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Il buonista metafisico
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Il ‘buonismo’ come mal sottile del cattolicesimo. Il suo primo apostolo fu il francese Jacques Maritain

Il «buonismo» prevarrà sulle porte degl’inferi? C’è da chiederselo - non per ridere, ma con inquietudine - nel leggere «Le Cose del Cielo», un volumetto, da me ripreso recentemente, che accoglie certi testi senili di Jacques Maritain, a cura di Nora Possenti Ghiglia (Editore Massimo).

Il sottotitolo suona: «Riflessioni sulla vita eterna». In realtà, Maritain vi fantastica sul come sia l’aldilà. Ovviamente, è l’inferno a interessarlo di più, per un motivo che sarà poi chiaro.

L’inferno di Maritain può sembrare ortodosso: v’è l’esclusione eterna dalla visione di Dio (la «pena del danno»), e la «pena del senso»: «una giusta pena naturalmente determinata; naturalmente generata dalla colpa» (pagina 74). «Vi è anche il fuoco». (pagina 75).

D’accordo, Maritain s’immagina che i dannati siano «degli attivi: lavorano tutto il tempo, hanno la religione del lavoro. Costruiscono e i loro edifici crollano a causa delle loro divisioni e dei loro odii... essi faranno delle città nell’inferno, delle torri, dei ponti, vi condurranno battaglie... nel male stesso manifestano i doni e le energie ontologiche di cui la creatura non sarebbe sprovvista se non quando cessasse di essere» (pagina 77).

Ciò che assimila i dannati agli Asura della tradizione indo-tibetana, ai Titani. Ma ciò che conta è che, «poiché l’anima resta rivolta contro Dio e fissata nell’odio, il fuoco non le serve a nulla e la brucia eternamente» (pagina 75).

Eternamente, però, non proprio.

Per Maritain - ecco il punto che gli sta a cuore - le anime sante protestano contro l’eternità dell’inferno: «Il nostro amore, questo amore che [Dio] ci ha dato, come potrebbe essere soddisfatto di vedere Dio odiato senza fine, e senza fine bestemmiato da esseri usciti dalle sue mani? Vedere il crimine aggiungersi al crimine? E tra i maledetti ce n’è di quelli che amiamo [...] No, noi non cesseremo mai, continueremo a pregare e a gridare per il sangue del Salvatore, ah!, senza avere, lo sappiamo bene, il minimo diritto di essere esauditi, e lasciando solamente la follia dell’amor esalare da noi liberamente, gratuitamente» (pagina 78).

Citata questa frase (che è di «Ernest Hello, e che Bloy ha ripreso e orchestrato»), Maritain ritiene di «sperare» che Dio cambi la volontà dei dannati, «fissata nel male in virtù dell’ordine della natura in maniera assoluta e immutabile», con un «miracolo».

Per farla breve: ogni dannato viene «perdonato (sempre dannato ma perdonato)» (sic) e cosi «lascia i luoghi bassi, viene fuori dal fuoco, è trasportato nel limbo. Egli gioirà, benché rimanga ferito, di quella felicità naturale» di cui godono i bimbi morti senza battesimo, «e che è ancora un inferno rispetto alla gloria» (pagina 79).

«Il fuoco dell’inferno resta eterno in se stesso, continua a bruciare senza fine [...] ma coloro che vi erano stati immessi ne sono stati tratti fuori per miracolo» (pagina 80).

Resta, per Maritain, che «questi perdonati sono dei perduti. Non sono stati salvati, non sono riscattati»; solo, «la loro anima è tratta fuori dalla pena del senso in quanto causata dal fuoco» (ibidem).

Spero si rifletta sull’enormità di quel che viene qui elucubrato. E che si veda la radice torbida di quella malattia del cattolicesimo che - in mancanza di migliori approfondimenti - s’è chiamata «buonismo», e di cui Maritain è stato uno dei massimi diffusori.

Il «buonismo», che è una forma del sentimentalismo, rivela qui che la radice di ogni sentimentalismo è la sensualità, il materialismo sensuale.

Maritain infatti suppone che il destino dei dannati possa essere migliorato sottraendoli al fuoco; è il dolore fisico, la «pena del senso», quello che per lui pesa davvero. La pena del danno, l’esclusione da Dio, è qualcosa che si può sopportare, non è vero?

Tutto ciò è ovviamente insensato. Se, come dice Maritain, «la giustizia di Dio è la sua pazienza» (pagina 74), ossia se fosse vero che Dio «soffre che delle creature formate a sua immagine lo rifiutino... eternamente», sarebbe più coerente ipotizzare che, per por fine alla propria sofferenza, Dio concedesse anche ai dannati la salvazione, ossia la visione di Sé; perché il «fuoco» non è che un «simbolo» del dolore della mancata visione: anche se un simbolo radicalmente concreto, che realmente brucia ogni fibra dell’essere umano, anima-e-corpo.

Ma pretendere la salvazione finale dei dannati è palesemente eretico, e Maritain se ne astiene.

I «buonisti» infatti amano le vie oblique. E cosi Maritain, più «buono» di Dio, fantastica che i dannati siano portati al cerchio più alto dell’inferno, il limbo.

Anche qui un segno della misera idea della giustizia che hanno i buonisti: la giustizia - che è esatto calcolo della relazione per cui si dà «a ciascuno il suo» - vorrebbe allora un altro miracolo: se i dannati per «miracolo» godono la felicità naturale del limbo, allora i bambini morti senza battesimo, cioè senza colpe attuali e personali, penano come i dannati. Non sarebbe ciò ingiusto?

Ma questa è evidentemente una domanda che i «buonisti» non si pongono nemmeno quando si tratta dell’aldiquà, della giustizia penale terrestre ed umana. Non a caso gran parte della «politica» buonista verte sulla sentimentale voglia di alleviare le pene dei condannati: no alla pena di morte, poi no all’ergastolo, poi pene «rieducative» piuttosto che «afflittive»... tutto ciò senza considerare che le vittime dei condannati omicidi hanno subito, loro sì, la pena di morte, l’afflizione, il dolore.

Maritain innalza questo buonismo piccinamente terrestre a metafisica: anche nel’aldilà, suppone, non debba esistere più giustizia penale. E le vittime saranno confuse coi colpevoli.

Nel limbo di Maritain, riempito di dannati «perdonati», ogni infanticida sarà eternamente a fianco della sua piccola vittima, penando (mitemente) e godendo (naturalmente) né più né meno che essa.

Tutto nasce, credo, dal presupporre che «la giustizia di Dio è la sua pazienza». Invece, la giustizia penale di Dio è il suo amore stesso, la faccia del suo amore che rivolge ai peccatori non pentiti. Nulla, nei testi evangelici autorizza il sospetto che la gloria di Dio, la carità di Dio, sia diminuita dalla presenza eterna dei malvagi; men che meno, che Dio «soffra» delle loro sofferenze, del loro rifiuto, della loro eterna bestemmia.

La parabola delle vergini stolte è spaventosamente chiara. Esse dal loro orribile «fuori», nella notte, bussano contro la porta chiusa; ma non turbano la festa dello Sposo che ha luogo dentro.

Del resto nessuna delle parole di Gesù sull’inferno autorizza minimamente le speranze di Maritain. Al contrario, tutte dicono che la minaccia della pena, che la giustizia penale metafisica, è qualcosa di cosi reale sul suo indicibile piano di realtà, che non può neppure esser detto con parole umane.

Gesù allude all’inferno con due metafore. La più popolare, quella del «fuoco», in realtà parla di un fuoco che arde in eterno qualcosa come spazzatura, residui che non servono e non sono più nulla.
Ai dannati è minacciata la Geenna - la discarica dei rifiuti di Gerusalemme, dove irriconoscibili resti della vita, sporcizie della vita, bruciavano tra fumi maleodoranti; al loglio è promesso che sarà «gettato nel fuoco» (o nel forno).

Ma più agghiacciante, più disperata, è la metafora del «fuori».

Gesù, quando allude a «le tenebre esteriori dove non è che pianto e stridor di denti», deve ricorrere a «parole scelte da una zona estrema del linguaggio», come fa dire Thomas Mann al suo diavolo, che con il nome di Sammael («angelo del veleno») si presenta al musicista Leverkhun per comprargli l’anima.

Perché «si possono usare molte parole, ma tutte stanno soltanto per nomi che non esistono. Questa è precisamente la gioia segreta, la sicurezza dell’inferno: che non è enunciabile, che è salva dal linguaggio. Che esiste semplicemente, ma non la si può mettere nel giornale, non la si può rendere pubblica, non se ne può dare una nozione critica con parole [...] Di simboli bisogna accontentarsi mio caro, perché lì tutto finisce, non solo la parola indicatrice, ma tutto [...] ogni pietà, ogni grazia, ogni riguardo, e fino all’ultima traccia di comprensione per l’obiezione incredula e scongiurante : ‘Questo voi potete, eppure non potete fare di un’anima’. Invece sì, lo si fa, e avviene senza il controllo della parola […] Incontrollato, nell’oblio, fra spesse mura».

E infatti, ciò che più colpisce è come Gesù, nell’alludere a ciò che avviene nelle tenebre esteriori, ricorra a una frase di impersonalità inaudita, una impersonalità di secondo grado.

Non dice che «nelle tenebre esteriori» si piange e si stridono i denti. Non dice nemmeno che «non c’è altro» che pianto e stridore; già quell’«altro» è di troppo, perché non c’è più, forse, nemmeno la minima traccia di «altro». Tutto ciò che c’è là «fuori» «non è che pianto e stridor di denti».

Lungi dall’esserci i dannati che costruiscono torri e ponti e battaglie, come immagina Maritain: non ci sono più «i doni e le virtù ontologiche delle creature». Potremmo addirittura sospettare che non esistano nemmeno più esseri umani nel senso proprio, ma solo residui.

C’è infatti là fuori qualcuno che piange e stride? A prender le parole di Cristo nel senso letterale, non c’è che «pianto e stridore».

E taccio su quello stridere di denti: noi abbiamo esperienza del battere di denti, nel gelo estremo, o del digrignare i denti, nella rabbia umana; ma lo stridere dei denti allude a un dolore, un gelo e una rabbia stritolatori, di cui non c’è esperienza possibile nell’aldiquà.

In questa prospettiva, la fantasia di Maritain appare come una frivola svalutazione della terribile serietà di Gesù.

Non è difficile scoprire da quali suggestioni Maritain si sia indotto a tanto. Egli stesso ci mette sulla strada, con la sua citazione di Hernest Hello e di Bloy.

Come ho altrove raccontato, Bloy ed Hello, furono travolti da una frenesia messianica sui generis: suggestionati dalle speculazioni attorno alle visioni di La Salette, e ancor più dalle «voci» e «visioni» che visitavano Anne Marie Roulè, la prostituta che Bloy aveva fatto la sua amante mistico-carnale, essi aspettavano l’imminente Secondo Avvento.

Non il ritorno di Gesù tuttavia, ma del «Paraclito», della Terza Persona; che avrebbe, secondo loro, abrogato la legge di Gesù, proclamando «bene» ciò che Gesù aveva dichiarato «male». Difatti, secondo le «rivelazioni» ricevute, essi credevano che il «Paraclito» fosse «identico a Lucifero».

Prefigurato da tutti i rifiutati della Scrittura - da Caino, dal Figliol Prodigo, dal Cattivo Ladrone - l’ultimo «segreto» che il Padre aveva in serbo per l’umanità stava per essere rivelato: Lucifero il Rifiutato sarebbe stato alfine manifestato come Spirito Santo, il Nemico come vero e definitivo Salvatore. Colui che era stato relegato nei «luoghi lontani» sarebbe stato riassunto nel più alto dei cieli.

Solo pochi comprendono che la nuova rivelazione negherà e abrogherà la vecchia, la legge di Gesù, e instaurerà la libertà di Lucifero-Liberatore: di fatto, solo Bloy (che si considerava l’Elia dell’imminente rivelazione) ed Hello.

A questa visione luciferina, Bloy rimase fedele. Anche quando la sua ispiratrice, la bella Anne Marie Roulè, finì in manicomio, ormai del tutto demente. Di fatto, Bloy oserà rivelare il gran segreto rovesciato nel suo «Dagli Ebrei la salvezza»: la cui edizione fu curata, nel 1905, da Jacques e Raissa Maritain.

Cosi, è senza stupore che ritroviamo nell’operetta senile di Maritain, nella sua fantasticheria sul riscatto buonistico dai dannati dall’inferno al limbo, una gentile attenzione speciale per Lucifero.

«Lucifero senza dubbio sarà l’ultimo a cambiare. Durante un certo tempo egli sarà solo nell’abisso, si crederà il solo condannato ai tormenti senza fine, e il suo orgoglio sarà senza confini. Ma anche per lui si pregherà, si griderà. E alla fine, anche lui sarà restituito al bene,
nell’ordine della sola natura, reso suo malgrado all’amore naturale di Dio, portato per miracolo nel limbo in cui la notte brilla di stelle. Vi riprenderà il suo ufficio di principe -riprovato sempre, riguardo alla gloria; amato di nuovo, riguardo alla natura [...] Umiliato sempre; ma umile ora» (pagina 81).

Anche Lucifero tra i bambini innocenti, e come loro principe Anche lui buonisticamente «restituito al bene», anche se solo «naturale», come preme al sentimentalismo.

Certo, è solo una forma attenuata dell’annunciazione satanica di Bloy, che voleva Lucifero assunto nella Trinità, banditore della nuova legge che dice bene il male e male il bene. Maritain era troppo letto dagli ecclesiastici per farsene banditore, senza rischio di un anatema.

Ma, confondendo in un’infantile indistinzione «limbica» il bene e il male, mostrando la giustizia come opposta all’amore, già la sua attenuazione non prepara la via alla venerazione di Lucifero, a cui Bloy voleva si volgessero i «veri spirituali»?


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