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Comincia la campagna-simpatia. Di Katz
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Alcuni lettori allarmati ci hanno mandato un pezzo del Messaggero. Dove il sindaco di Roma A** - che si prepara a guidare  scolaresche alla visita di Aushwitz, 320 persone fra alunni e docenti , insieme all’amico Pa**  della comunità romana - dice: «Bisogna chiudere i siti che inneggiano all’antisemitismo. Anche io sono entrato tra i nemici di questi siti - ha raccontato il sindaco - spesso se la prendono con me e con Fini definendoci ‘servi degli ebrei’. Bisogna - ha proseguito A** - dare risposte dure, energiche; non sono fatti su cui essere tolleranti».

I lettori si chiedono se A** ce l’ha con noi. Non lo so, e aspettiamo di vedere questo esempio di tolleranza che consiste, da parte di un politico, nel chiudere i siti che lo criticano. Minacciando misure «dure ed energiche» contro la libertà d’opinione.

Quel che so per certo, è che tutto questo fa parte di una grande campagna, già cominciata su Il Corriere, su Tempi, su tutti i giornali che ci stanno, contro tutti i personaggi critici verso Sion: Claudio Moffa, Giulietto Chiesa, Franco Cardini, Maurizio Torrealta (RaiNews 24, inchieste sgradite), la scrittrice Angela Lano, padre Zanotelli, la islamista della Sapienza Bianca Maria Scarcia Amoretti, eccetera, eccetera: tutti  bollati da tal Rodolfo Casadei (pare sia il vicedirettore di un periodico ciellino largamente invenduto, «Tempi») come «Le quinte colonne del regime iraniano. Calunniano Israele, attaccano l’America e negano l’11 settembre».

Quinte colonne perchè ogni tanto, come il sottoscritto, vengono intervistati da Radio Teheran.
Ciò che viene ritenuto un delitto, che Casadei invita le autorità a reprimere «con misure dure ed energiche». Quelle che usano a Gaza?

E’ una campagna, dicevamo. Vasta, internazionale e costosa. Che è stata organizzata da Israele. Nel 60° anniversario dalla nascita, lo Stato ebr** ha scoperto di avere un problema di immagine; il suo marchio - vai a capire perchè - è il meno simpatico del mondo (1). Così - come ha raccontato il  Guardian - «ha ingaggiato un’agenzia di pubbliche relazioni per rifarsi la plastica facciale politica» (2).

L’ordine l’aveva dato Tizpi Livni nel settembre 2006, in un incontro con esperti di pubbliche relazione, specialisti di marchi commerciali e diplomatici. La energica madama ha ordinato di imporre l’immagine di Sion come «un posto che conserva gli ideali democratici mentre combatte per la sua stessa esistenza» (l’avete sentito già, questo motivetto, detto da qualcuno in Italia?).

La Livni chiarì anche che la campagna d’immagine era stata messa nel programma di governo, con tanto di budget stanziato. Insomma, ci sono i soldi, datevi da fare.

Lì per lì, gli addetti sono apparsi scoraggiati. Simon Anholt, il massimo esperto di «nation-branding» (ossia nel rifare la griffe di Stati poco stimati), dopo aver fatto un sondaggio ad hoc, disse: «L’immagine di Israele all’estero è così cattiva, che ogni campagna di re-branding (rivalutarne la marca) è inutile».

Ma la ditta londinese di PR Saatchi & Saatchi sta lavorando da allora, gratis, a questa impresa. Nel 2007 un fondatore della Burston-Marsteller, di nome Elias Buchwald, ha istruito una ventina di portavoce israeliani dei vari ministeri e di ambasciate su come rendersi più simpatici per Sion. Un vero corso, pagato dall’American Jewish Congress oltre che dal governo israeliano.

«Vogliamo che gli americani abbiano con Israele una relazione calda, non impersonale... Usate un linguaggio caldo, evocativo, pieno di colore». Perchè, a quanto pare, Israele non ha un problema di PR solo in Europa (antisemita, ovviamente) ma anche in USA. Come dice David Saranga, console a New York, «Agli americani manca il volto umano di Israele. Ci percepiscono come molto militaristi e molto religiosi, ma non come colti ed educati». Il volto umano di Israele.

Dev’essere dura, perchè qualche settimana fa il governo di Sion ha messo a contratto un’altra agenzia di pubbliche relazioni, questa volta la britannica Acanchi. Un’altra con grossa esperienza nel «nation re-branding».

Ido Ahroni, il funzionario del ministero israeliano che si occupa del rinnovamento della griffe, ammette: «Anche quelli che riconoscono che Israele è nel giusto, non ne sono attratti. La conclusione è che per Israele è più importante essere attraente che essere nel giusto».

Difficile essere attraenti, quando si intrattiene un lager a Gaza con mezzo milione di affamati, si sradicano oliveti, si spara ai bambini che si avvicinano al Muro, si bombardano Paesi vicini.

Il sito web dell’Acanchi (la società di  PR) li dice, dopotutto: «Se un marchio è cambiato o costruito solo in superficie e non è supportato da profondi cambiamenti di valore nel Paese, non coinvolge il pubblico». Ma in ogni caso, ci provano.

Il governo israeliano ha aperto una pagina su MySpace per rendersi simpatico ai giovani - molte ragazze in bikini, un video sul gay pride a Gerusalemme, e nessun soldato - e ha costellato la Quinta Strada di New York di 60 gigantografie di facce di israeliani (quanto siamo simpatici).

Bisogna considerare parte della campagna di simpatia il trascinamento organizzato e di massa di scolaresche ad Auschwitz (la rinomata industria dell’olocausto, come dice l’ebreo Norman Finkelstein), e il fatto che  anche in Italia, l’onorevole Fiamma Nirenstein s’è messa di punto in bianco ad organizzare viaggi di parlamentari nostrani in Israele. E anche questo è un metodo applicato in tutto l’Occidente.

Almeno 57 membri del parlamento britannico, laboristi (generalmente filo-palestinesi) sono stati portati in visita in Israele, viaggio pagato, per essere manipolati dalla campagna-simpatia. In USA, parecchi famosi blogger di sinistra, fra cui il direttore di Daily Kos David Waldman, sono stati scarrozzati per sei giorni in Israele.

«Il ministero degli Esteri», dice il portavoce Ytzhak Ben Horin, «compie notevoli sforzi per portare noti redattori in un esteso giro del Paese, riconoscendo la loro influenza e il fatto che alcuni di loro rappresentano siti che sono non proprio amichevoli verso Israele».

Evidentemente ci sono siti ritenuti irrecuperabili, e allora si applica la formula A**-Pa**: «misure dure, energiche», accuse di «quinta colonna dell’Iran, negazionisti dell’11 settembre» eccetera. Onde ottenerne, dopo aver agitato il problema, la soppressione. Pa** ha presentato una lista di siti antisemiti al presidente della Camera, il noto Kippà, perchè provveda.

O forse i nostri non hanno ricevuto l’addestramento di Burston-Marsteller per rendersi suadenti? Non hanno imparato che occorre «una voce calda, piena di colore» onde stabilire un rapporto «emozionale e  non impersonale» con l’opinione pubblica agghiacciata dalle atrocità, sicchè rimangono fermi ai vecchi metodi? I soli a loro noti, l’intimidazione, la minaccia, la soppressione delle opinioni - e magari il vecchio manganello? Vedremo.

Per intanto, è meglio che ci sbrighiamo, prima che chiudano le bocche. Onde avvertire i lettori che questo è solo uno dei molti procedimenti della campagna in corso per rendere Israele simpatico. Ce ne sono altri, molto più convreti.

Uno, lo racconta la giornalista australiana Janine Roberts (3):

«Prima che il New Labour fosse inventato (da Tony Blair, ndr) il partito laborista tendeva a simpatizzare coi palestinesi. Jon Mendelsohn, del ‘Labour Friend of Israel» (Amici laboristi di Israele), ha spiegato come è stato cambiato: ‘Blair ha attaccato l’anti-israelismo che esisteva nel Labour. Il vecchio Labour prendeva le parti degli underdog, ma oggi il sionismo è pervasivo nel New Labour. Uno dei primi atti di Blair quando è diventato parlamentare nel 1983 è stato iscriversi al Labour Friend of Israel; ma il vero cambiamento è avvenuto quando ha preso controllo del partito laborista. Per portare a termine il suo programma (liberista) egli doveva rompere l’influenza dei sindacati, che finanziavano il partito. Per questo aveva bisogno di un alleato con molti fondi. Nel 1994, un suo collega e avvocato, Eldred Tabachnik, ex presidente del Board of Deputies of British Jews, lo presentò a Michael Levy, un impresario di cantanti pop e raccoglitore di fondi per le cause ebraiche e israeliane, un membro della Jewish Agency World Board of Governors, e un socio dell’Holocaust Educational Trust. Ciò avvenne ad una cena in cui l’ospite era il diplomatico israeliano Gideon Meir. Subito dopo Blair fu  invitato nella ricca magione di Levy. Secondo Andrew Porter di ‘the Business’, Levy espresse la sua disponibilità a ‘raccogliere grandi somme di denaro per il partito’, purchè ci fosse un ‘tacito accordo che il Labour non sarebbe mai stato, finchè Blair ne era il leader, anti-israeliano. Risultato: Levy guidò il Labour Leader’s Office Fund, ossia l’organizzazione che ha finanziato la campagna di Tony Blair nel 1997. Per questo è stato immediatamente ricompensato con il titolo di lord, come altri dei suoi donatori. Levy si dichiara ‘un primario sionista internazionale’ e ha sempre lodato Blair per ‘il suo saldo e impegnato sostegno allo Stato di Israele’».

«Ma Blair aveva bisogno di una fonte costante di fondi per ridurre l’influenza dei sindacati - e inoltre, a quel che risulta, aveva bisogno di nascondere le sue fonti di soldi, onde non essere chiamato a risponderne. Una delle più note personalità nel Labour Friends of Israel è David Abrahams, un immobiliarista. (...) Abrahams si assunse il compito di finanziare segretamente il New Labour. Ha dato 650 mila sterline al partito sotto il nome di quattro persone diverse - fatto  illegale, come ha ammesso il primo ministro Gordon Brown, ma che non ha avuto conseguenze legali. Abrahams, al British Jewish Chronicle, ha spiegato che dava il denaro al Labour in segreto perchè non voleva che  risultasse il collegamento fra il ‘denaro ebraico’ (parole sue) e il partito, ritenendo che ciò avrebbe fatto sospettare alla gente un complotto ebraico. Il Labour Party ha dapprima negato di saper nulla di questi metodi segreti, ma poi sono saltate fuori le prove che Abrahams era in stretto contatto con il consigliere della campagna elettorale di Gordon Brown, Jon Mendelsohn, che per incidens è l’ex presidente del gruppo Labour Friends of Israel. Altri membri ebrei del Labour Friends of Israel hanno cacciato i soldi: lord Sainsbury ha dato un milione di sterline. Levy, nel 2001, raccolse 15 milioni di sterline. Sicchè la lobby israeliana ha aiutato il Labour a rompere il potere dei sindacati, come compenso per aver riformato l’intera scena politica britannica nel senso voluto da Israele. Stranamente, una volta scoperto questo traffico, la stampa ha trattato queste donazioni occulte con i guanti. Pochissimo hanno chiesto cosa la lobby sperava di guadagnare da queste massicce donazioni. Nessuno ha chiesto se è stato Tony Blair a volere che queste donazioni restassero segrete, e perchè. E pochi hanno detto qualcosa sulle conseguenze in politica estera».

Non si dimentichi che Blair, uscito da Downing Street numero 10, è stato messo a capo del «Quartetto» che dovrebbe appianare il contenzioso israelo-palestinese. Un politico pagato dai soldi d’Israele è una garanzia di giusta soluzione (4).

Come vedete, cari lettori, qui c’è ben altro che una campagna di pubbliche relazioni; ben altro che le visite guidate da Fiamma Nirenstein per parlamentari e signore nel piccolo Stato democratico che lotta per la sua sopravvivenza; ben altro che le liste dei siti «antisemiti, negazionisti dell’11 settembre e nemici dell’America» da far chiudere al Kippà (gite pagate e intimidazioni sono le due facce della campagna, sono comunque pubbliche relazioni). Qui ci sono i soldi, cari lettori.

Dall’esempio inglese potere intuire come e perchè dei politici, di punto in bianco, vadano pellegrini e penitenti a Vad Yasem, si facciano fotografare la kippà, alzino sulla loro città la bandiera di Davide, e mandino scolaresche ad Auschwitz. Eseguono i rituali pubblici  richiesti dalla sola religione rimasta, senza la quale la carriera poltiica è sbarrata ai primi, infimi gradini.

Non stupitevi dunque, lettori, se la capitale ha un sindaco, e la Camera un presidente del genere. Magari esiste, a nostra insaputa, un «Fascist Friend of Israel».

Questo è niente, se si pensa che a Londra esistono persino dei «Lords  Friends of Israel», e sono presieduti nella Camera Alta dalla baronessa Meta Ramsay, già agente dell’MI-6, ed attivissima nel monitorare i media perchè non vi passi la minima critica a Sion. E i Friend of Israel britannici hanno fatto attivamente lobby per troncare tutti i fondi europei ai palestinesi di Gaza dal giorno in cui quei disgraziati hanno votato Hamas: sono dunque co-gestori del lager, insieme alla UE, cioè a tutti noi, collaboratori nell’infliggere la fame alla sotto-razza.

Già, non dimentichiamo l’Unione Europea. Dove la kommissaria per le relazioni estere Benita Ferrero Waldner s’è dichiarata, come riporta Janine Roberts, «più vogliosa di adottare stretti legami con Israele che con ogni altro Paese del Mediterraneo». La signora Benita ha anzi assicurato che Israele «è vicina alla Unione Europea come mai prima» (forse, a renderla più vicina è stato il bombardamento totale del Libano?) ed ha giuliva annunciato di aver formato un «gruppo di riflessione» che studia come intensificare le relazioni fra la potenza atomica khazara e l’Europa, onde elevarla «ad uno status veramente speciale».

A Bruxelles, dice la Roberts, «Israele è generalmente trattata come fosse già un membro dell’Europa, benchè ne sia fuori, e benchè la sua costituzione discriminatoria su base religiosa sia un motivo di esclusione» dalla UE.

Questo vale per le altre costituzioni, ovviamente: essere discriminatori e razzisti è permesso ad una sola.

E le elezioni americane? Beh, qui la campagna-simpatia è pienamente riuscita.

McCain e Obama hanno fatto a gara in dichiarzioni di simpatia per il piccolo popolo. Ma non certo grazie alla pagina israeliana su MySpace. Gli ebrei americani sono il 2% della popolazione; ma più del 40% di loro partecipano attivamente al finanziamento delle campagne presidenziali, e forniscono un quinto dei fondi di cui sono beneficiati i candidati.

Steven Nob e Sam Gordon, due rabbini riformati del distretto di Chicago, si sono schierati pubblicamente per Obama con questo argomento: «Abbiamo messo in gioco la  nostra credibilità in quanto rabbini amanti di Israele appoggiando pubblicamente il senatore Barack Obama a causa delle denigrazioni e delle menzogne che vengono dalla parte avversa». E’ la prima volta nella storia americana che un gruppo di rabbini così importanti sostengono pubblicamente un candidato.

L’elenco dei sostenitori di Obama può essere utile, per vedere poi quali posizioni questi sostenitori avranno nell’Amministrazione:

David Axelrod è il consigliere strategico e mediatico; ha costruito il fenomeno-Obama attraverso una campagna sui media che definisce «vitale», insistendo sul tema del cambiamento.

Laurie David: produttrice del film di Al Gore, «The inconvenient Truth», a cui si è fatto dare il premio Nobel, raccoglie i fondi per Obama ad Hollywood.

Ira Forman, direttrice esecutiva del National Jewish Democratic Council: è quella a cui i giornalisti, istruiti, devono porre domande sui problemi ebraici e sulla loro relazione con Obama.

Barney Frank, membro del Congresso per il Massachusetts, democratico, gay auto-dichiarato, presiede la Commissione senatoriale per i servizi finanziari; in questa veste, ha avuto un ruolo predominante nel creare il pacchetto di  «salvataggio» per Wall Street, i 700 miliardi di dollari stanziati da Paulson e Bernanke. Non male come appoggio per Obama.

Ed Koch, ex sindaco di New York, molto seguito dagli ebrei della terza età, ha appoggiato Bush nel 2004, Hillary Clinton nelle primarie, ma oggi sostiene Obama.

Sherry Lansing, che ha diretto la Paramount, è una delle principali raccoglitrici di fondi per il democratico.

Mike Moore, ha lanciato il sito Jewsvote.org, per contrastare le calunnie contro Obama («musulmano, amico di terroristi, sposato a una comunista», eccetera). Sostiene il Grande Schlep, la campagna per cui i nipoti progressisti vanno a trovare i nonni, che vivono nelle case di riposo di lusso in Florida, onde persuadere i terrorizzati vecchietti che non devono votare McCain; che Obama non è un musulmano nè un terrorista, anzi.

Penny Pritzker, miliardaria di famiglia di miliardari, presiede la campagna per il finanziamento di Obama (anche se un po’ scossa dal fallimento di una sua banca nel crack dei subprime).

Ed Rendell, governatore della Pennsylvania, Stato-chiave, è ex dirigente del Comitato Democratico Nazionale.

Denise Rich, ex moglie del miliardario Frank Rich (un pregiudicato per malversazioni), grande collettrice di fondi per il democratico.

Robert Rubin, primo consigliere di Obama per le questioni economiche, già segretario al Tesoro con Clinton, conosce tutte le segrete stanze di Wall Street.

Dan Shapiro, già capo del National Security Council sotto Clinton (o sopra Clinton), ha scritto il discorso che Obama ha pronunciato davanti all’AIPAC, ossia alla lobby. Discorso in cui Obama ha dichiarato: «Gerusalemme resterà la capitale indivisa di Israele, e deve restare indivisa». Ciò per contrastare la pessima impressione di una frase che Obama si era lasciato sfuggire poco prima: «Nessuno ha sofferto quanto i palestinesi». Poi Obama ha corretto, sostenendo che voleva completare la frase così: «Nessuno ha sofferto quanto i palestinesi... delle delittuose scelte fatte dai loro leader».

Alan Solow, giurista di Chicago molto influente nella Conference of Presidents of the Jewish Organizations, è per Obama.

Jon Sewart, animatore del Daily Show, una delle trasmissioni satiriche TV di maggior successo, per Obama.

Barbra Streisand, aveva sostenuto la Clinton, ma ora ha messo dietro Obama il suo peso di star, e di influente ebrea e raccoglitrice di fondi. Per poter partecipare ad una delle sue cene di propaganda, gli auto-invitati hanno accettato di pagare ciascuno 25 mila dollari.

Robert Wexler, membro del Congresso per la Florida, ha condotto la campagna per Obama in Florida, Stato pieno di vecchietti ricchi e conservatori (vedi «Il Grande Schlep»).

Non che McCain manchi di sostenitori di quella parte:

Matt Brooks, direttore della Jewish Republican Coalition, è lui che i giornalisti devono intervistare per chiedergli qual’è la posizione di McCain sui problemi ebraici.

Max Broxmeyer, presidente dell’importantissimo Jewish Institute for  National Security Affairs  (JINSA), che è il luogo di raccordo degli interessi fra Israele e il sistema militare-industriale (le industrie dell’armamento), è presidente della campagna per McCain (Jewish Advisory Coalition).

Eric Cantor, membro del Congresso per la Virginia, ultra-repubblicano, si è molto speso per McCain in Florida e nel suo Stato.

Malcolm Hoenlien, presidente della Conference of President of Major Jewish Organizations (un’altra branca della lobby) ha chiamato Sarah Palin a dire la sua ad una manifestazione organizzata contro la presenza di Ahmadinejad all’ONU («Non deve parlare! misure dure, energiche!»).

Cheryl  Jacobs, rabbino conservatore, ha sostenuto la campagna di Hillary ma poi è passato a McCain.

Henry Kissinger, consigliere discreto della campagna di McCain, ha organizzato una serata di addestramento di Sara Palin quando ha dovuto affrontare il faccia a faccia con l’altro candidato vicepresidenziale, Joe Biden.

Joe Lieberman, naturalmente: senatore del Connecticut, era democratico, e candidato alla vicepresidenza a fianco di Al Gore nel 2000; ora è diventato indipendente e sostiene McCain, che lo voleva come vicepresidente. Democratico o repubblicano, per Israele pari sono.

Dobbiamo aggiungere, per McCain, la National Rifle Association, la lobby che difende il diritto americano a portare armi da fuoco, la più potente lobby degli Stati Uniti. La sua presidente fino all’anno scorso è stata Sandra Forman.

Avvertenza finale: questa lista (incompleta) è stata copiata da Haaretz, il giornale israeliano.
Gli accusatori di «antisemitismo» sono pregati di rivolgersi alla fonte (Bradley Burston et JJ Golberg - 17/10/08 www.haaretz.com).




1) Come noto, un sondaggio commissionato nel 2003 dalla UE (Eurobarometer) su 7.500 cittadini europei ha mostrato che 59 europei su 100 ritengono Israele un pericolo per la pace del mondo; la percentuale sale al 60% in Gran Bretagna, al 65% in Germania, al 69% in Austria e al 74% in Olanda. In quell’occasione i giornali scrissero allarmati articoli sull’antisemitismo ritornante in Europa. L’ambasciata israeliana a Bruxelles, tuttavia, accusò i giornali europei di creare antipatia per il piccolo Stato con i loro reportages «pieni di pregiudizi anti-Israele». Non importa che Israele sia nel giusto, importa che sia attraente; e se non la trovate attraente, vi minaccia.
2) Toni O’Loughlin, «Israel hires PR firm on 60th birthday for a political facelift», Guardian, 11  ottobre 2008.
3) Janine Roberts, «The influence of Israel in Westminster», The Palestine Chronicle, 25 maggio 2008.
4) Quanto al nuovo primo ministro, Gordon Brown, ha subito annunciato  che manderà due bambini  per ogni scuola britannica a visitare Auschwitz, onde poi possano raccontare le loro impressioni agli altri compagni. Esiste per questo un Holocaust Educational Trust, che ha decorato Gordon Brown per questa iniziativa. Ma non solo per questo: sulla questione della Cisgiordania, Brown ha affidato la posizione inglese al Portlland Trust, una finanziaria capeggiata da Sir Ronald Cohen. Appena nominato primo ministro, Gordon Brown è diventato patrono del Jewish National Fund, un’organizzazione fondata nel 1901. Il governo israeliano ha venduto a questo Fund tutte le terre sequestrate agli arabi, con l’incarico di rivenderle a parcelle soltanto ad ebrei. Il Jewish National Fund possiede il 14% dei terreni in Israele. Money, money, money.


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