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Vita politica, individualismo, “religione laica” nell’epicureismo
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Materialismo politicamente individualista

Il materialismo edonistico e utilitarista epicureo comporta necessariamente l’individualismo più rigoroso, che nega ogni forma di vita sociale e politica.

Inoltre storicamente Epicuro si trovava a vivere nel tempo del disfacimento della Città-Stato greca con le sue tradizionali istituzioni politiche. Platone e Aristotele ne avevano dato una interpretazione teoretica nelle loro opere politiche presentando l’uomo come animale socievole e cittadino della Città-Stato o della polis greca. Epicuro si sentiva confermato in ciò anche nella sua confutazione della metafisica platonica e aristotelica sulle quali si basavano le loro opere politiche. Secondo lui il crollo della polis greca comportava la non attendibilità della metafisica platonica e aristotelica. L’impero di Alessandro Magno era succeduto alla polis, ma ben presto si dissolse così come le monarchie greche che lo seguirono furono caratterizzate da una grande instabilità. Epicuro pensò di avere trovato in ciò la prova del nove della validità della sua filosofia materialistica e individualistica. Per lui nessuna società civile è buona, l’uomo basta a se stesso senza aver bisogno dello Stato. Se l’edonismo epicureo anticipa, pur senza eccessi, l’attuale edonismo grossolano, la politica epicurea anticipa quella liberale e liberista, che riduce lo Stato al minimo tanto da far parlare di anarco-liberalismo.

La vita sociale e politica per Epicuro è innaturale e comporta dolori e turbamenti, compromettendo l’aponìa e l’atarassìa (assenza di dolore corporeo e imperturbabile serenità d’animo), ossia la felicità e il piacere, che per lui sono il fine ultimo dell’uomo.

Siccome Epicuro è vissuto in un’epoca di decadenza della polis, secondo lui dalla vita politica gli uomini si aspettano non il bene comune temporale subordinato a quello spirituale, ma potenza, fama, ricchezza, ossia tutti quei desideri che fanno perdere la pace e la felicità, come succede nelle epoche di crisi politica quale è quella che stiamo vivendo noi. Quindi egli è vissuto in disparte e appartato ed ha insegnato ai suoi allievi a “vivere nascosti” (“de latenter vivendo”), ritirandosi in sé per trovare in sé la felicità e il piacere, che sono il bene supremo.

Con Epicuro l’uomo ha cessato di essere cittadino e animale sociale ed è diventato un puro individuo.

Il valore positivo dell’amicizia

L’epicureismo si proponeva di formare l’uomo a diventare un puro individuo, che non si aspetta nulla dallo Stato e si aspetta tutto da sé.

Tuttavia vi è un legame sociale che Epicuro non spezza: l’amicizia, la quale lega coloro che “vogliono e non vogliono la stessa cosa”. Essa non vìola l’intimità dell’individuo poiché non impone nulla dal di fuori, ma si basa sui sentimenti intimi che legano due o più persone. L’amico per Epicuro è un altro se stesso e serve a formare l’individuo nella sua pura individualità. L’amicizia è fonte di piacere e quindi è fine e felicità.

Ai Greci, tormentati dal crollo della polis e dell’impero, Epicuro indicava una nuova filosofia capace, secondo lui, di dar loro la felicità e il bene, che si trovano dentro l’individuo e non vengono dallo Stato.

L’epicureismo come “religione laica”

L’epicureismo non conobbe nessuna evoluzione di pensiero anche dopo la scomparsa di Epicuro. Giovanni Reale scrive che “Epicuro non solo propose la propria dottrina, ma in qualche modo la impose, con disciplina fermissima” (Storia della filosofia greca e romana, cit., p. 247).

Ora tutte le scuole filosofiche hanno conosciuto una certa evoluzione di pensiero, mentre solo l’epicureismo è stato dominato dal pensiero di uno solo: Epicuro. I suoi successori hanno ripetuto ciò che lui diceva ed hanno vigilato affinché nulla fosse mutato di quanto aveva insegnato.

Seneca (Epist., 34, 4) ha paragonato la scuola epicurea all’impero, in cui tutto ciò che fanno i generali si svolge sotto la guida e gli auspici dell’imperatore. Quindi nel “Giardino di Epicuro” non si accesero discussioni né vi furono diversità di idee filosofiche, ma si seguì sino alla fine la dottrina dell’unico maestro.

I princìpi capitali della filosofia epicurea divennero come “dogmi” da apprendere, da difendere e da approfondire, ma nulla di più. Da ciò risulta il carattere di “religione laica” dell’epicureismo. Vi fu «un ciclo unico e dottrinalmente unitario nella storia del “Giardino”. Dalle opere di Epicuro al poema di Lucrezio alle iscrizioni di Diogene di Enoanda – ossia dalla fine del IV secolo a. C. al II secolo d. C. – restò fondamentalmente immutato lo spirito vivificatore degli scritti degli epicurei, restò immutata la fede, e restarono identiche le articolazioni teoretiche» (G. Reale, cit., p. 248).

Verso il 50 a. C. ad Atene “il Giardino” (la Scuola fondata da Epicuro) era morto, il terreno su cui Epicuro aveva costruito “il Giardino” era stato venduto, ma “il verbo epicureo si era oramai da tempo diffuso dovunque, sia in oriente che in occidente. Anzi proprio in occidente, e precisamente a Roma, l’epicureismo doveva trovare una sua seconda patria, soprattutto per merito del poeta Lucrezio, che lo seppe cantare con la più alta e commossa poesia” (G. Reale, cit., p. 255).

Il primo tentativo di introdurre la filosofia epicurea a Roma fallì. I due discepoli di Epicuro (Alceo e Filisco) che partirono da Atene attorno al 150 a. C. furono sùbito espulsi dall’Urbe. Verso il I secolo a. C. Amafino riuscì a portare la filosofia epicurea a Roma e la propose in maniera divulgativa ad un pubblico popolare e non colto, fondandosi soprattutto sul suo lato pratico o etico, mentre Filodemo attorno al 60 a. C. costituì ad Ercolano un circolo epicureo, frequentato dall’alta società romana, di carattere aristocratico in cui spiegava l’epicureismo in maniera più alta, in lingua greca, affrontando i problemi più ardui dell’epicureismo. Ma il contributo più importante all’epicureismo fu dato dal poeta Tito Lucrezio Caro (99-55 a. C. circa) nel suo De rerum natura.

Reviviscenza dell’epicureismo nei primi due secoli dell’era cristiana

Cicerone scriveva in una lettera (Ad fam., XIII, 1) del 51 a. C. che la casa e “il Giardino” di Epicuro in Atene erano stati venduti e che si progettava di costruire nuovi edifici su quel terreno una volta famoso perché era stato la Scuola di Epicuro. Cicerone scongiurava Memmio, che aveva acquistato “il Giardino”, di risparmiare la casa di Epicuro e il luogo ove egli aveva insegnato (“il Giardino”).

Da questa lettera si evince che attorno al 50 a. C. la Scuola epicurea (“il Giardino”) era stata chiusa e i suo membri si erano dispersi. Infatti nella lettera si chiede di salvare dalla totale distruzione almeno la casa e i luoghi in cui Epicuro aveva insegnato ai suoi discepoli. Inoltre dopo il 50 a. C. non si hanno più notizie di capi-Scuola epicurea in Atene. Secondo Giovanni Reale la crisi della Scuola epicurei di Atene si protrasse per gran parte del I secolo d. C. (cit., p. 295). Tuttavia da alcune testimonianze sembra che “il Giardino” di Atene fosse rinato e sussistesse ancora nel II secolo d. C., mentre fuori Atene e specialmente a Roma e in Italia l’epicureismo non conobbe crisi di discontinuità sino al III secolo d. C.

Quello che desta stupore è che “la stabilità dogmatica, la rigorosa ortodossia e la fedeltà pressoché totale nei confronti della dottrina del fondatore della Scuola sono i tratti caratteristici non solo dell’epicureismo dell’età ellenistica, ma altresì di quello dell’età imperiale” (G. Reale, cit., p. 297). In breve l’epicureismo continuò ad essere una “religione laica” anche in epoca cristiana.

Ciò fu possibile perché Epicuro aveva costruito la sua Scuola filosofica a mo’ di una vera e propria religiosità sia a livello teoretico sia a livello pratico. Egli stabilì che il suo compleanno fosse festeggiato solennemente tutti gli anni. Plinio il Vecchio scrive (Nat. hist., XXXV, II, 4) che nel I secolo d. C. questa festività era ancora rispettata.

Inoltre Epicuro aveva prescritto: “Agisci sempre come se ti vedesse Epicuro” (Seneca, Epist., 11, 8). “In questo precetto egli aveva trasposto, sia pure con l’attenuazione del ‘come se’, la prerogativa del Dio che vede tutte le azioni dell’uomo, e si era coscientemente presentato come la suprema autorità che pone e custodisce la norma del ben vivere, e giudica per conseguenza. Non è quindi sorprendente che Lucrezio chiamasse Epicuro ‘un Dio’, né il fatto che nel II secolo d. C. Luciano di Samosata chiamasse Epicuro ‘divino sacerdote della verità’. Dalle testimonianze riferite, emerge chiaramente l’accentuarsi, durante i primi tre secoli dell’era cristiana, del carattere di religione proprio di questa filosofia, in sintonia con lo spirito dei tempi nuovi, anche se con una differenza di fondo: lo spirito dei tempi nuovi era rivolto alla trascendenza, mentre l’epicureismo fu e restò sempre una religione dell’immanenza” (G. Reale, cit., p. 299).

La fine dell’epicureismo

Un uomo assai ricco, convertitosi alla filosofia epicurea, di nome Diogene da Enoanda nella Licia (Asia Minore), vissuto verso la fine del II secolo e gli inizi del III secolo d. C. decise di tramandare la parola di Epicuro in maniera del tutto nuova, ossia non affidandola ai libri, ma facendola incidere sulla pietra. Acquistò un grande terreno ad Enoanda e vi fece costruire una vasta piazza circondata da un portico rettangolare ornato di statue. Fece erigere delle lapidi nel giardino e vi fece incidere un compendio di tutta la filosofia di Epicuro. “Gli scavi di archeologi e studiosi compiuti sulla collina di Enoanda a partire dalla fine dell’Ottocento hanno portato alla luce ampi frammenti di questo libro murale” (G. Reale, cit., p. 305)1.

Diogene volle lasciare a tutti gli uomini dotati di buon senso un libro di pietra perché restasse indelebilmente scritto in esso il messaggio del suo maestro Epicuro

Secondo Giovanni Reale “lo scritto murale di Diogene di Enoanda è, probabilmente, l’ultima significativa manifestazione dell’Epicureismo antico. […]. All’inizio del III secolo d. C. Diogene Laerzio, se non condivise senz’altro la dottrina del Giardino, certamente mostrò di apprezzarla più di tutte le altre, dedicando a Epicuro e al Giardino l’intero decimo libro delle sue Vite dei filosofi, che è il libro conclusivo dell’intera opera. È proprio in questo libro che son state conservate le opere di Epicuro che ancora possiamo leggere per intero” (cit., p. 312).

Il “Giardino di Atene” invece non poté sopravvivere oltre il 267 d. C., anno in cui gli Eruli invasero Atene e distrussero i luoghi in cui era sito “il Giardino di Epicuro”.

Giuliano l’Apostata (Epist., 89, 301) testimonia che al suo tempo (IV secolo d. C.) l’epicureismo si era dissolto e che la maggior parte dei libri di Epicuro era scomparsa dalla circolazione. Il Neoplatonismo e il Cristianesimo avevano conquistato quasi interamente gli spiriti di questa età.

Conclusione

Da quanto visto risulta che l’epicureismo è stato una forma esasperata di individualismo politico, negando ogni valore positivo dello Stato. Ora, se in un’epoca di crisi di valori morali e socio/politici il “vivere appartato” dalla politica può accidentalmente ed eccezionalmente risultare conveniente per non restare invischiati nella corruzione, non si può per principio negare la natura sociale e politica dell’uomo e la necessità della famiglia e dello Stato.

Secondariamente Epicuro salva il valore dell’amicizia, ma per lui l’amico è un alter ego che è un mezzo utile a rafforzare se stessi. Quindi ricade nell’individualismo anche qui.

In terzo luogo si constata che Epicuro ha imposto con una ferrea fermezza la sua filosofia come se fosse una religione laica e immanentistica, non soggetta a nessuna evoluzione intrinseca, in cui la sua figura domina per sempre come “colui che vede tutto e tutti”, attribuendosi le qualità della Divinità che negava.

A partire da tutto ciò il giudizio sull’epicureismo non può che essere negativo. Dopo aver affrontato quelli che mi son sembrati i lati più attuali e interessanti dell’epicureismo mi fermo qui. Non tratto la cosmologia e l’atomismo epicureo, rimandando al libro di Giovanni Reale, che ho ampiamente citato, coloro che volessero approfondire tutti gli aspetti della filosofia epicurea2.

d. Curzio Nitoglia

Fine


 

1) Cfr. A. Casanova, I frammenti di Diogene d’Enoanda, Firenze, 1984.

2) Cfr. R. Amerio, L’epicureismo, Torino, 1953; G. Capone Braga, Studi su Epicuro, Milano, 1951; P. Innocenti, Epicuro, Firenze, 1975; B. Farrington, Che cosa ha detto veramente Epicuro, Roma, 1967.

 

 

 
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