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Ryad e Teheran passano all’oro
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Nel breve giro di due settimane, l’Arabia Saudita ha comprato oro per 3,5 miliardi di dollari, secondo Gulf  News. Quanto all’Iran, «le riserve monetarie del Paese sono state convertite in oro in modo da non avere troppi problemi in futuro», ha detto al giornale «Poul» Mojtaba Samareh-Hashemi, un consigliere di Ahmadinejad (1).

Nè l’una nè l’altra fonte precisano circostanze o altri particolari. Il che è logico: l’Arabia Saudita e l’Iran non sono famosi per trasparenza, e non solo in faccende monetarie. Inoltre, gli acquisti di questo genere si fanno in segreto, anche per non provocare rialzi speculativi e per non attrarre l’attenzione dell’unica superpotenza rimasta; e bisogna ricordare che da anni le Banche Centrali occidentali manipolano i prezzi dell’oro (lo «vendono» tramite derivati e moltiplicatori finanziari, in modo da abbassarne il prezzo) per scoraggiare ogni ritorno alla «moneta» di sempre, la sola che abbia il suo attivo in sè e non dipenda - come le pseudo-monete attuali senza copertura - dal debito di qualcuno, che può essere insolvente. Ed oggi l’insolvente massimo si chiama Stati Uniti d’America.

Tuttavia, il fatto stesso che il giornale Gulf News abbia dato la notizia (sia pure in pagina interna e senza alcun rilievo) fa pensare che non si sia trattato di un acquisto del governo saudita; in questo caso, la notizia non sarebbe stata data nemmeno come «breve».

I compratori sarebbero stati investitori privati. Difatti, proprio nelle ultime settimane la Borsa saudita è crollata. Il che significa che una quantità di ricchi arabi hanno incassato cifre astronomiche liberandosi delle azioni.

Questi signori hanno ricevuto la loro liquidità nella moneta locale, il ryal. Ma siccome il ryal è agganciato al dollaro, esso equivale al dollaro. Il dollaro è rialzato - temporaneamente - rispetto all’euro. Dunque gli investitori arabi si sono comportati più che razionalmente scambiando ryal (dollari) in un altro tipo di attivo.

Su quale tipo di attivo comprare per salvare il valore, non ci possono essere dubbi. Non certo immobili a Dubai, dove esplode la bolla immobiliare dopo la frenetica febbre costruttrice di lussuosi resort nel deserto. Non certo altre materie prime, che sono tutte in calo. Azioni - o banche e istituzioni finanziarie - americane? Per favore, siamo seri; i sauditi hanno già dato per i salvataggi degli «attivi» statunitensi, e ci hanno perso già quanto basta. Imprese, banche e compagnie europee? Alitalia, magari? Men che meno.

Persino Gordon Brown, che è andato in Dubai accompagnato da David  Rothschild col cappello in mano a chiedere soldi agli arabi, non pare aver ottenuto più che qualche sorriso di cortesia.

Ci sono in giro ottime occasioni, a cui fino a ieri dei miliardari sauditi non avrebbero resistito. Per esempio, lo yacht più costoso del mondo, l’Alibella Benetti da 164 piedi fuori-tutto, viene offerto a Londra con lo sconto di 9,5 milioni di euro a chi lo compra «entro 30 giorni» dal precedente proprietario (anonimo), che evidentemente ha bisogno di fare cassa. Con soli 24,5 milioni di euro potete fare vostro questo panfilo con sei cabine in marmo e foglia d’oro, completo di elicottero, che solo sei mesi fa era uscito dal cantiere al prezzo di 33 milioni, più di 60 miliardi in vecchie lire. E’ il bello della deflazione per miliardari.

Eppure, niente. I sauditi che possono, con il petrolio così basso, hanno una sola e ragionevole ansia: conservare il valore del proprio capitale. E l’oro, per quanto «primordiale reliquia di un passato barbarico», ha davanti a sè un sicuro rialzo. Un acquisto così massiccio in due settimane non può che indicare - e provocare - il rincaro.

Ancor meno chiaro il caso iraniano. Come hanno comprato oro gli ayatollah, senza suscitare indiscrete attenzioni? E’ vero o è falso ciò che ha detto il consigliere di Ahmadinejad?

Le riserve in valuta dell’Iran sono valutate a 80 miliardi di dollari, frutto dei recenti rincari del greggio (arrivato a 147 dollari il barile) prima del precipizio a 58 dollari. Già in luglio gli iraniani avevano smentito di aver trasferito 75 miliardi di dollari da banche europee per depositarli in banche asiatiche o convertirli in parte in oro; si noterà che - se invece l’azione fosse avvenuta - sarebbe stata del tutto giustificabile, date le continue minacce di sanzioni sempre più dure che l’Europa, per il bene di Sion e in ossequio alla volontà padronale di Washington, rivolge all’Iran per la sua presunta aspirazione all’atomica. Già gli USA hanno congelato tutti i beni persiani in loro dominio.

Fatto sta che i futures in oro sono rincarati del 5% nel solo venerdì scorso, e l’oro fisico è rincarato di 10 dollari, sui 735 l’oncia, per la necessità degli speculatori di coprire le loro operazioni «short»: costoro puntavano al ribasso, fidando nelle manipolazioni delle banche occidentali.

Ma di questi tempi, è irrazionale fidarsi delle banche occidentali, Centrali e no. Arabi e iraniani l’hanno capito; chissà quando lo capirà l’Uomo Bianco.

Il vice-governatore della Banca Centrale saudita, Mohammed Al Jasser, ha rivelato che le riserve del regno ammontano a 343 miliardi di dollari, tenuti in «attivi internazionali molto liquidi, sicuri e di rischio minimo».

Il ministro delle Finanze, Ebrahim Al-Assaf, ha rivelato di aver rifiutato una richiesta fattagli da Gordon brown (e da Rotschild, e dagli americani) di usare quel denaro per ricapitalizzare il Fondo Monetario Internazionale, che a forza di salvataggi di Stati come l’Ungheria, ha finito i fondi (2). Nonostante il rifiuto, il barone David de Rothschild ha rilasciato una rara intervista ai giornalisti in Dubai, dove si è mostrato molto ottimista. Anzitutto, sulla propria famiglia bancaria.

La crisi globale non ci tocca, ha detto, perchè «Noi forniamo consigli ad entrambe le parti del bilancio» (cioè a chi deve dare, e a chi deve avere). «Noi lavoriamo solo come consiglieri: non prestiamo, non sottoscriviamo (azioni od obbligazioni)... Ci occupiamo di assicurare la flessibilità finanziaria dei nostri clienti».

Anche la crisi finanziaria senza fine non preoccupa sir Rotschild. Il collasso sistemico non sembra inquietare la sua solida famiglia, che da 250 anni «consiglia» sempre due parti, Napoleone e Wellington ad esempio. Sa già, e ne ha accennato ai giornalisti, che «le banche faranno deleverage» (rientreranno dalle loro esposizioni con svalutazioni enormi degli attivi) ma poi ci sarà  «una nuova forma di governance globale. Ma attenti alle caricature: noi non vogliamo passare dall’ultra-liberismo al protezionismo» (3).

Non si può fare a meno di ammirare tanta tranquillità, mentre negli Stati Uniti perfino American Express si trasforma in una banca onde poter ricevere gli aiuti di Stato stanziati (chiede 3,4 miliardi di dollari), insieme ad assicurazioni che si scoprono banche per far la fila allo sportello, e altre 110 banche vere che hanno implorato un aiutino da 170 miliardi di dollari dal Tesoro; in ciò concorrenti con General Motors, con Crysler, con Fannie e Freddie di nuovo a bussare a soldi - l’intera economia USA - che si è messa in coda per godere di questo nuovo Stato-provvidenza nella patria del libero mercato.

Un altro ebreo, Nouriel Roubini (un economista che ha preso una della sue lauree alla Bocconi) si inquieta (4): sostiene che ormai è a rischio la solvibilità dello Stato americano - il che può indicare che i sauditi e gli iraniani, passando all’oro, hanno fatto la sola scelta giusta.

Ma evidentemente Roubini non ha l’esperienza dei Rotschild, che «danno consigli ad entrambe le parti di ogni bilancio», debitori e creditori, senza metterci di loro nemmeno un cent.




1)
«Iran switches reserves to gold - Report », Reuters, 15 novembre 2008.
2) Peter Cooper, «$347bn Saudi foreign reserves in ‘safe’ assets, nothing for IMF», Arabian Money, 17 novembre 2008.
3) Rupert Wright, «The first baron of banking», UAE National, 6 novembre 2008.
4) Nouriel Roubini, «The worst is not behind us», Forbes, 13 novembre 2008. «Expect a few advanced economies (certainly the U.S. and Japan and possibly others) to reach the zero-bound constraint for policy rates by early 2009. With deflation on the horizon, zero-bound on interest rates implies the risk of a liquidity trap where money and bonds become perfectly substitutable, where real interest rates become high and rising, thus further pushing down aggregate demand, and where money market fund returns cannot even cover their management costs».


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