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In morte della scuola
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Quel che avviene in Italia è sempre caratterizzato da una buona dose di ridicolo.
Siamo alle prese con una riforma della scuola, quella della Gelmini, contestata, come al solito, da studenti e professori.
Ma il pensiero dicotomico, il dualismo monista destra/sinistra, la cui peculiarità è separare e contrapporre ciò che invece dovrebbe avere carattere unitario in ordine alle scelte politiche, la fa ancora una volta da padrone.
La Gelmini, e con lei tutto il centrodestra, si dichiara portatrice della filosofia del ripristino, nelle scuole e nelle università, del principio di Autorità cui è legato quello del merito.
Ma, ed ecco il punto dolente, dietro tale giusta filosofia ed imprescindibile necessità si nasconde invece la vera ideologia che guida l’attuale governo: quella della privatizzazione di funzioni essenziali dello Stato come è, appunto, il sistema educativo e l’affidamento di tali funzioni, in nome di una malintesa sussidiarietà, a privati nell’illusione che capitali privati possano migliorare l’istruzione laddove invece riusciranno soltanto a sviarla verso fini particolaristici.
D’altro canto i contestatori difendono il carattere pubblico del sistema scolastico ma non vogliono sentir parlare di Autorità e merito, principi abdicando ai quali, dal sessantotto in giù, si è ridotta la scuola nell’attuale stato comatoso ed anarchico ben rappresentato dal video che è circolato su Youtube della professoressa che si faceva palpare il deretano dagli alunni in classe o da quell’altra professoressa che docente di giorno faceva poi la «bella di notte» o, ancora, da quel professore che fumava spinelli insieme agli alunni.

Il ridicolo o, se volete, il tragico sta anche nel fatto che mentre il ministro della pubblica istruzione si sbraccia per riaffermare autorità e merito nella scuola, le TV di Stato e quelle del «Salame», che attualmente governa ed al quale deve rispondere la Gelmini, trasmettono in continuazione film e fiction, sul tipo «Provaci ancora Prof», per supportare massmediaticamente la tipologia politicamente corretta del professore «amico» degli alunni, che fa da pendant a quella del padre o della madre «amici» e mai genitori ed educatori.
Metteteci, poi, programmi Mediaset come «Amici» di Maria De Filippi o il Maurizio Costanzo Show e potete toccare con mano la contraddizione tra le pubbliche enunciazioni di «restaurazione» del governo ed il clima epocale, riflesso e ad un tempo alimentato dai massmedia, del tutto contrario ad ogni ipotesi di società nella quale principi come quelli di Autorità, genitorialità, merito, possano avere corso.
Assistiamo ad una tragica, e falsa, contrapposizione tra due anime del medesimo progetto politico liberale: l’anima (liberal)conservatrice e l’anima (liberal)progressista.
Da un lato conservatori che invocano il ripristino dell’Autorità dello Stato, chiamato a vigilare severamente sull’ordine pubblico e sull’educazione dei giovani, senza però mettere in discussione il liberismo economico, quello responsabile dell’attuale catastrofe finanziaria mondiale, e dall’altro lato progressisti che negano, secondo l’utopia anarco-marxiana della società auto-gestita, utopia speculare a quella liberale del libero mercato, il principio di Autorità, essenziale al primato del pubblico sul privato, ma poi pretendono la conservazione di essenziali servizi pubblici.
Una evidente contraddizione in termini, frutto del pensiero dicotomico di cui sopra che separa ed oppone ciò che dovrebbe stare assieme.

Sì, perché invocare l’Autorità dello Stato dovrebbe significare anche affermare il primato del politico sull’economia, e dunque l’anti-liberismo, ed invocare l’autogestione anarchica della società dovrebbe significare anche affermare l’anti-statualismo e quindi il primato della società civile, che è poi il luogo mercantile delle relazioni sinallagmatiche di scambio economico, sullo Stato ridotto a cassa di risonanza delle voglie e delle pulsioni, anche contro-natura, di questa o quella lobby od occulto potere indiretto.

Invece il modello perseguito dal governo del «Salame» è nient’altro che il «liberismo autoritario» alla Reagan, alla Tatcher, alla Pinochet.
Ossia quello dei Chicago boys: i monetaristi di Milton Friedmann consulenti delle dittature militari sudamericane, imposte dagli Stati Uniti, negli anni ‘80.
Il modello dei contestatori della Gelmini è invece ancora quello, vecchio, superato e stantio (e non a caso gli studenti sono capeggiati dai loro professori ex-sessantottini), del marxfreudismo anni ‘60 con il suo slogan permissivista «vietare vietare».
Quello berlusconiano è nient’altro che l’importazione, anti-europea, dagli Stati Uniti del modello neoconservatore che come ha osservato Emmanuel Ratier: «…reagisce contro il ‘New Deal’ e l’assistenzialismo (ma solo per amalgamare) l’economia capitalista e la politica sociale conservatrice: respinge l’intervento dello Stato in economia, ma ne mantiene il controllo nel dominio sociale (scuola, arti, media e pubblicazioni)» (1).
Ed ecco le università trasformate in Fondazione private allo scopo di incanalare la didattica e la ricerca esclusivamente verso le esigenze del mercato.
Il modello dei contestatori e di Veltroni è quello delle baronie sessantottine che, all’epoca, contestando da sinistra i vecchi baroni hanno poi ricreato nuove e più ferree gerarchie baronali ma culturalmente «vuote», e dunque prive di legittimità universitaria, organizzate dal clientelismo del PCI, come ben sa chi, non essendo di sinistra, si è visto negare la docenza universitaria per mancanza di opportuni appoggi politici.

I vecchi baroni, contro cui si scagliò la contestazione sessantottina, erano però di un livello culturale ed accademico che l’università oggi si sogna.
Si trattava di veri e propri studiosi destinati a rimanere negli annali e nella storia dello scibile umano.
Solo qualche nome, culturalmente trasversale, per fare alcuni esempi: Augusto Del Noce, Noberto Bobbio, Michele Federico Sciacca, Galante Garrone.
A quei vecchi baroni è succeduta una classe docente del tutto approssimativa che alla cattedra è arrivata, salvo naturalmente le eccezioni alla regola, che pur ci sono ma sono rarissime, per spinta politica ingessando e bloccando l’intero sistema, con danno, guarda caso, proprio di quei giovani che per motivi anagrafici non hanno potuto partecipare alla grande abbuffata accademica del ‘68, ed anni successivi, e che oggi contestano la Gelmini.
Da sponde culturali e politiche opposte, furono Augusto del Noce e Pier Paolo Pasolini ad osservare che quella del ‘68 è stata una rivoluzione intraborghese, ossia la rivoluzione generazionale, in nome del sesso libero, fatta non dagli operai o dalla povera gente (l’operaismo venne dopo e finì nella tragedia del terrorismo) ma dai figli di papà contro i padri benestanti che facevano fare loro la bella vita universitaria.
Ed infatti dove sono oggi i capi e capetti del ‘68, i Paolo Mieli, i Gad Lerner, i Paolo Flores d’Arcais, i Massimo Cacciari, etc., se non tutti seduti sulle poltrone del potere giornalistico,
universitario, politico e multinazionale, quel potere massonico e liberale, anticristiano, che, come libertari, contestavano ma solo perché ne volevano portare a compimento l’essenza più nascosta,
quella «adelphiana», per la liberazione dei costumi, ancora troppo segnati dall’antico spirito cattolico, e per sgombrare in tal modo da ogni ostacolo, da ogni residuo Katéchon cristiano che ancora permaneva nella società quarantanni fa, la strada al globalismo liberistico?
Ed anche quando, come Sofri, quei capi della contestazione stanno dignitosamente pagando continuano ad essere circondati dalla venerazione massmediale.
I contestatori parigini del Maggio Francese, nel 1968, non hanno mai saputo di aver fatto un favore agli Stati Uniti, al loro odiato «imperialismo», mettendo in crisi e facendo cadere il governo del generale De Gaulle e la sua politica anti-americana.
Affossando De Gaulle l’imbecille sinistra francese spianò, tra l’altro, la strada anche all’eurocrazia sinarchica monnettiana che oggi ha in pugno l’Europa nel nome del dogma liberista.
Spengler ebbe una volta ad osservare che la sinistra fa sempre il gioco del grande capitale.

Il governo Berlusconi non riesce a nascondere, dietro il bel richiamo a sacrosanti principi come quello di Autorità, le sue vere intenzioni: fare un favore al mercato delegandogli un «monopolio naturale», che è poi anche uno degli attributi della stessa sovranità statuale, come il sistema educativo e scolastico.
Ed è esattamente per questo che Berlusconi e la Gelmini non sono credibili: non si può chiedere ad un imprenditore, ed al suo ministro, di ragionare in termini di Stato perché essi, e lo dicono apertamente, guardano allo Stato non come alla Comunità politica di Aristotele e di san Tommaso d’Aquino ma come ad una azienda che deve ridurre i costi per fare maggiori profitti.
Che i costi debbano essere ridotti, razionalmente, non è dubitabile di fronte a situazioni, create dall’anti-statualismo della sinistra (chi crede che la sinistra sia statalista si sbaglia di grosso: essa è solo spendacciona delle risorse pubbliche), come scuole elementari con cinque alunni e tre maestre oppure corsi universitari con due soli studenti.
Ma il punto è che Berlusconi non vuole davvero restaurare l’Università (e la scuola), questa invenzione, insieme all’ospedale, del medioevo cristiano, ma solo trasformarla in una azienda «bocconiana» per sfornare schiere di Giavazzi e di Draghi pronti a sostenere, come sostengono, che il mercato, anche quando crolla su se stesso, ha sempre e comunque ragione.
I ragazzi delle organizzazioni giovanili della destra (che dovrebbe essere) nazionale, e non liberista, lo hanno, seppur confusamente, percepito e manifestano pure loro benché, per non scontentare troppo Fini/Kippà o Alemanno/Pacifici o la Meloni/mini(e)stra, in modo «istituzionale», salvo quelli extraparlamentari facenti capo ai «centri sociali nazionali», sul tipo della «CasaPound», che sono invece in prima fila nelle piazze, a fianco dei loro coetanei di sinistra e contro Berlusconi e la Gelmini, con il braccio in alto nel saluto romano.

La verità riguardo al problema della scuola italiana è che, in realtà, dopo la riforma Gentile il sistema scolastico ed universitario italiano non ha mai più avuto una vera ed autentica riforma, degna di tal nome.
Insieme alla riforma gentiliana bisogna senza dubbio ricordare anche l’essenziale integrazione che ad essa apportò il ministro Giuseppe Bottai, «fascista di sinistra» e uomo di grande cultura, apertissimo al dialogo anche con gli intellettuali antifascisti, morto dopo essere approdato, come Mussolini, alla fede cattolica, per consentire anche ai giovani meritevoli delle classi meno abbienti di poter effettivamente accedere a licei ed università, cosa che il testo di Gentile riconosceva solo formalmente.
Ma la riforma Gentile/Bottai, sulla quale la scuola italiana si è sostanzialmente basata fino agli anni ottanta, era ispirata a criteri non aziendalistici, anche laddove accoglieva le nuove istanze ed esigenze di modernizzazione socio-economica dell’Italia secondo i criteri di un regime nient’affatto (liberal)conservatore ma autoritario-modernizzatore.
Si trattava della riforma ideata da un regime che dello Stato, inteso come Comunità politica, faceva, forse fin troppo, la forma essenziale della nazione.
Un regime che senza dubbio improntava la sua azione al primato del Politico sull’economia e che proprio per questo riuscì anche a varare l’intervento dello Stato in economia, mediante l’IRI, per salvare aziende e posti di lavoro durante la crisi finanziaria mondiale degli anni ‘30 (un intervento statuale, dunque, ben diverso dai piani di salvataggio delle banche e degli speculatori come quelli in questi giorni messi in atto in America ed in Europa), ponendo, per tale via, le basi del successivo decollo dell’economia italiana nonché quelle dello Stato sociale di mercato, del dirigismo, anche nel nostro Paese.
Quel modello di Stato sociale, all’epoca inaugurato, fu poi travolto dall’uso che in regime partitocratrico, con le annesse e connesse clientele partitico-sindacali, se ne fece, soprattutto dagli anni sessanta in poi quando le giuste spinte ad una maggior partecipazione dal basso, tendenti a maggior giustizia sociale, hanno poi oltrepassato il limite della giustizia stessa sfociando nel rivendicazionismo libertario-individualista.

Nella scuola, ad esempio, questo esito nichilista e libertario della contestazione significò andare oltre la giusta garanzia per i meritevoli senza mezzi di poter accedere, alla pari con gli abbienti o in modo preminente rispetto ad essi se non altrettanto meritevoli, anche ai livelli superiori degli studi, cosa alla quale già, come si è visto, Bottai aveva aperto la strada, per sprofondare, e proprio il caso di dirlo, nell’università di massa ossia nel «tutti laureati» che è come dire «nessun laureato», come stanno a dimostrare la disoccupazione intellettuale e la svalutazione del diploma di laurea con la conseguenza che ormai si parla apertamente di togliere ad esso ogni valore legale.
Ma voler ora riformare, come vogliono Berlusconi e la Gelmini, la scuola su un modello aziendale, se è coerente con il liberismo berlusconiano, è del tutto anti-politico ossia del tutto al di fuori di una tradizionale concezione statuale ispirata al principio, per l’appunto tradizionale, di Autorità politica temperata dal Bene comune.
I contestatori, nipoti della cultura a-statuale ed autogestionaria, non hanno però alcun efficace argomento contrario alla concezione berlusconiana della scuola proprio perché l’aziendalizzazione del sistema educativo, cui mira l’attuale governo, è la logica conseguenza dell’anti-stuatualismo sessantottino.
Si tratta di dinamiche particolari all’interno della più generale ed epocale «morte dello Stato», della dissoluzione nichilista dello Stato nel mercato globale, del franamento, già preparato, appunto, dalla contestazione anti-autoritaria del ‘68, della verticalità, a suo modo trascendente, dello Stato nell’orizzontalità del mercato o della società civile.

Ai raduni libertari e pacifisti della generazione dei «figli dei fiori», alla quale appartenevano i professori degli attuali contestatori che li portano i piazza, sono succeduti i «drive in» e «le iene» berlusconiane ossia la stanca generazione degli «amici» della De Filippi: dissacrazione in apparente universale fraternità in un caso, dissacrazione nell’euforia permissiva della simulazione mediatica dell’idealismo giovanile nell’altro.
Non si può, infatti, dire «principio di Autorità» senza dire «primato dello Stato», del Politico, della Comunità Politica, ossia senza contestare radicalmente il liberalismo sia nella sua versione conservatrice, quella del centrodestra, che nella sua versione progressista, quella del centrosinistra.
Anche i mali della Pubblica Amministrazione sono il frutto di quel franamento dello Stato, sopra accennato, verso il mercato, verso il modello aziendale e, quindi, verso la contrattualizzazione e la sindacalizzazione del pubblico impiego che dello Stato è oggi la controparte contrattuale e non si identifica più, per immedesimazione organica, con lo Stato stesso, e dunque non ne coltiva più il senso etico come facevano i maestri unici di un tempo, dalla giacca lisa sempre uguale ma dignitosi, quelli della generazione di Blondet ma  anche quelli della generazione di chi scrive più giovane di quella del direttore.
I vecchi maestri unici, come tutti i pubblici dipendenti di un tempo ormai lontano, avevano un senso alto, e socialmente riconosciuto, del proprio «onore sociale», del proprio ruolo, e si sentivano «servitori dello Stato» più che dipendenti del medesimo.
Essi concepivano la propria funzione come «servizio», e servizio cavalleresco, fedele, ma non al cittadino(degradato ad)/utente, come «personalisticamente» si dice oggi (mettere al centro l’individuo), bensì a qualcosa che trascendeva loro stessi e persino la società e che poteva essere lo Stato, il re, la nazione o la patria.

Il servizio pubblico un tempo aveva qualcosa di sacerdotale e di sacramentale: non a caso, ad esempio, esso constava anche di veri e propri riti giuridici, dalle dichiarazioni giurate o asseverate da testimoni per l’accertamento notorio di fatti o notizie, alla consacrazione notarile di documenti a garanzia della «fede pubblica», fino ai giuramenti, ormai non più in uso, nei processi civili e penali.
La forma e la formula, la consacrazione giurata, il rituale persino gestuale («alzi oppure metta la mano destra sulla Bibbia e giuri di dire la verità e tutta la verità») evidenziavano il carattere in qualche modo sacrale degli atti pubblici e di coloro che li ponevano in essere o di fronte ai quali li si poneva in essere.
Il pubblico funzionario si sentiva un po’ sacerdote ed un po’ militare, ad imitazione della Chiesa e dell’esercito, e sentiva su di sé, pena il disonore sociale e l’additamento al ludibrio dell’intera comunità, il peso del giuramento pubblicamente prestato all’atto dell’incardinazione nel proprio ufficio (sì!, si diceva proprio così, «incardinazione», ad imitazione del termine canonico con cui si indica l’assunzione di qualcuno alla dignità cardinalizia: ed anche il termine «ufficio», oggi sostituito con quello più aziendale di unità organizzativa, era mutuato dal santo «officio» sacerdotale.
Del resto il termine «ministro» non deriva forse da quello ecclesiale di «ministro del culto»?).
Il funzionario pubblico dunque un tempo rispondeva ad una «vocazione» mentre oggi egli risponde tutt’alpiù solo all’esigenza occupazionale, pur legittima, di avere un posto ed uno stipendio.
Ecco perché tutte le chiacchiere del ministro Brunetta sono destinate a risolversi in un bel nulla: perché anche Brunetta agisce in un’ottica di aziendalizzazione, e federalizzazione, dello Stato e concepisce ciò che è pubblico non come Comunità politica ma come mero erogatore aziendale di servizi.
Un erogatore certo inefficiente se privo, come è privo, di senso dello Stato in chi quello Stato dovrebbe rappresentare.
Anzi in chi con quello Stato dovrebbe identificarsi: ad iniziare, più che dai dipendenti pubblici, che seguono a ruota, come alunni, l’esempio cattivo dei cattivi maestri, dai presidenti della repubblica che accusati di aver intascato cento milioni di lire al mese dai servizi segreti non solo non si dimettono ma hanno anche il coraggio di urlare in TV, edizione straordinaria del TG, «Io non ci sto!» o che costano all’erario più della regina d’Inghilterra, dai presidenti delle aule parlamentari che fanno pesca subacquea dove non si può, dagli onorevoli con l’amante e l’amante del figlio a carico del bilancio pubblico, dai parlamentari, cosiddetti «pianisti», che, mentre Brunetta si inventa norme per i dipendenti pubblici assenteisti, votano anche per i colleghi assenti falsando, tra l’altro, la tanto retoricamente sacralizzata «volontà popolare».

Brunetta sta riducendo l’area della contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico allo scopo di ridurre l’interferenza sindacale nella gestione amministrativa, ma in realtà lo sta facendo in quell’ottica aziendale, di liberismo autoritario, specularmente contraria, in un gioco dialettico degli specchi, al permissivismo libertario della sinistra e che non va affatto nella direzione della restaurazione del senso dello Stato, innanzitutto in interiore hominis, ossia nelle coscienze di chi allo Stato da «vita».
Brunetta fallirà ontologicamente anche laddove riuscisse, come è riuscito nell’arginare l’assenteismo, ad ottenere risultati di maggiore efficienza, perché senza un sentire più alto, senza adesione della coscienza ad un Bene comune che travalica l’egoismo del singolo, non ci sarà mai davvero Comunità ma soltanto relazioni contrattuali per la regolazione simmetrica dello scambio economico finalizzato al perseguimento concorrenziale, che il liberismo presume sempre benefico per la collettività, dei propri interessi individuali.

La scuola, l’università, in genere i servizi pubblici, non sono, non possono essere né essere concepiti come un’azienda.
Lo Stato, la Comunità Politica, non è una azienda.
Lo Stato è (dovrebbe essere) «regalità».
Concepire lo Stato come un’azienda equivale a concepirlo come un esercito di (s)ventura e non come un esercito, magari di professionisti, ma pubblico e di militari fedeli solo alla Patria.
Non a caso i capitani di ventura del XVI secolo, i Gattamelata, i Braccio da Montone, furono figure in auge prima della istituzione di stabili eserciti statuali ed altro non erano che imprenditori, professionisti dell’arte della guerra, che mettevano a disposizione del miglior offerente i loro mercenari.
Ma, a differenza dei militari statali, i mercenari o tradivano perché era loro offerto un contratto più vantaggioso oppure fuggivano non appena le cose sul campo di battaglia si mettevano male o ancora «scioperavano» quando non ricevevano la paga nella misura promessa (e spesso il committente per sopperire alle sue mancanze lasciava loro mano libera nel saccheggio del territorio nemico: non vigeva ancora lo Jus Publicum Europaeum).
Le guerre si perdono sicuramente, senza neanche la dignità che di solito è propria della nobiltà della sconfitta, quando si fanno per contratto.

Gli Stati Uniti, che mandano in Iraq ed in Afghanistan i mercenari reclutati dalla Dina Corps ad affrontare gente che sarà pure fanatica ma è sicuramente idealmente motivata, e che, pertanto, stanno perdendo la guerra, ne sanno qualcosa.
Così anche lo Stato è perdente se viene concepito nichilisticamente come un’azienda.
I giapponesi, figli di un’antica cultura samurai ossia forgiata da precisi e tradizionali codici cavallereschi, lo avevano a tal punto capito che, prima dell’ultimo ventennio di devastante globalismo che ha distrutto anche il tessuto tradizionale nipponico, avevano addirittura «militarizzato», dunque «statualizzato», le aziende che essi organizzavano come moderni «feudi» con il posto fisso a vita per i lavoratori al modo degli antichi contadini che non potevano essere cacciati dalle loro terre per il capriccio dello shogun.
Come i mercenari non intendevano affatto morire per il loro committente al quale erano legati solo contrattualisticamente, così i cittadini, non solo i pubblici dipendenti, non fanno affatto «sacrifici» per un’azienda.
Si fanno sacrifici, ed all’occorrenza si può anche morire o rischiare la pelle, per una patria, giusta, non per lo Stato/azienda.

Luigi Copertino



1) Confronta E. Ratier, «Ritratto di Leo Strass» in Alfa e Omega, numero 3, marzo/aprile 2005, pagina 89.


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