza al partito filoamericano di Saakashvili.
Migliaia di manifestanti si radunavano davanti al Palazzo dello Sport di Tbilisi per poi dirigersi verso il Parlamento e protestare contro quelle che ritengono «elezioni con gravi brogli elettorali».
Giovedì 5 giugno iniziava la visita a Tbilisi di Xavier Solana, alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, che incontrava il presidente Mikhail Saakashvili, di fatto per portare la Georgia all’interno della NATO.
Ai primi di luglio in Georgia una serie di attentati e scontri a fuoco provocano diverse vittime e aumentano la tensione nelle regioni secessioniste di Abkhazia e Ossezia del Sud.
Secondo il ministro degli Esteri dell’Abkhazia Sergej Šamba, queste esplosioni e le precedenti a Gagra e Suhumi, hanno un unico scopo: dimostrare l’inefficacia dell’attuale sistema di regolamentazione del conflitto da parte delle forze di pace russe.

«Tbilisi non nasconde la volontà di spostare il processo di pace dall’egida ONU a quella dell’Unione Europea, dove la Russia non ha una significativa influenza. Questo non riguarda solo l’Abkhazia, ma anche l’Ossezia del Sud, dove la situazione è ormai al limite. La Georgia fa di tutto per destabilizzare la situazione, ma le conseguenze possono essere inaspettate anche per Tbilisi» dichiarava Šamba a Nezavisimaja Gazeta, confermando inoltre l’accordo di mutuo aiuto militare tra Abkhazia e Ossezia del Sud.
Qualche giorno fa la Georgia decide di attaccare l’Ossezia del sud e oramai è cronaca di questi giorni.

Facciamo un passo indietro.
Torniamo a Bratislava nel febbraio 2005, quando a poche ore dall’incontro Bush-Putin si registrava un provocatorio dietro le quinte, proprio mentre i media occidentali celebravano la dilagante espansione americana come l’inizio di un nuovo periodo di riconciliazione tra Mosca e Washington.
In una stanza riservata dell’Hotel Marriott, la delegazione americana organizzava un cocktail party in forma strettamente privata, a cui venivano però stranamente ammesse le telecamere: era il back-stage delle rivoluzioni colorate di Serbia, Georgia, Ucraina, Kirghizistan.
Quel giorno a Bratislava con gli alleati più stretti di Bush ci sono consiglieri politici, capitani d’industria, lobbisti, ma soprattutto le celebrità della serata: i leader delle rivoluzioni multicolore che hanno rovesciato i regimi pro-moscoviti dell’est.

Tre su tutti mostrano la propria arrogante soddisfazione: Ivan Marovich, capo del movimento studentesco serbo OTPOR, che ha rovesciato il regime di Milosevic; Giga Cokeria, leader di Kmara, movimento studentesco della Georgia che aveva destituito Eduard Shevardnadze e il trentaduenne Vladislav Kaskiv, leader del Movimento Pora, che ha guidato la rivoluzione arancione in Ucraina e che si vanta così: «Diremo a George Bush che dovrebbe ricorrere a noi per portare la democrazia in tutta l’ex Unione Sovietica! In Bielorussia, in Armenia, in Azerbaijan, in Kyrgyzstan... e nella Russia stessa. E’ un’occasione unica per far trionfare la democrazia a livello globale. E ci riusciremo!».

Page Reiffe consigliere della Casa Bianca rilasciava questa dichiarazione: «Questa nuova ondata, indipendentemente da dove essa si trovi, spazzerà via come uno tsunami personaggi come Vladimir Putin o Loukachenko».
Per ora, invece, sta toccando a Saakashvili.
Una coraggiosa giornalista, Milena Gabanelli, su Report ci aveva documentato tutto due anni fa.
Andatevelo a rivedere: nel primo filmato la parte che interessa comincia al minuto 3,45.





Imparateli a memoria quei filmati prima di credere ai titoli de Il Corriere della Sera del duo Mieli-Elkahn e prima che scompaiano da internet.

Grazie a Dio Putin sta tagliando gli artigli del piccolo despota Saakashvili, per dire alla Bestia che sale dal mare che l’Heartland non vuole cedere e ammonire la piccola Bestia, che sale dalla terra, che non tutti sono disposti a lasciarsi impunemente marchiare sulla mano destra e sulla fronte senza avere almeno combattuto.
Sangue antico scorre ancora nelle vene dei popoli dell’Heartland, il Cuore del Mondo.

Domenco Savino


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