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Newton senza veli
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Un tema centrale della cultura esoterica è quello relativo alla cosiddetta sapientia veteres, sapienza perduta, alla quale le cerchie iniziatiche cercano di riannodarsi in tutti i modi, anche per giustificare la validità della propria esistenza e degli insegnamenti trasmessi.
Scrive in proposito Hutin che ogni gruppo esoterico cerca con determinazione: «di provare la propria favolosa antichità grazie all’idea di una successione regolare e ininterrotta di adepti, che formano una sorta di ‘catena’» (1).
La tendenza a ricercare nella sapientia veteres la giusta chiave di lettura per comprendere la realtà, spesso precede la procedura induttiva delineata dai rigidi protocolli della scienza moderna.
Molti dei suoi padri fondatori infatti hanno tratto ispirazione per le loro teorie scientifiche, prima ancora che nelle tanto declamate metodologie sperimentali, nell’enorme deposito metafisico delle dottrine antiche, composto in gran parte di miti e dogmi arcaici, celati in oscure simbologie, che solo la vera luce cristiana era riuscita a debellare nell’arco del fondamentale millennio medievale.
Tanto per riferirci ai grandi nomi della cultura scientifica, le cui opere hanno indirizzato,
pitagoricamente, l’evoluzione della scienza fino ai nostri giorni, ricordiamo che: «Copernico comincia richiamandosi ad Aristarco; Galilei dichiara di partire da Archimede e lo chiama maestro; Newton all’inizio della prefazione dei ‘Principia’ esce nella famosa quanto lapidaria affermazione: ‘gli antichi, come dice Pappo, nelle investigazioni della natura fecero il massimo conto della meccanica’. Fra le qualità occulte, e le forme sostanziali degli scolastici, e la scienza moderna di Galilei e Newton, stanno, solenni, i libri di Archimede e di Pappo» (2).

Newton in particolare coltivò appassionatamente il tema della sapientia veterum, pienamente convinto che Dio avesse rivelato ad uomini eletti, come Noè, Mosè e Daniele, un insieme di verità segrete che riguardassero non solo l’etica dell’uomo, ma anche gli arcani più impenetrabili della natura.
Egli si convinse presto che l’universo contenesse: «come un segreto che si poteva svelare applicandosi col solo pensiero a scovare certe prove, certe mistiche chiavi che Dio aveva disseminato nel mondo così da permettere una sorta di caccia al tesoro filosofica» (3).
Intorno ai vent’anni, infatti, Newton indirizzò segretamente la sua indagine a tutto campo lungo una via disagiata ed ambigua, sulle tracce di una arcana conoscenza a suo avviso criptata: «in certi documenti e tradizioni trasmesse dagli iniziati attraverso una ininterrotta catena che risaliva a una misteriosa rivelazione originata a Babilonia» (4).
Per circa venticinque anni, dunque, fino alla pubblicazione dei «Principia», momento delicato questo, che segnò anche l’inizio del suo declino intellettuale, egli sviluppò in modo parallelo, e complementare, sia gli studi di matematica ed astronomia, sia quelli relativi ai discutibili temi dell’alchimia sperimentale.
Tra i quali, la trasmutazione degli elementi, la pietra filosofale, l’elisir di lunga vita, eccetera.
Testimoniano l’ambigua indagine newtoniana, svoltasi sulle opposte vie della ragione e della superstizione, una pubblica e l’altra segreta, alcuni manoscritti inediti esaminati in modo approfondito dall’economista John Maynard Keynes, durante la metà del secolo scorso.
In seguito a questa attenta lettura, la classica immagine che la retorica scientifica ha attribuito a Newton risultò inevitabilmente compromessa.

Emerse infatti da quelle carte, in modo alquanto palese, un personaggio del tutto diverso da quello unanimemente celebrato secondo i canoni della genialità: «Perché, per dirla in termini crudi - scrive Keynes -, Newton era profondamente affetto da una nevrosi di un genere abbastanza comune ma - da quanto sappiamo - direi anche ad uno stadio estremo. I suoi più profondi istinti erano occulti, esoterici, con una netta propensione ad estraniarsi dal mondo, con una paura paralizzante di esporre i suoi pensieri i suoi convincimenti, le sue scoperte all’indagine e alla critica altrui».
Keynes dunque definì più volte e senza giri di parole Newton come una persona nevrotica, che celava sotto le sembianze dello scienziato quelle di un vero e proprio «mago» rinascimentale che, testualmente, utilizzava: «un rigoroso metodo nella sua pazzia» (5).

Giudicare Newton come un «mago», tendenzialmente psicopatico, non è cosa da poco.
Enorme è l’influsso che tale personaggio ha esercitato ed esercita sulle nostre menti.
Nessuno infatti al giorno d’oggi non può dirsi newtoniano, dal momento che, già nei corsi di studi secondari, si insegnano le sue leggi del moto, la sua concezione dinamica dell’universo.
Non per niente, in una recente statistica, Newton risulta il secondo personaggio più importante della storia, dopo Maometto, e addirittura prima di Gesù Cristo (6).
Gli spiragli aperti da Keynes, circa gli aspetti oscuri della personalità del famoso scienziato, se opportunamente considerati, portano a conclusioni davvero sorprendenti, alle quali è bene alludere, anche correndo il rischio di essere fraintesi e giudicati male.
Cominciamo allora col dire che Newton viene sovente citato come esempio di scienziato credente, il quale seppe conciliare bene il delicato rapporto fra scienza e fede, credendo non solo nella ragione scientifica, ma anche in Dio.
Bisogna però chiarire a quale Dio lo scienziato attribuisse il suo culto.
Di certo, non al Padre, al Figlio ed allo Spirito Santo.
A riguardo: «Si sono spesso sottolineati alcuni aspetti ‘ereticali’ del pensiero di Newton: il suo conclamato arianesimo, nel senso originario del termine, che implica una professione di fede antitrinitaria; l’identificazione dell’Anticristo con il Papa, e della Bestia con la Chiesa cattolica, responsabile della grande apostasia» (7).

Effettivamente, Newton attestò in modo chiaro e risoluto la sua fede antitrinitaria.
Anche in pubbliche occasioni.
Quella ad esempio legata alla sua nomina a «Lucasian Professor» di matematica, al Trinity College di Cambridge, ottenuta nel 1669, con l’eccezionale dispensa del re Carlo II che lo esonerava dall’emettere i voti religiosi.
Egli, dunque, pur indagando a fondo le scritture bibliche, non volle riconoscere una verità alquanto chiara per noi cristiani.
Ossia, che Gesù: «ricevette onore e gloria da Dio Padre quando nella maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: ‘Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto’ (2 Pt 1, 17)».
Non per niente, Keynes, dopo aver esaminato le carte segrete, di scarso valore scientifico, ma molto indicative per comprendere il famoso personaggio, definì Newton, ancor più che un seguace di Ario, «un monoteista giudaico della scuola di Maimonide» (8).

D’altronde, se Newton avesse riconosciuto la divinità di Cristo, non avrebbe potuto accettare l’equazione luterana fra la Chiesa romana e la bestia apocalittica, fra il Papato e l’anticristo.
Avallata ad esempio da queste sue parole: «Il 381 è dunque, senza possibilità di dubbio, l’anno nel quale questa strana religione [cattolica], che fino a quel momento aveva regnato solo in Occidente, si diffuse per la prima volta in tutto il mondo. Così la terra e coloro che vi dimoravano cominciarono ad adorare la Bestia e la sua immagine, cioè la Chiesa dell’Impero d’Occidente e il predetto Concilio di Costantinopoli come suo rappresentante» (9).
Newton convalidò quindi esplicitamente l’infondata equivalenza protestante fra l’anticristo ed il Papato.
Assurdo parallelismo, che prese avvio da un colloquio privato, avvenuto sul finire del 1190, a Messina, fra Gioacchino da Fiore e Riccardo Cuor di Leone.
Quando il famoso e discusso abate calabrese affermò che l’anticristo era già nato, ed operava nell’Impero Romano, il re inglese, che odiava profondamente Clemente III, riprese subito tale affermazione, per soprannominare quello stesso Papa anticristo (10).

E’ peraltro singolare questo gioco delle parti, nel quale coloro che non riconoscono la divinità di Cristo, osando definire il Papa «anticristo» e paragonare la Chiesa Apostolica Romana addirittura alla «Bestia» apocalittica, fingano poi di non sapere che l’Autore sacro da essi citato ci lasciò in merito un’infallibile equazione per riconoscere il vero anticristo: «L’anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio… Ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo» (1 Giovanni 2, 22; 4, 3).

E’ Newton stesso dunque a svelarsi come un seguace dell’anticristo, dal momento che non solo si dichiarò antitrinitario, ma si impegnò a travisare il messaggio cristiano attraverso un’intensa ed equivoca attività esegetica, che lo impegnò molto più delle ricerche e delle dispute scientifiche.
Egli interpretò le Sacre Scritture con la forza della sola ragione naturale, senza intelligenza spirituale, che discende dalla Grazia, alla stregua invece di un libro ambiguo e sibillino.
Da decodificare «tecnicamente», attraverso l’ausilio di un vero e proprio metodo ermeneutico, composto da regole e principi, sullo stile dei più fortunati «Principia».
Violando così di principio ed in modo sistematico non solo la raccomandazione apostolica: «Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono i profeti da parte di Dio» (2 Pt 1, 20-21).
Ma anche il chiaro monito apocalittico: «Dichiaro a chiunque ascolta le parole profetiche di questo libro: a chi vi aggiungerà qualche cosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa descritta in questo libro» (Apocalisse, 22, 18-19).

D’altra parte, Newton, che: «associa esplicitamente l’idolatria, la Chiesa cattolica e l’adorazione dei falsi re con una filosofia naturale geocentrica» (11), non poteva che respingere l’interpretazione canonica delle Sacre Scritture fornitaci dai Padri della Chiesa, per cimentarsi in una personalissima ed erronea opera di interpretazione delle profezie di Daniele e dell’Apocalisse.
Fissando, tra l’altro, la fine del mondo nell’Annus Domini 2060 (12).
Qualche anno dopo la previsione di un’altra fonte pagana, il calendario Maya, che individua nella mezzanotte del 21 dicembre 2012, giorno del solstizio d’inverno, la catastrofe universale (13).

Previsioni apocalittiche a parte, la mentalità fortemente iniziatica di Newton, formatasi in seguito all’intenso studio delle opere dei maghi-sacerdoti egizi e mistagoghi ellenici, emerge non solo dai manoscritti inediti, esaminati da pochi privilegiati.
Ma anche da alcuni commenti, i cosiddetti «Scolii classici», contenuti nei «Principia», poi epurati proprio perché pieni di note e rimandi, che dimostrano una vera e propria affezione e affiliazione ideologica dello scienziato inglese all’ermetismo ed all’orfismo di tradizione cinquecentesca.
Newton fu talmente influenzato, ed ossessionato, dalla cultura magica ed iniziatica, riscoperta e fatta circolare segretamente nel Rinascimento, soprattutto dal movimento rosacrociano, impegnato a diffondere il pensiero ermetico ed alchemico nell’ambito culturale, al punto da sentirsi egli stesso investito direttamente dal destino di una grande missione.
«Newton percepiva se stesso come il nuovo Salomone e credeva che Dio gli avesse affidato il compito di scoprire i segreti della natura, indipendentemente dal fatto che si trattasse di segreti scientifici, alchemici o teologici. Tali sforzi erano la sua ragione di vita, la sua missione, ed egli non avrebbe trovato pace finché non avesse realizzato il suo sogno» (14).
Ragion per cui: «Se Newton può essere considerato come un maestro nel metodo sperimentale, non v’è dubbio che la sua maestria si formò anche fra gli alambicchi e gli atanor» (15).
Infatti, come abbiamo detto, egli fin da giovane coltivò ostinatamente la convinzione che: «la letteratura alchemica nascondesse verità importanti, espresse in forma simbolica» (16).

A ben vedere, sono diversi gli scritti scientifici che contengono richiami più o meno espliciti alla cultura ermetico-alchemica, appassionatamente perseguita dallo scienziato inglese.
Nel trattato di «Ottica», egli tra l’altro scrive che: «La trasformazione dei corpi in luce - e viceversa - è conforme alle leggi della Natura, che si mostra ben lieta di tale trasmutazione».
In questa affermazione è possibile cogliere il concetto di eternità della materia e del mondo, espresso apertamente dalla legge di Lavoisier: «in natura, nulla si crea e nulla si distrugge».
Che in sostanza conferma la legge spiritualista dell’immortalità dell’anima: «Tutto è eterno. Spirito e Materia sono due modi di essere di una unica energia cosmica immortale».
Peraltro, se consideriamo la luce come sinonimo di energia, allora l’affermazione di Newton,
riguardo alla trasformazione di un corpo, massa, in luce, energia, non è altro che un prodromo della famosa relazione di equivalenza di Einstein.
La quale, a sua volta, non può che riflettere ed esprimere in termini quantitativi il principio intrinseco della trasmutazione alchemica: la sublimazione della materia nella sua potenza eterea e luminosa.
Tuttavia, è nel commento alla prima e fondamentale definizione di «Quantità di materia», che è possibile rilevare un curioso cenno, circa un misterioso ente proprio di tutti i corpi materiali: «Del mezzo che liberamente penetra attraverso gli intervalli delle parti, ammesso che ci sia, non ho alcuna norma».

A questo stesso enigmatico «mezzo», che renderebbe plausibile l’altrettanto oscura forza di gravitazione universale, Newton allude nel famoso Scolio conclusivo dei «Principia».
Ed è alquanto singolare che proprio in questo passo, che contiene la celebre affermazione: «Non formulo ipotesi», venga esposta anche la seguente, e del tutto sorprendente, ipotesi metafisica: «Potrei ancora aggiungere qualcosa riguardo a un sottilissimo spirito che pervade i corpi densi e in essi si nasconde, per la cui forza ed azione le particelle dei corpi si attraggono reciprocamente fra loro a distanze minime e aderiscono, una volta divenute contigue… Ma tali questioni non possono essere esposte in breve e non disponiamo di esperimenti sufficienti per stabilire e dimostrare esattamente le leggi delle azioni di questo spirito» (17).
Newton allude a questo mezzo spirituale, per giustificare il fenomeno dell’attrazione universale.
Trascendendo così l’ambito induttivo e quantitativo, per sconfinare in quello metafisico delle qualità.
Ed in questo caso, delle qualità occulte, che non si possono «stabilire e dimostrare esattamente».
Peraltro, la natura di questo ambiguo spirito, tanto caro ai maghi e panteisti di ogni genere e di ogni tempo, viene ribadita dallo stesso Autore in uno Scolio classico: «Gli antichi che meglio interpretavano la filosofia mistica insegnavano che un certo spirito infinito pervade tutti gli spazi e contiene e vivifica il mondo intero; e questo spirito fu generato dal supremo nume, secondo il poeta citato dall’apostolo: in esso viviamo, ci muoviamo e siamo… i filosofi insegnavano che la materia si muove in questo spirito infinito ed è agitata da questo spirito in modo non incostante ma armonicamente, cioè secondo le precise leggi geometriche della natura» (18).

Lo «spirito sottile», evocato frequentemente da Newton, non del tutto anima e non del tutto corpo, compreso fra la natura incorporea dell’anima e quella materiale del corpo, costituisce un punto centrale della letteratura alchemica.
Gli alchimisti consideravano infatti questo ente etereo come intermediario, e sintesi, fra materia e puro spirito.
Di natura tenue e sottile, lucido e trasparente, esso conterrebbe: «tutte le facoltà degli elementi e dei corpi misti ed elementari: e che per ciò altro non fosse che un vero e vivo spirito di questo mondo, che a tutte le cose desse vita e generasse» (19).

Gli epigoni dei sacerdoti egizi e degli antichi maghi babilonesi, gli adoratori degli idoli per intenderci, manipolando i metalli attraverso il fuoco, rarefacendo ed assottigliando la loro densità, sciogliendo e coagulando i metalli, intendevano isolare e sciogliere questo spirito aureo, ricco di energia, che la materia specifica imprigionerebbe al suo interno: «Se non rendi i corpi incorporei e non rendi corporee le cose prive di corpo, il risultato atteso non ci sarà», affermava Maria l’Ebrea (III secolo dopo  Cristo).
È noto che, fra tutti i metalli, l’opera alchemica si concentra su quello più nobile e perfetto, l’oro: «il quale per lo suo molto lume e virtù solare, essendo simile al sole, Sole terreno è stato detto, onde per la sua gran purità e natura solare, molto del detto spirito in sé nascosto ritenga», afferma ancora il Cavazza.
La «liberazione» dello spirito solare contenuto nell’oro costituisce dunque il primo stadio dell’operazione mistica perseguita dagli alchimisti.
Mentre il secondo, consiste nell’inserire e condensare questo «spirito» in un altro elemento, di natura inferiore, così da rendere possibile la trasformazione del metallo vile in oro, attraverso ripetute liquefazioni e coagulazioni operate nella fucina incandescente, nell’«atanor».

Sappiamo anche che l’alchimista manipolando la materia intende manipolare misticamente la propria anima: «Come il metallo vile viene fatto morire nel crogiolo perché possa rinascere purificato come metallo perfetto e immortale (l’oro), così, su un piano diverso l’alchimista persegue un processo di morte e purificazione spirituali per riconquistare la perfezione dell’uomo edenico» (20).
In questa assurda prospettiva, sciogliendo e cristallizzando il metallo vengono fatte sciogliere altresì le rigidità mentali dell’uomo, per ricostituirle in base ai dogmi legati all’iniziazione magica.
Ai quali però non corrisponde, come millantato, la realizzazione dell’uomo edenico.
Bensì, l’involuzione dell’uomo, immagine di Dio, nell’uomo prometeico, anticristico, nel quale agisce lo spirito aureo e solare.
Spirito luciferino, legato al fatidico numero: il seicentosessantasei.
Sant’Agostino sosteneva che la verità non dipende dal nostro intelletto.
Ma al contrario l’intelletto dipende dalla verità, che discende unicamente da Dio, che è «la luce medesima con cui l’anima viene illuminata per tutto vedere con vera comprensione in se stessa o in essa».
Ma la luce alla quale si appellano gli ermetisti, non essendo in relazione a Dio, non può che discendere dalla fonte avversa.
Infatti, essi stessi ammettono che: «Ermete è il nome greco del latino Mercurio, il ‘calidus’, il Messaggero degli Dei, alato al capo e ai piedi, per significare che vola all’Olimpo - per portarvi la parola degli uomini - e dall’Olimpo torna in Terra - per portare agli uomini la parola divina. Ermete è ancora l’Egizio Thiot, il Trismegisto, è il cattolico Spirito Santo che illumina le menti dei 12 Apostoli la domenica di Pentecoste; Ermete è - Fratelli non vi scandalizzate - è Lucifero, il Portatore di Luce, il Principe degli Angeli!» (21).

Lo spirito ermetico, luciferino, sembra agire anche attraverso una prassi di tipo alchemico nei confronti della coscienza religiosa dell’operatore.
Da una parte, infatti, questa pseudo-luce spezza il legame intimo fra Cristo e l’uomo, annullando l’effetto della grazia santificante e sacramentale donataci gratuitamente attraverso i sacramenti (il «solve»).
Dall’altra, tende a ricomporre la cristallizzazione mentale secondo i dogmi di una ragione naturale e materialista, che non prende più luce dalla verità del reale, ma dalle proprie illusioni razionalistiche (il «coagula»).
Si realizza così uno sdoppiamento mentale e conoscitivo nell’operatore della pratica occulta, e di quanti ne usufruiscono, direttamente o indirettamente, poiché la realtà percepita dai sensi non viene più fatta corrispondere alla verità.
Ma all’illusione.
Ragion per cui, la parola stessa non rappresenta e non opera più quello che significa.
Ad esempio, come abbiamo detto altre volte, vediamo il sole muoversi, ma crediamo che invece sia immobile.
Nello stesso modo, la terra, che è a tutti gli effetti ferma, viene invece reputata in moto rotatorio e traslatorio intorno al sole centrale.
E per quanto riguarda la fisica moderna, la luce, da una parte, nella dimensione reale, si propaga istantaneamente, lo ammise lo stesso Einstein.
Dall’altra, nel modello scientifico, essa assume una velocità finita e costante.
Sdoppiamenti, dicevamo, creati dalla scienza moderna all’interno della nostra coscienza, nella quale modello e realtà non collimano, per la semplice ragione che il modello scientifico non viene fatto discendere innanzitutto dalla realtà, ma dalla mente umana, che illuminerebbe, kantianamente,
il mondo.

Se consideriamo poi che gran parte dei modelli teorici utilizzati dai più illustri scienziati risalgono alla tradizione ermetica, nella «sapientia veteres», allora la scienza induttiva perde i millantati crediti di imparzialità ed oggettività, per assumere toni e risvolti inquietanti, e fin troppo sottovalutati, ai quali corrispondono assurde coincidenze.
Non per altro, infatti, è stato rilevato che: «Le forze di Newton assomigliano molto alle simpatie ed antipatie segrete che si trovano nella letteratura occultista rinascimentale» (22).
In questo senso, l’universo-macchina concepito da Newton può essere considerato come frutto ed espressione della sua visione filosofico-religiosa, decisamente eretica, le cui radici si riallacciano alla tradizione magica.
E per questa ragione, questa stessa razionalissima rappresentazione del mondo trascende i canoni ed i significati strettamente scientifici, confluendo nell’ambito dell’ideologico e del religioso.
Giustamente, dunque, A. Koyré parla di mutamento spirituale determinatosi in seguito alla distruzione del cosmo sacro e cristiano - elaborato dagli scolastici medievali, sulla base della logica e della verità del reale -, conseguente all’imporsi della filosofia newtoniana.
Demolita infatti in modo definitivo la concezione del cosmo medievale, inteso come un insieme finito ed armonico: l’«unum in diversis», fondato su una struttura spaziale ordinata ad una gerarchia di perfezione e valore, prese avvio l’idea di un universo infinito, unificato dall’identità delle sue leggi interne: «nonché la sostituzione della concezione aristotelica dello spazio - insieme differenziato di luoghi naturali - con quella della geometria euclidea - mera estensione infinita ed omogenea - da quel momento considerata identica allo spazio reale del mondo» (23).

Già Richard Westfall affermò l’esistenza dell’intima relazione esistente fra magia e scienza, ossia il ruolo di matrice e guida svolto dalla magia nei confronti della conoscenza induttiva del mondo naturale, sostenendo che: «sia stata l’unione tra la filosofia meccanicistica e la tradizione ermetica a dare origine alla scienza moderna. Ma che questa, nella sua sfolgorante ascesa, abbia finito per ignorare o respingere il lascito ermetico» (24).
Questo processo non è utopico.
Esso si è avviato soprattutto in Newton, che trasse ispirazione dalla religiosità naturalistica, pre ed anticristiana, per giungere alla sua concezione mistico-scientifica del mondo naturale.
Poi, tradotta in asettiche definizioni e leggi matematiche le quali hanno oscurato le proprie, infondate, radici mitiche.
Non dimentichiamo che la celebre legge di gravitazione universale, più che dalla fatidica mela, prese ispirazione proprio da quel fondo oscuro al quale accennavamo, ed al quale Newton attinse fin dalla gioventù.

Come dimostrano le seguenti affermazione dello scienziato: «I pitagorici vollero indicare che il sole agisce con la sua forza verso i pianeti secondo quel rapporto armonico di distanza con il quale la forza della tensione agisce su corde di diversa lunghezza, cioè proporzionalmente all’inverso del quadrato della distanza. Infatti la forza con la stessa tensione agisce sulla stessa corda, su diverse lunghezze, è proporzionale all’inverso del quadrato della distanza della corda» (25).
Infatti: «Pitagora l’aveva scoperta e poi occultata; i suoi seguaci se l’erano tramandata in formule criptiche per sottrarla alle irrisioni del volgo. Le immagini del Sole come Apollo Musagete che suona la lira dalle sette corde, o come Pan che soffia al suo flauto dalle sette canne erano, evidentemente, un’allegoria del sistema eliocentrico con i sette pianeti» (26).
Ci vollero circa duemila anni prima che il segreto pitagorico, abilmente nascosto «alle irrisioni del volgo», evidentemente con i piedi molto più per terra del mitico filosofo e dei suoi epigoni, potesse essere svelato e divulgato, attraverso il rigoroso linguaggio della scienza, in grado di rendere plausibile ed indiscutibile un’ipotesi fuori della realtà.

E’ noto ed indiscutibile, che Newton fu abilissimo nel coltivare e sviluppare il linguaggio matematico.
Così come lo fu, per quanto riguarda le operazioni alchemiche e la cultura magica.
Ma poiché queste due abilità sono parte della stessa persona, esse sono altresì indissolubili.
Pertanto, è alquanto impossibile voler scindere il pensiero e la mentalità di questo scienziato, esaltando una parte, quella razionale, ed ignorando l’altra, quella irrazionale e magica.
Infatti, ogni frutto è espressione del nutrimento assorbito dalle radici della pianta.
Di conseguenza, l’opera scientifica di Newton corrisponde alla cosiddetta punta dell’iceberg.
Dietro, ed oltre, la quale si nasconde, pur rimanendo ad esso collegato, tutto l’humus contraddittorio, magico, pseudo-mistico, alla cui sperimentazione tale personaggio si dedicò con ardore.
Conseguendo, è lecito supporre, risultati altrettanto notevoli di quelli scientifici.
D’altra parte, una ragione deve pur esserci, se già il poeta suo conterraneo, W. Blake, definì Newton come: «uno dei grandi condottieri dell’ateismo, ovvero della dottrina di satana».
Infatti, attraverso la sua astratta geometria, e la pitagorica idea di forza gravitazionale, esercitata in maniera maggiore dalla massa maggiore, l’esoterista inglese ha perpetuato quell’opera di dissacrazione sistematica e razionale delle menti e del cosmo iniziata dal movimento rosacrociano.
Movimento che da pochi anni aveva cominciato ad operare attraverso canali segreti, riuscendo ad aprire, a partire dalle menti più eccelse dell’Europa rinascimentale, un abisso profondissimo.
Nonché i prodromi di quello smarrimento esistenziale giunto al culmine nella società contemporanea.

In conclusione, l’opera di dissacrazione a largo raggio del cosmo e dell’uomo messa in atto dalla cerchia di alchimisti, ai quali era ben collegato Newton, costituisce la misura della «lunghezza, larghezza, altezza e matematica di santità satana» (27).
Peraltro, anche Lord Keynes non si discostò da questa interpretazione insolita, se è vero che giudicò Newton come uno: «strano spirito, che nello stesso tempo in cui raggiungeva così alti traguardi, si faceva tentare dal Diavolo a credere di poter svelare ‘tutti’ i segreti di Dio e della Natura con la sola forza della ragione, era Copernico e Faust, in un’unica persona» (28).
Stando a questi giudizi, ai brani citati, al silenzio che ancora circonda le sue ricerche esoteriche, pur essendo queste consistenti per lo meno come quelle scientifiche, il volto nascosto del famosissimo scienziato inglese corrisponde sempre più a quello di un personaggio subdolo, al tempo stesso ingannato ed ingannatore.

Di giorno, autorevole e celebrato professore al Trinity College, impegnato nel diffondere il razionalismo scientifico mediante l’asettico formalismo matematico.
Di notte, «figlio della perdizione» (2 Ts 2, 3-4), segretamente intento al culto delle arti magiche,
il quale, senza alcun timore, osava additare: «se stesso come Dio», dietro il superbo ed eccessivo pseudonimo alchemico: «Jeova Sanctus Unus» (29).

Giancarlo Infante



1) S. Hutin, «Le società segrete», Garzanti, 1955, pagina 10.
2) E. Garin, «La cultura del Rinascimento», Garzanti, pagina 42.
3) J. M. Keynes, «Isaac Newton, l’uomo», in «l’Astronomia», Milano, aprile 1987, 65, pagina 8.
4) «Ibidem», pagine 7 e 9.
5) «Ibidem».
6) M. Hart, «Gli uomini che hanno cambiato il mondo», Newton Compton, Roma, 1997.
7) M. Mamiani, in Isaac Newton, «Trattato sull’Apocalisse», Bollati Boringhieri, 1994.
8) J. M. Keines, «citato», pagina 9.
9) A. Massarenti, «Newton», Il Sole 24 ore, 2006, pagina 94.
10) G. M. Barbuti, «Il principe e l’Anticristo»; Guida editori, Napoli, 1994, pagina 67 e seguenti.
11) N. Guicciardini, «Newton: un filosofo della natura e il sistema del mondo», I grandi della scienza, Le Scienze, Milano, anno I, numero 2, aprile 1998, pagina 41.
12) La lettera di Newton che contiene tale conclusione, datata 1704, Yahuda MS 7, è stata recentemente esposta in una mostra allestita presso la Jerusalem’s Hebrew University, intitolata significativamente «Newton’s Secrets».
13) Autori vari, «Il mistero del 2012 - Cataclismi e sconvolgimenti naturali, o l’alba di una nuova umanità?», Edizioni il Punto d’Incontro, Vicenza, 2008.
14) M. White, «Newton, l’ultimo mago», Rizzoli, Milano, 2001, pagina 226.
15) M. Mamiani, «Introduzione a Newton», Laterza, Roma-Bari, 1990, pagina 97.
16) C. Webster, «Magia e scienza da Paracelso a Newton», Il Mulino, Bologna, 1984, pagina 23.
17) I. Newton, «Il sistema del mondo e gli scolii classici», Edizioni Theoria, 1983, pagina 161.
18) «Ibidem», pagine 155 e 156.
19) Da: «Il discorso sopra il ‘laphis philosophorum’ di Giovanni Tommaso Cavazza (1540-1611)», in «Alchimia» a cura di A. De Pascalis e M. Marra, Mimesis, Milano, 2007, pagine 235 252.
20) A. De Pascalis, «Il Pramigianino e l’Alchimia», in P. A. Rossi, «I Greci e il fondere …», in «Alchimia», citato, pagina 40.
21) A. Lista, «Philosophia Hermetica - Le basi della Massoneria Universale», Editrice Miriamica, Bari, 1992, pagina 29.
22) T. Doobs, in Mircea Eliade, «Il mito dell’alchimia», Bollati Boringhieri, 2001, pagina 36.
23) A. Koyré, «Dal mondo chiuso all’universo infinito», Feltrinelli, 1970, pagina 8.
24) R. Westfall, in Mircea Eliade, «citato», pagina 36.
25) P. Casini, «Newton: gli scolii classici. Presentazione, testo inedito e note», in «Giornale critico della filosofia italiana», LX, I (1981), pagine 40-41.
26) P. Casini, in I. Newton, «Il Sistema del Mondo», citato, pagina 13. Inoltre, nello Scolio relativo alla «Proposizione VIII» Newton ribadisce che: «Secondo il noto aneddoto tramandato da Boezio a Microbio, Pitagora stesso aveva scoperto, per via di esperimenti, nell’officina di un fabbro ferraio, i rapporti numerici tra la lunghezza delle corde, la loro tensione, gli intervalli propri delle singole note e gli accordi fondamentali che ne risultano: l’unisono, l’ottava, la quarta, la terza. La scala diatonica pitagorica, comprendente cinque toni e due semitoni era il prodotto di proporzioni costituite mediante i numeri interi 1, 2, 3, 4, che formano la tetrade, dotata di riposti significati magico-teologici» (P. Casini, «Il mito pitagorico e la rivoluzione astronomica», in «Rivista di Filosofia» LXXXV, I, 1994, pagina 22).
27) Citato in G. Sermonti, «La mela di Adamo e la mela di Newton», Rusconi, 1974, pagine 108 e 109.
28) J. M. Keynes, «citato», pagina 16.
29) M. White, «citato», Rizzoli, 2001, pagina 197.


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