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La peste bianca
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Cosè la demografia

La demografia è una branca delle scienze statistiche, che studia i movimenti numerici della popolazione; considerata a torto come una materia arida e astratta è, invece, o almeno dovrebbe essere, la base per ogni studio o progetto relativo alla popolazione, al territorio e in genere a tutta la vita associata. È in effetti appena il caso di sottolineare come qualunque fenomeno della vita associata si basi e si evolva sul numero delle persone interessate al fenomeno stesso. I piani relativi ai trasporti, alle pensioni, all’istruzione, alla difesa sono tutti condizionati dalla situazione e dalle tendenze della demografia. Che questo spesso da noi non sia avvenuto, non è che una delle prove della impreparazione e della superficialità di una classe dirigente per cui politica non è visione globale delle esigenze di una nazione, bensì spartizione ed uso dei poteri più o meno legittimamente conseguiti.

Il falso del catastrofismo demografico

Per essere esatti, la cultura dominante si è occupata di uno solo degli aspetti dei problemi demografici, e lo ha fatto in maniera parziale, o addirittura deviante, avendo riguardo solamente agli aspetti negativi di una eccessiva crescita della popolazione mondiale.

Malthus aveva torto

Si ricorderà che, nella seconda metà del Settecento, il reverendo anglicano Malthus aveva enunciato una sedicente legge, secondo la quale lo sviluppo demografico avrebbe seguito una progressione geometrica, mentre le risorse alimentari avrebbero seguito una progressione aritmetica. Si tratta di una fantasticheria di cui la realtà ha fatto ben presto giustizia: le risorse, o meglio, la loro reperibilità e il loro sfruttamento, aumentano più di quanto aumenti la popolazione. Si direbbe infatti che la legge sia quasi alla rovescia, se si pensa che, nei Paesi progrediti, la produzione agricola per addetto è aumentata vertiginosamente rispetto anche solo a pochi decenni fa, mentre la popolazione è aumentata solo in misura modesta.

Se tutto ciò poi, nel cosiddetto Terzo Mondo, avviene in misura meno rilevante, e lo stesso dicasi per quanto è avvenuto nei Paesi dell’ex blocco comunista (si pensi alle costanti e ingentissime importazioni di cereali da parte dell’allora Unione Sovietica), la ragione non è certo da ricercarsi nelle risorse più o meno abbondanti (per esempio la sola Nigeria potrebbe produrre 12 raccolti di riso all’anno, sufficienti a sfamare tutto il continente africano) ma nel fallimento di classi di governo incapaci o corrotte o di formule politiche ideologizzate, astratte ed assurde. Eppure vi è stata tutta una scuola di matrice radical-liberale e marxista, il cui punto in comune è 1’economicismo edonista, e l’esempio più illustre è il Club di Roma (cui hanno aderito tra gli altri gli Agnelli e tuttora aderiscono i Rockefeller), che si è premurato di diffondere voci catastrofiche sul destino dell’umanità.

Colin Clark ha smentito il Club di Roma

Le voci allarmanti e catastrofiche diffuse dal Club di Roma, fondate, è vero, su dati di fatto reali, ma parziali, soprattutto per quanto concerne il rapporto fra sviluppo demografico e sviluppo delle risorse, sono state smentite da un economista australiano di fama mondiale. Ci riferiamo a Colin Clark, che si è divertito a costruire una tabella, indicando a fianco di ciascuna delle principali materie prime (rame, manganese, fosfati, petrolio, ecc.) l’anno in cui i profeti di sventura avevano pronosticato, con sicura saccenza, qualche lustro addietro, l’esaurimento. Molte di queste date sono già trascorse e le materie prime sono tutt’altro che esaurite, alcune addirittura in crisi di sovraproduzione, mentre, per quanto riguarda i mezzi di nutrimento, nuove tecniche di concimazione, di raccolto e di conservazione permetterebbero, se non ci fossero storture di ordine politico, la facile nutrizione di una popolazione tripla rispetto a quella attuale (senza contare gli inevitabili progressi che nel frattempo si presume avverranno).


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Il dramma del calo demografico in Italia

Esaminando le cifre assolute della natalità in Italia, si constata facilmente che, dal secolo XIX fino agli anni ‘60 del XX, con varie oscillazioni, dovute per lo più alle guerre, il numero dei nati vivi nel nostro Paese non si è mai discostato molto dal milione di unità all’anno.

A partire dal 1965 la cifra assoluta della natalità si è rapidamente e drammaticamente ridotta, passando da:

1.000.000 di nati vivi all’anno a

550.000 di nati vivi in questi anni.

L’altra voce che costituisce il movimento naturale della popolazione, e cioè il numero dei morti, anch’essa costante per decenni intorno alle 500.000 unità, ha avuto un graduale aumento, tanto che alla fine del 1993 si era arrivati al fatto che il numero dei morti ha superato il numero dei nati.


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La crescita zero: unutopia che segna linizio della fine

Questo sopradetto iniziale bilanciamento tra numero dei morti e numero dei vivi, raggiunto nel 1993, indicherà una vera e propria svolta storica, senza precedenti per l’Italia dall’epoca delle epidemie di manzoniana memoria, che ha portato a quella crescita zero, auspicata da molti, Club di Roma in testa, perché essa avrebbe consentito uno sviluppo meno tumultuoso e meno problematico, sia dal punto di vista sociale che da quello ecologico. Proprio i saggi del Club di Roma, smentiti clamorosamente dai dati numerici, sfornano elogi intellettualistici di una vita più tranquilla e matura, da condursi da parte di una comunità meno numerosa, più civile e ordinata perché... più vecchia! E si sa, aggiungeremo noi, i vecchi vivono aspettando di morire, quindi senza troppi grilli per la testa.

La crescita zero rappresenta però un equilibrio solo apparente, o meglio, provvisorio, in definitiva unutopia

Infatti il sostanziale equilibrio demografico è stato possibile solo per il continuo prolungarsi della durata media della vita, passata rapidamente in Italia da poco più di 60 anni agli attuali 80.

Questo fenomeno, per un verso assai positivo, ha però un preoccupante risvolto, quello del conseguente invecchiamento della popolazione:

fino agli anni ‘70 ULTRASESSANTACINQUENNI = 12% della popolazione

fino agli anni ‘80 ULTRASESSANTACINQUENNI = 14%       “           “

fino agli anni ‘90 ULTRASESSANTACINQUENNI  = 15%        “           “

fino agli anni 2010 ULTRASESSANTACINQUENNI  = 19%        “         “

fino agli anni 2020 ULTRASESSANTACINQUENNI  = 22%        “           “

e ciò naturalmente per effetto del contemporaneo calo delle nascite.

Poiché non è pensabile che l’allungamento della vita media sia destinato a proseguire   illimitatamente, ben presto il numero annuo dei decessi avrà un forte aumento fino a superare il numero delle nascite.

Nessun equilibrio dunque, ma riduzione (estinzione?) della popolazione italiana


Alla stessa conclusione si giunge ancora più facilmente se si tiene conto del tasso di natalità e di mortalità, cioè del numero delle nascite e dei decessi per mille abitanti.




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La peste bianca

Va rilevato peraltro che i saggi di natalità e di mortalità attualmente sono intorno al 10 per mille (quello delle nascite è ancora di poco superiore); tenendo conto che la durata della vita in Italia sia ormai di 80 anni, nei prossimi anni morirà circa il 12,5% della popolazione ogni anno!

È ovvio che, per mantenere il livello attuale, dovrebbero nascere altrettanti bambini: il 12,5% di 60 milioni cioè oltre 700.000, invece delle 550.000 nascite attuali. In questo modo la popolazione italiana si ridurrà fino a 50.000 unità ogni anno!

Scomparse le generazioni più numerose (i nati nei decenni dal 1920 al 1940), e ciò accadrà indicativamente nel primo quarto del XXI secolo, la popolazione potrebbe essere addirittura dimezzata, ma soprattutto, quel che più conta, composta prevalentemente da ultrasessantenni e da immigrati; sugli effetti della massiccia immigrazione ritorneremo più avanti.

Questo scenario, molto più catastrofico della minaccia della fame e persino della distruzione nucleare, che riguarda, come vedremo, l’intera Europa, ha indotto lo storico francese Pierre Chaunu a parlare di peste bianca, con evidente analogia alle epidemie che, nei secoli XIV e XVII, avevano decimato la popolazione europea.

Dati regionali

Il fenomeno del calo demografico interessa tutta la popolazione italiana, ma è addirittura drammatica in taluni grandi centri – Milano ha perso in 10 anni circa 150.000 abitanti, di cui solo una parte dovuta a trasferimenti – e in talune regioni settentrionali. Anzi tutte le regioni settentrionali e centrali (con la eccezione della provincia di Bolzano) presentano negli ultimi anni un saldo negativo e in Liguria ed in Emilia-Romagna il numero dei morti è addirittura doppio di quello dei nati. Va notato di sfuggita che in queste regioni il numero degli aborti è altissimo (una gravidanza circa su due finisce in aborto).

Anche senza voler affrontare qui il delicato e complesso problema dell’aborto, va subito fatto notare come l’affermazione demagogica della legge sull’aborto, secondo la quale l’aborto stesso non doveva essere considerato come uno strumento per la limitazione delle nascite, è stata puntualmente smentita dai fatti.

Infatti l’elevato numero di aborti (circa 130/150 mila all’anno) è di fatto determinante per il disavanzo nascite-morti che abbiamo indicato più sopra.

Le cause

Gli osservatori del fenomeno di cui per anni hanno addirittura negato l’esistenza (non molti per la verità) si sono sforzati di identificare le cause di un mutamento così radicale del costume italiano, tradizionalmente portato ad un’alta valutazione della famiglia e particolarmente proprio dei bambini.

Si è così fatto riferimento a:

1) diffusione dei contraccettivi;
2) crisi della casa indotta dalla fallimentare politica degli ultimi vent’anni;
3) difficili prospettive economiche;
4) laicizzazione delle masse, non più tanto sensibili agli insegnamenti della Chiesa cattolica;
5) introduzione nella legislazione italiana di istituti quali l’aborto e il divorzio, che certamente non favoriscono la procreazione,
6) ritardo nel concepimento del primo figlio.

Si tratta certo di osservazioni fondate, anche se, a nostro giudizio, si tratta per lo più di fenomeni che si possono accomunare al calo demografico, ma non nel rapporto di causa ed effetto. Si vuol dire con ciò che tutti questi fenomeni hanno una causa fondamentale comune, che è da ricercarsi nel diffondersi e nell’affermarsi di un certo tipo di cultura materialista ed edonista, che ha della procreazione un concetto negativo ed egoistico e induce un atteggiamento negativo nei confronti della vita stessa, concepita null’altro che come terreno di scontro per istanze economiche e di classe o come attimo da cogliere e godere.

Ridotta al livello più basso, questa ideologia si traduce in avversione verso la procreazione, perché il bambino é visto come una seccatura, che rende più difficile la realizzazione di piaceri futili (la settimana bianca, la seconda automobile, la crociera esotica e così via) e più in generale richiede sacrifici ed impegni costanti, che le nuove generazioni sono state educate a considerare superati e da lasciare ad altri, più retrogradi. Vedremo più avanti che queste generazioni saranno presto chiamate a pagare ben cara questa scarsa disponibilità al sacrificio.

Gli effetti

La profonda trasformazione indotta dalla denatalità produce radicali cambiamenti, le cui prime avvisaglie sono già sotto gli occhi di tutti.

Aule vuote, crisi di carriera per intere generazioni di giovani che si erano indirizzati verso l’insegnamento (il numero degli alunni delle elementari é calato di oltre un milione in pochi anni), settori merceologici in crisi (carrozzine, prodotti per l’infanzia, abbigliamento per bambini, ecc.). L’introduzione del servizio militare su base volontaria è dovuto anch’esso alla insufficienza del ricambio generazionale.

Contrastando la tendenza attuale che vede grandi difficoltà di inserimento per i giovani in cerca di prima occupazione, vi sarebbero stati tempi in cui le aziende avrebbero avuto difficoltà a reperire forze lavoro, in quanto generazioni ridotte di un terzo non riusciranno a riempire i vuoti lasciati da quelle precedenti. Tuttavia il problema maggiore – i cui primi sintomi sono già oggi evidenti – é quello dell’invecchiamento della popolazione, con le gravi conseguenze di ordine sanitario e sociale che ne derivano: già oggi non disponiamo di strutture atte alla cura e al ricovero degli anziani, figuriamoci cosa succederà se questi diventeranno una gran parte della popolazione! Ancora più grave: dove si troveranno i fondi per pagare milioni di pensioni?

Constatata la gravità della situazione, nel 1996 si corse ai ripari con una legge (Dini) che prevedeva il passaggio graduale dal sistema sostitutivo (che prevede il calcolo della pensione in base alla retribuzione degli ultimi anni di lavoro) a quello retributivo, basato sui versamenti effettivi di tutta la vita lavorativa.

Si è trattato di una riforma buona, ma soprattutto inevitabile, con l’unico difetto che l’entrata in vigore effettiva della legge è prevista di fatto dopo 15/20 anni, visto anche che i contributi versati dagli extracomunitari regolari sono intoccabili perché versati totalmente col criterio contributivo.

Non bisogna credere alle dichiarazioni dell’INPS circa il pareggio raggiunto dal suo bilancio, in quanto questo si è raggiunto e per ora confermato grazie all’integrazione al minimo (circa il 30% del monte pensioni, che è garantito dallo Stato, ma solo per il periodo di transizione sopra indicato).

La conseguenza è che i giovani di oggi, ammesso che abbiano da 36 a 40 anni di contribuzione, avranno una pensione di circa il 60% dell’ultima retribuzione o – in alternativa – dovranno conferire all’INPS o ad altri soggetti il TFR.

Per contro, il numero dei pensionati supererà quello delle persone in età lavorativa fin dal 2020.         

Riassumendo: il calo demografico produrrà una diminuzione della popolazione attiva, che é un fattore determinante del regresso economico e dell’inflazione.

È una specie di contrappasso per le generazioni che non vogliono sacrificarsi in età giovanile per allevare dei figli e che si troveranno a dover affrontare sacrifici d’altro genere quando l’età avanzata renderà tali sacrifici ben più pesanti.

Detto in altri termini, un esame serio delle circostanze dimostra quello che l’antica saggezza popolare ha sempre saputo: ogni bambino che nasce è sì per molti anni una bocca da sfamare, ma diventa presto o tardi un portatore di braccia e di benessere.

Anche volendo trascurare l’incommensurabile valore morale e affettivo di ogni vita che nasce, persino i portatori di idee economicistiche devono ammettere che essa ha anche un valore positivo dal punto di vista produttivistico.

La situazione nelle diverse aree geografiche

Fin dagli anni ‘50 si nota la tendenza – nei Paesi dell’Europa libera – a limitare deliberatamente il numero dei figli e ciò per l’affermarsi – dopo gli entusiasmi ideologici della prima metà del secolo – di una concezione edonistica della vita associata.

Fu inizialmente la Germania,stremata dalle conseguenze della rovinosa disfatta, a distinguersi in questa tendenza: vi fu un periodo in cui il bilancio demografico tedesco vedeva un deficit di oltre 300.000 unità annue.

Ben presto si adeguarono a questa tendenza tutti i Paesi del nord opulento, ma, sorprendentemente, a partire dagli anni ‘60, l’andamento negativo si dovette segnalare anche nell’Europa del Sud (Italia, Grecia, Paesi iberici) che erano stati per molti decenni il bacino di riserva per la popolazione europea.

Ma vi è di più: mentre i governi dei Paesi del nord iniziarono ad introdurre incentivi socio-economici per contrastare il fenomeno, i governi del sud Europa (per lo più di sinistra o centro-sinistra) ignorarono il fenomeno o, addirittura, ne misero in luce i presunti aspetti positivi.

Per un verso o per l’altro, all’inizio di questo secolo, tutti i Paesi dell’Europa occidentale mostravano un tasso di natalità abbreviato inferiore al 2,1 per coppia, che rappresenta il tasso di sostituzione perché la popolazione rimanga invariata.

L’Italia e la Spagna furono i Paesi più coinvolti ed erano giunti fino a pochi anni fa al più basso livello di TFT (tasso di natalità totale) del mondo intero.

Ma un altro fenomeno ha stravolto, nei primi anni del secolo, l’andamento demografico europeo. L’implosione dell’impero sovietico, mentre da un lato garantiva la libera scelta della famiglia, dall’altro creava una situazione di insicurezza generale, che spingeva alla migrazione verso Occidente e ad una fortissima riduzione delle gravidanze, anche tramite il ricorso massiccio all’aborto, depenalizzato in quasi tutta l’Europa.

Quasi tutti i Paesi dell’Est, aderenti o meno alla CE, tolsero ben presto all’Italia il poco invidiabile primato di ultimo Paese del mondo per la natalità e lo stesso accadde nella Germania riunificata, nella quale l’avversione per la procreazione divenne ancora più accentuata, per le difficoltà incontrate dalle privatizzazioni.

I problemi dellimmigrazione dal Terzo Mondo

La denatalità ha prodotto fatalmente un rilevante fenomeno migratorio, legale o meno, dai Paesi africani ed asiatici verso quelli dell’Europa occidentale, dove il bisogno di mano d’opera – specie non qualificata – permane ad onta della crisi economica e dove comunque le condizioni di vita sono di gran lunga migliori rispetto a quelle dei Paesi abbandonati dai colonizzatori europei. Chi visiti le principali città europee si renderà facilmente conto della percentuale di non europei che vive nei maggiori centri (a Marsiglia i nord-africani sono ormai più dei francesi, anche se all’anagrafe ancora non risulta); i problemi di ogni genere che ne conseguono sono facilmente immaginabili e sono all’ordine del giorno sulla stampa delle principali nazioni europee. Si pensi solo al grande successo ottenuto in Francia dal movimento politico fondato da Jean-Marie Le Pen, che ha fra i punti dì forza del suo programma politico la riduzione dell’immigrazione nord-africana. Quanto a noi l’immigrazione clandestina é già molto forte, specialmente a Roma e a Milano, ma le misure adottate non appaiono sufficienti.

La crisi di natalità in Europa rischia dunque di creare dei vuoti che possono essere colmati solo da massiccie immigrazioni di non europei, rendendo in prospettiva addirittura precaria la permanenza della stessa civiltà europea.

Secondo una ricerca dell’Università Cattolica, sarà il 2045 l’anno che segnerà – a Milano – il raggiungimento della superiorità numerica degli stranieri nei confronti degli italiani.


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Sembrerebbe – se la tendenza non si invertirà – che il Tramonto dellOccidente, preconizzato da Spengler 90 anni fa, debba essere provocato, non tanto dall’avvento di nuove e più vitali civiltà (il che rientrerebbe in una logica superiore di alternanza), quanto dalla semplice e brutale autoestinzione di intere nazioni della nostra Europa, proprio quando questa é giunta al massimo del suo sviluppo economico e tecnologico.

Da una risoluzione del Parlamento Europeo dell’aprile ‘84 (ci si riferisce all’Europa dei 12, ndr):

LA POPOLAZIONE DELL’EUROPA OCCIDENTALE ERA L’8,8% DI QUELLA MONDIALE NEL 1950

LA POPOLAZIONE DELL
EUROPA OCCIDENTALE ERA il 4,5% DI QUELLA MONDIALE NEL 2000

LA POPOLAZIONE DELL
EUROPA OCCIDENTALE SARA' il 2,3% DI QUELLA MONDIALE NEL 2025

In base a questi dati il Parlamento Europeo ha approvato una raccomandazione perché il Consiglio dei ministri europei studi ed assuma provvedimenti sia di natura politica che sociale per porre un freno al grave fenomeno.

Possibili contromisure

Alcuni governi europei hanno allo studio o hanno già attuato alcune contromisure per arginare la denatalità. A parte la difficoltà di intervenire nella vita privata delle coppie, è già un fatto positivo che i dati vengano diffusi e ne vengano esposte le conseguenze, di cui spesso si ignorano gli aspetti negativi.

Dove peraltro sembra si possa realisticamente intervenire é nel campo degli incentivi economici per le lavoratrici madri (che spesso rinunciano ad un figlio per non dover abbandonare l’attività lavorativa) e in quello degli sgravi fiscali per le famiglie numerose.

Si tratta in parole povere di dare vantaggi economici a chi si impegni nella procreazione visto che, anche se la cosa può sembrare brutale, la procreazione diventa vantaggiosa per l’intera comunità.

Sono rimedi che suonano familiari agli italiani che hanno vissuto gli anni del Fascismo, ma, come si vede, non vi è molto di nuovo sotto il sole.

A titolo di esempio accenniamo ad alcune misure praticate dai governi europei, che hanno rallentato o invertito la tendenza alla denatalità.

Francia: Nelle famiglie in cui nasce un terzo figlio vengono concesso forti sgravi fiscali anche sui primi due.

Germania: È stato concesso un finanziamento di 600 marchi per 10 mesi alla nascita di un figlio.

Svezia: È stato introdotto un regime di orario ridotto per uno dei genitori (da 8 a 6 ore giornaliere) con la copertura della differenza a carico della Previdenza sociale.

In Italia le misure a favore della famiglia sono ancora inadeguate, anche se spesso integrate dalle Regioni amministrate dal Centro Destra.

Occorre peraltro sottrarsi alla tendenza demagogica di concedere sussidi alle famiglie a bassissimo reddito, mentre la crisi della procreazione appare più grave nelle coppie di ceto medio alto.

Tuttavia tutto ciò appare insufficiente se gli europei non ritroveranno l’orgoglio della loro identità e di quella civiltà che – negli ultimi 30 secoli – ha dato al mondo un insieme di beni e di valori che non temono confronti con nessun’altra.

Flavio Nucci



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