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Inflazione? Deflazione?
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Alcuni lettori mi chiedono previsioni sui primi mesi del 2009. Bisogna rispondere come Paul Jorion: «Nessuna guida descrive i territori in cui sono entrati» i signori della moneta.

Guardate questo grafico agghiacciante, che indica l’aumento della base monetaria in USA dal 1910: mai nella storia - nemmeno durante la guerra - la FED ha mai pompato tali volumi. Una crescita della base monetaria del 300% su base annua.







Questa linea rossa che schizza all’insù asintoticamente annuncia inflazione, anzi iper-inflazione. Invece avviene il contrario: sintomi di deflazione si sono instaurati non solo in USA e in Europa, ma in Cina e in Giappone - insieme con la recessione-depressione simultanea (anche questa, la prima volta nella storia) in USA, Europa ed Asia. Calano o crollano i prezzi, specie immobiliari e delle materie prime.

L’immenso fiume di dollari finisce congelato in Buoni del Tesoro americani: alla ricerca frenetica di «sicurezza», gli investitori arraffano BOT USA a tasso negativo.

Accade qualcosa di assurdo: che lo Stato più indebitato del mondo, già di fatto in bancarotta (come mostra il grafico di cui sopra), riesce a prendere a prestito ad interessi zero. Anzi, sotto zero: di fatto, il Tesoro USA, indebitandosi, guadagna. Oggi un investitore che compra BOT americani a tre mesi per 100 milioni di dollari accetta di pagarli  100.002.556; a scadenza, infatti, riceverà il valore facciale, ossia 100 milioni. Perdendoci 2.556 dollari.

Da dove nasce il frenetico bisogno di acquistare BOT in perdita?

Anzitutto, dalla mancanza di alternative; si perde di più in ogni altro investimento. E ci sono altri motivi: per esempio le banche nella m. fino al collo accumulano BOT in vista dei rendiconti di fine anno, dove un portafoglio pieno di titoli pubblici fa il suo effetto: vedete, siamo diventati saggi, non corriamo più rischi...

Questa situazione aberrante non può durare. Già oggi i BOT a breve e la moneta sono divenuti intercambiabili, anzi detenere pacchi di soldi in cassaforte è più sensato: le banconote sono BOT a interessi zero, ma almeno non sottozero.

Il che significa che chi ha ancora denaro non lo presta più a nessuno: e ciò segnala e aggrava la deflazione. Ma nello stesso tempo, già diversi analisti avvertono che questa corsa ai BOT USA è un’altra, estrema «bolla», pronta ad esplodere come un’atomica, spargendo nel pianeta un fall-out tossico mai visto.

Presto, il club di coloro che hanno ancora denaro e sono disposti a prestarlo (un club sempre più striminzito) pretenderanno veri interessi, e magari molto alti, per accettare la carta straccia del Tesoro e della FED; e gli USA nel 2009 dovranno emettere 2 mila miliardi di dollari di nuovi BOT, per stare a malapena a galla, quindi dovranno offrire un qualche rendimento. E ciò prelude a inflazione. Anzi ad implosione inflattiva del dollaro.

Quanto è il potenziale inflattivo caricato nel sistema?

La domanda a cui bisogna preventivamente rispondere è: quanto è «sicuro» il BOT americano, una volta liberato dall’alone dovuto al panico, e nel caso di resa finale dei conti? In quel caso, un BOT è tanto sicuro quanto oro rappresenta. Quanto oro è detenuto dal Tesoro che lo emette.

Sulla Rete, qualcuno ha fatto un certo calcolo. Il debito pubblico USA, ufficialmente, è di 16.656 miliardi di dollari (10,6 trilioni: in realtà è superiore, ma prendiamo per buona la cifra ufficiale).

L’oro conservato a Fort Knox di proprietà USA è, sempre ufficialmente, pari a 261 milioni e mezzo di once.

Dividiamo 10,6 mila miliardi per 261 milioni e 500 mila, e otteniamo: 40.750 dollari per ogni oncia d’oro.

Oggi, l’oro si aggira sugli 800 dollari l’oncia. A questo prezzo, tutto l’oro americano copre soltanto il 2% del valore dei BOT emessi dagli Stati Uniti: tanto è «sicuro» il BOT americano, alla resa dei conti.

Vale il 2% di quel che afferma di valere.

S’intende, il calcolo è teorico. Lo Stato non potrebbe offrire oggi un’oncia d’oro al prezzo di 40.750 dollari, non troverebbe compratori. Ma questo è il potenziale d’inflazione caricato, come una molla, nel dollaro USA. L’oro salirà, negli anni a venire, verso quel prezzo.

Ma per ora, no. Anzi i prezzi al consumo in USA sono scesi dell’1,7% a novembre rispetto a novembre 2007; la più grossa discesa dal 1947; e il prezzi dei beni importati sono scesi del 6,7%:
petrolio, soprattutto. Dunque, deflazione.

Il fatto è che, se la quantità di moneta è cresciuta mostruosamente, la sua velocità di circolazione è enormemente rallentata. Anzi congelata.

Un «London Banker» citato da Roubini sostiene che la deflazione non smetterà di mordere e distruggere, fin tanto che le Banche Centrali non rialzeranno i tassi - per assicurare ai risparmiatori onesti una remunerazione dei loro risparmi, sopra il tasso d’inflazione - e fino a quando proteggeranno i criminali colpevoli di questa creazione titanica di cattivo debito da ogni responsabilità, nè li assoggeteranno ad una efficace regolamentazione e a un decente controllo,
obbligandoli ad una decente trasparenza.

«E’ semplice», dice il London Banker: «Io non investirei in un Paese che dà fondi ai bancarottieri premiando le bancarotte e punisce i rispamriatori. Non investirei in USA e in Gran Bretagna finchè non cambiano strada, assicurando un ragionevole rendimento agli investitori. Nella UE, sarei molto selettivo, preferendo gli Stati conservazionisti come la Germania che non ha mai abbracciato i peggiori eccessi, anche se tristemente alcune delle sue stupide banche hanno comprato gli eccessi esteri» (1).

Il che pone la domanda delle domande: chi comprerà i titoli del debito pubblico di decine di Stati che - già stra-indebitati prima - si sono indebitati ancor più in questa folle e inutile corsa a reflazionare le loro banche e le loro bolle?

Ma la risposta (che non so) può attendere.

Per ora, la dissennata stamperia dei dollari è intercettata dal dissennato panico mondiale. Il sistema bancario-finanziario succhia tutto quel mare di pseudo-capitale e se lo tiene, congelandone la circolazione.

Dunque, è deflazione. Il che è altamente distruttivo per l’economia.

Nè i cali dei prezzi sono destinati a durare: i produttori di petrolio, ad esempio, stanno riducendo la produzione. L’offerta diminuirà e - pur in deflazione - il prezzo dovrà crescere. Oppure, peggio, mancheranno le merci essenziali oggi a prezzi troppo bassi, petrolio e alimenti in primo luogo.

Può essere una deflazione a macchia di leopardo: certi beni o servizi calano (le auto, i salari...) mentre altri rincarano o scarseggiano (cibo e petrolio).

Frattanto, in USA la spirale continuerà ad aggravarsi. Sono attesi scoppi di altre bolle, con relativa distruzione di «ricchezza».

Scoppieranno gli hedge funds. Scoppieranno le istituzioni finanziarie emittenti di carte di credito, per insolvenza dei debitori: un nuovo buco valutato, per il 2009, fra i 64 e i 123 miliardi di dollari.

Diverrà dominante la crisi dei milioni di neo-pensionati - la generazione dei baby-boomers - i cui fondi-pensione hanno investito sul mercato azionario. Le pensioni che costoro riceveranno saranno, se va bene, la metà di quel che hanno sperato, e per cui hanno pagato tutta la vita; il loro capitale accumulato in azioni vale di giorno in giorno sempre meno. Il che significa che costoro avranno meno da spendere, e non contribuiranno all’uscita dalla depressione con i loro consumi.

Sarà una piaga sociale. Particolarmente dura per i pensionati USA (dov’è il 45% degli «attivi» da fondi pensioni privati nel mondo), per quelli giapponesi (18%), in Gran Bretagna (i fondi pensione hanno il 7% degli «attivi» azionari mondiali), in Olanda (6%).

Forse - forse - andrà un po’ meno peggio ai pensionati italiani, che non hanno ancora praticamente le loro pensioni affidate ai «mercati».

E finchè durano il panico e la recessione, anzi si aggravano, probabilmente lo Stato americano potrà continuare a emettere titoli pubblici di debito: con ciò, prosciugando il pool mondiale dei risparmi e dei capitali, e sottraendolo ad investimenti produttivi.

Se poi lo Stato USA non troverà prenditori per i suoi BOT, stamperà direttamente altra moneta.

Dopo, ad un certo punto, la cosa deve finire. Per cercare di battere la recessione, persino lo Stato-canaglia in mano agli speculatori dovrà fare in modo che la sua pseudo-moneta vada a fertilizzare l’economia reale.

Magari sarà lo Stato che lancerà un programma di opere pubbliche per stimolare l’occupazione, la domanda e la crescita economica, o le banche che torneranno a prestare. A quel punto tutta la massa pseudo-monetaria creata dalla FED «inonderà l’economia USA di liquidità», scrive William Engdahl, «e ciò nel mezzo di una depressione mondiale. A quel punto, e forse prima, il dollaro collasserà in quanto i detentori esteri di BOT USA ed altri attivi se ne libereranno» (2).

Sarà l’iper-inflazione. Che situerà l’oncia d’oro da qualche parte fra gli 800 dollari attuali, e i 40 mila dollari teorici. Alcuni analisti infatti prevedono un anno o due di deflazione, seguiti da una inflazione galoppante.

Toccherà anche l’Europa?

Gli USA sono sempre riusciti ad esportare i loro fallimenti finanziari; sarà interessante vedere come riusciranno a esportare la loro iper-inflazione, dopo che ci hanno regalato la loro bancarotta speculativa e la loro deflazione.

Personalmente non so cosa avverrà. Ma temo non lo sappiano nè Tremonti nè Trichet nè la Merkel, e per questo le loro mosse sono così esitanti e le loro misure così ristrette. L’Italia, dopotutto, ha il debito pubblico più grosso d’Europa, e BOT che sono da rinnovare a scadenza per 355 miliardi di euro; e più della metà del debito pubblico non è detenuto da italiani (che possono essere «costretti» a prestare, come già fece Amato) ma da stranieri, grazie a Ciampi.

Engdahl prevede che l’iper-inflazione USA avrà come contraccolpo «un acuto apprezzamento dell’euro con conseguente blocco delle esportazioni in Germania e altrove, a meno che le nazioni della zona euro e gli altri Paesi estranei al dollaro, come Russia, l’OPEC e soprattutto la Cina non abbiano organizzato una nuova zona di stabilizzazione separata da dollaro».

Già, questa è la speranza. Che Mosca ne abbia l’intenzione, è un fatto.

«Dobbiamo riformare radicalmente i sistemi politici ed economici», ha detto il presidente Medvedev non più tardi del novembre scorso, «il mondo deve essere multipolare».

Da allora, i membri dell’OPEC hanno invitato la Russia ad entrare nel cartello petrolifero, onde avere un maggiore potere contrattuale nel mercato calante. La Russia e la Cina stanno rafforzando la cooperazione militare. Ma la Russia, con le idee politicamente chiare, è fortemente colpita - e in qualche modo rimpicciolita - dalla crisi globale; emorragia di capitali, rublo in discesa, riserve in divisa rapidamente prosciugate.

Questo potrebbe essere un male minore, anzi un’occasione per una «zona di stabilizzazione» di un certo tipo. Gazprom, che orgogliosamente prevedeva un prezzo del barile a 250 dollari, può essere pronta a più miti consigli ora che il barile è atteso alla soglia dei 25. E così tutti gli altri Paesi produttori, dal Venezuela all’Iran, prima ubriacati, ed ora umiliati, dagli alti e bassi insensati dell’oro nero.

La soluzione sarebbe che i produttori e i consumatori di greggio si legassero con contratti a lunga scadenza - come già si fa parzialmente per il gas - accordandosi su un «giusto prezzo», o almeno un ventaglio di prezzi del petrolio (da 50 a 75 dollari il barile, propone il Financial Times), sostenuto da una riserva strategica da aumentare o da cui attingere quando i prezzi divergessero da questo ventaglio.

Ovviamente (lo dice persino il Financial Times) il mercato del greggio sarebbe limitato per regolamento ai soli operatori con un interesse fisico al mercato, ossia con esclusione degli speculatori che hanno trafficato in derivati sul greggio, senza alcuna intenzione di farsi consegnare il petrolio che comprano sulla carta (3).

Questa soluzione converrebbe ai produttori, non solo perchè li proteggerebbe dagli sbalzi dissennati speculativi che rendono impossibile ogni programmazione ed ogni bilancio; converrebbe ai consumatori, che sanno che il greggio a troppo buon prezzo d’oggi è un vantaggio del tutto momentaneo, e rischia di schizzare in sù con l’inflazione Made in USA.

Converrebbe ad entrambi perchè il settore petrolifero necessita di enormi investimenti urgenti (350 miliardi di dollari l’anno secondo la International Energy Agency) onde sfruttare i giacimenti estremi e gli scisti bituminosi - è il caso di dirlo: stiamo raschiando il fondo del barile, e per esempio, sotto i 40 dollari a barile, non conviene fare le estrazioni in mare profondo o nell’estremo Artico.

Insomma in questo campo Cina ed Europa dalla parte dei consumatori, e Russia, OPEC e Iran dalla parte dei produttori, hanno  la possibilità di trovare un punto di comune convenienza.

Una convergenza è possibile, nel nome della stabilità dei prezzi e dei contratti a lunga scadenza. Qui, un mondo multipolare può nascere, e senza Washington.

Saranno i nostri politici capaci di fare questo? E’ la speranza.




1) London Banker, «Deflation has become inevitable» RGE Monitor, 12 dicembre 2008.
2) William Engdahl, «Federal Reserve sets stage for Weimar-style hyperinflation», GlobalResearch, 15 dicembre 2008.
3) Nick Butler, «The low oil price calls for a new set of rules», Financial Times, 15 dicembre 2008.


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