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Il martirio di Gaza tra politica ed escatologia
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Premessa necessaria

A scanso di faziosi equivoci lo diciamo subito e chiaramente.
Le scritte antisemite e le svastiche sui muri di Roma sono delle assolute imbecillità senza scusanti.
Diciamo subito anche che l’idea di boicottare i negozi ebraici a Roma come altrove è un’idea assolutamente cretina, ingiusta e, quel che più ci interessa, assolutamente non cristiana.
Infatti, boicottare i negozi ebraici significa far cadere su persone innocenti le spudorate responsabilità del governo israeliano.
Significa applicare lo stesso principio che il governo sionista applica ai palestinesi ossia il principio, tribale, arcaico, non cristiano della colpa collettiva.
Pertanto a tali atteggiamenti ci dichiariamo del tutto contrari.
Detto questo però veniamo al merito di quanto vogliamo qui annotare.
Il cardinale Renato Raffaele Martino, emulo del vescovo von Galen, ha detto, molto giustamente, che Gaza è un lager a cielo aperto.
Finalmente un cardinale di Santa Romana Chiesa che ricorda a noi ed tutto il mondo che l’innocente Abele è anche il bambino palestinese trucidato dai merkavà israeliani!
Siamo convinti che, visto il dicastero vaticano che egli dirige (il Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace), il cardinal Martino, prima di parlare, abbia concordato con il Papa la sua dichiarazione.
E’ veramente, di fronte all’assordante silenzio «ecumenico» della Chiesa, il caso di ringraziare Dio per la dichiarazione del porporato in questione.
Il quale per aver osato tanto è stato attaccato dal governo israeliano come «collaboratore» della propaganda di Hamas.
Mentre aspettiamo e preghiamo che anche il Santo Padre, superando la pur comprensibile prudenza, dichiari finalmente che quella israeliana è violenza politica e militare, rileviamo invece un assordante e decennale silenzio da parte delle autorità religiose ebraiche sull’«olocausto palestinese».
Le stesse che poi si permettono di «processare» Pio XII per i suoi presunti silenzi.
A noi avrebbe procurato una immensa gioia se il rabbinato avesse preso le distanze dalla politica dello Stato di Israele e se lo avesse fatto nel Nome Santo del Dio di Abramo, che è Dio d’Amore ed è il loro ed il nostro Dio.
Invece, salvo alcune lodevoli eccezioni (quelle che, ne siamo sicuri, salveranno in futuro l’onore ebraico) come i Neturei Karta ed i Rabbis for Human Rights, niente, nessuna proclamazione di aperta condanna del sionismo politico.
Anzi, al contrario il rabbinato, nella sua maggior parte, è mosso da zelo sacrale per lo Stato di Israele.

A Rabbi Riccardo Di Segni diciamo: è l’ora di dissociarsi, tacere e pregare!
Sul Corsera del 10 gennaio 2009 rabbi Riccardo Di Segni (sostanzialmente appoggiato, su Il Messaggero dell’11 gennaio, dall’esponente progressista della comunità ebraica romana, Guido Coen) ha affermato, con intenti polemici verso il cardinal Martino, che l’idea del perseguitato che diventa persecutore sarebbe parte del più bieco armamentario antisemita.
Qui cadono molte maschere.
Rabbi Di Segni ci ha detto, in altri termini, che ciò che vale per tutti gli altri popoli non vale per il popolo ebraico, per definizione sempre innocente.
Quel che è sempre possibile, per la follia umana, a ciascuno popolo, ossia macchiarsi di colpe magari dopo essere stati a propria volta vittima, non è possibile che accada al popolo ebreo.
Il solo pensarlo è antisemita.
Figuriamoci se poi lo si dice in pubblico e se a dirlo è un cardinale.

Contro lo stesso Antico Testamento, nel quale i profeti si scagliano in continuazione contro Israele per le colpe che esso spesso contrae agli occhi di Dio, e non solo colpe relative al culto all’unico Dio ma anche colpe relative alla discriminazione religiosa o razziale verso i non ebrei, rabbi Di Segni ci ha impartito una strana, stranissima, teologia, di evidente elaborazione sinagogale, per la quale gli israeliti, perché (ancora) eletti, nascono senza ombra di peccato originale.
Finora credevamo che solo Maria Santissima, unica tra gli esseri umani, fosse nata, per singolare privilegio divino in vista dell’Incarnazione, senza peccato originale.
Ma, evidentemente, siamo, ahimé, ancora troppo legati ai «miti» di una vecchia religione, quella cristiana, ormai dimenticata quasi da tutti e che «sagaci» professori come Mauro Pesce ci assicurano, «scientificamente», essere stata nient’altro che un grande equivoco nato dalla cattiva, ed antisemita, interpretazione che i discepoli di un oscuro predicatore ebreo del I secolo, tal Gesù di Nazareth, detto il Cristo, hanno dato al messaggio ed alla persona stessa del loro maestro, morto tragicamente.
Ma, tant’è!
Noi siamo inguaribili, «cattivi», «reazionari», «vecchi», cattolici e non possiamo ardire di arrivare alla «scienza» di Mauro Pesce né, tanto meno, alla «sapienza talmudica» di rabbi Di Segni.
Ma, nonostante la nostra incommensurabile inferiorità «accademico-sapienziale», anche noi abbiamo qualcosa da dire a riguardo dell’illuminato rabbino capo di Roma.

Riccardo Di Segni non ha capito, ci sembra, che questa non è l’ora di lasciarsi andare ad esternazioni di improbabili verità, che poi sono solo bugie pietose per non usare aggettivi più aderenti ai fatti.
Questa è invece l’ora di dissociarsi dai crimini israeliani e poi di tacere e pregare!
Questa è l’ora nella quale, invece di darsi in bella mostra sulle pagine nazionali, Di Segni, magari dopo una pubblica approvazione delle parole di verità del cardinal Martino e dopo essersi pubblicamente dissociato, come i rabbini del Neturei Karta, dai crimini del governo israeliano, avrebbe fatto cosa buona ad entrare in sinagoga, chiudere le porte, rimanere solo, sedersi anzi inginocchiarsi davanti al Dio di Abramo e supplicarne il perdono per Israele, come fece il nostro comune Patriarca per la città di Sodoma.
Avremmo voluto, infatti, sentire dalla sua bocca di rabbino capo, della più antica comunità ebraica della diaspora, uscire una qualche preghiera di questo tipo: «Perdonaci, Dio dei nostri padri, perdonaci per il gran male che stiamo facendo ai nostri fratelli palestinesi, semiti come noi, uomini come noi e come tutti. Sappiamo che prima o poi Tu, Altissimo Signore, spezzerai la nostra protervia ed umilierai il nostro orgoglio, come hai fatto tante altre volte nei secoli passati. Tu non ami l’orgoglio di chi ha fatto delle tue promesse uno scandalo anziché un beneficio per l’umanità. Non scagliare, ti prego, la tua indignazione contro tutto questo popolo di dura cervice e se in esso vi sono, perché vi sono, alcuni giusti, risparmia tutti gli altri per l’amore che porti a questi giusti».
Invece, niente di tutto questo.
Al contrario, il gran rabbino si è permesso in queste ore di sterminio dei palestinesi di rinfacciare alla Chiesa il presunto silenzio ai tempi della persecuzione nazista degli ebrei.
Di Segni, sa benissimo che quel silenzio non ci fu e che se non ci furono inutili urla gli ebrei, suoi avi, trovarono, in quei frangenti, proprio in Santa Romana Chiesa l’unico scudo di protezione.
Lui conosce benissimo queste cose ma per disonestà intellettuale non le dice, forse non può dirle perché il suo ruolo, in realtà sempre più «politico» che religioso, non lo consente.
Il nostro rabbino capo, del resto, conosce benissimo anche la storia ebraica e pertanto sa benissimo che il suo popolo non è sempre stato, come pretende, la vittima universale e che anche la storia ebraica ha i suoi scheletri negli armadi.
Sa benissimo cosa accadde nel 614 a Mamilla, il luogo nel quale i suoi avi massacrarono centinaia di migliaia di cristiani, e sicuramente si sarà informato sulla dura egemonia sociale praticata dai suoi avi, nel medioevo, sui contadini polacchi e russi.
O, ancora, avrà di sicuro notizie circa il trattamento dai suoi avi riservato ai cristiani nel regno Kazaro nel VII secolo.

Conoscerà certamente, rabbi Di Segni, la storia dei cristiani yemeniti, quelli che in ambito islamico vengono ricordati come «gente del fossato» e che il re israelita di Najràn, nel nord dello Yemen, Dhu Nuwàs perseguitò sottoponendone al martirio del fuoco un gran numero di loro: secondo alcune tradizioni furono circa 23.000 i cristiani che perirono arsi vivi in un grande braciere acceso in un fossato appositamente scavato (1).
Ed è solo qualche esempio.
Concorderà, pertanto, il nostro rabbino capo, che ha ampie e motivate ragioni lo storico ebreo Ariel Toaff nel sottolineare che la storia ebraica non è affatto immune da nefandezze e che la propria peculiarità teologica non ha preservato gli ebrei (perché - aggiungiamo noi - non è affatto questa la promessa vera che Dio fece loro) dall’essere, come tutti gli altri uomini e popoli, capaci del bene come del male.
Anzi, afferma giustamente Ariel Toaff, questa «sacralizzazione» del popolo ebraico, questa elaborata e non storica immagine di purezza del popolo ebraico, alla lunga finirà per danneggiare la stessa identità ebraica con conseguenze che solo il futuro, purtroppo (diciamo purtroppo perché in quanto cristiani abbiamo a cuore, abbiamo sempre avuto a cuore, il destino terreno ed eterno dei «fratelli maggiori» per la conversione dei quali preghiamo ogni giorno), ci svelerà.
Prima o poi: perché se gli israeliti ritengono che l’attuale stato di cose possa andare avanti all’infinito si sbagliano di grosso.

Esercizi di memoria per illuminare il presente

I Padri della Chiesa sapevano che l’affievolirsi della fede in Cristo sarebbe coinciso con l’aumento globale del prestigio spirituale di Israele.
Ma essi sapevano anche che, dal momento che è stato stabilito dall’Eternità che le promesse di Dio si realizzeranno soltanto in Cristo e che alla fine anche gli ebrei entreranno nella Chiesa, ogni aspirazione o tentativo ebraico di ritorno «messianico» alla Terra Santa e di ricostruzione del Tempio è soltanto una manifestazione di empietà prometeica, tesa a forzare la mano dell’Altissimo secondo quelli che però non sono i suoi veri disegni.
Gerusalemme non è più, oggi, calpestata dai «pagani» (Luca 21,24) ed il loro tempo, quello dei gentili, sembra avvicinarsi alla fine.
Il tempo dei gentili, certamente non del mondo, sta forse per finire ma questo non dà diritto a nessuno, né ebreo né cristiano, di pensare, contro la Tradizione apostolica e patristica, che le promesse escatologiche si stiano compiendo secondo la prospettiva talmudica dell’egemonia mondiale di Israele.
Anzi, ed è bene ricordarlo anche ai tanti «cristianucci» timorati della Sinagoga, quanto vediamo in atto da almeno un secolo, il graduale ritorno in massa degli ebrei in Palestina, è, secondo le antiche preoccupazioni dei Padri della Chiesa, un segno inquietante.
Certamente escatologico ma nella prospettiva tradizionale cristiana per la quale il momento di apparente trionfo dell’esegesi giudaico post-biblica della Scrittura sarebbe stato anche quello dell’inizio della definitiva debacle dei sogni messianici di Israele.
Il futuro, lo ripetiamo, ci svelerà come tutto ciò prenderà forma storica concreta.
Per ora, possiamo solo fare costante opera di sollecitazione della memoria «profetica», oggi molto labile anche nei cattolici, della Tradizione apostolica.
San Paolo, che pure si struggeva per i suoi fratelli ebrei, fu costretto, dalla durezza della persecuzione giudaica a sua volta fomentatrice di quella imperiale (è, infatti, il caso di ricordare, dal momento che le librerie sono piene delle «scientifiche» panzane del professor Mauro Pesce e di altri simili esegeti, che il conflitto fu aperto da parte della autorità sinedritiche e non da parte cristiana), a convenire, con i profeti veterotestamentari, che si trattava di un popolo di «dura cervice».
La constatazione paolina ha trovato conferma nelle ripetute delusioni messianiche alle quali, sin dal 132 dopo Cristo, gli ebrei sono andati incontro.
Siamo oggi, probabilmente, vicini, forse più vicini di quel che può sembrare (chi poteva mai credere che il comunismo, che pareva dovesse durare ancora decenni se non secoli, sarebbe crollato repentinamente nel giro di pochi anni?) all’ulteriore, e forse definitivo, scorno «messianico» di Israele.

Certo è che è innegabile, anche da parte di osservatori laici, che la sciagurata politica dello Stato di Israele risenta delle idee follemente millenariste forgiatesi, soprattutto negli ultimi tre secoli, intorno al «messia secolarizzato», alla rappresentazione, prima religiosa e poi, con il sionismo, politica, del popolo ebreo come «messia collettivo».
Rappresentazione messianica di cui lo Stato di Israele sarebbe l’inveramento storico, chiamato secondo tale esegesi ad inaugurare l’era della pace mondiale all’insegna del primato elettivo di Israele.
Si tratta, con tutta evidenza, di tematiche che toccano al cuore il fondamento stesso della Fede cristiana ma che i cristiani, persino la gerarchia, non sembrano voler affrontare fino in fondo e quando i fatti li costringono ad affrontarle lo fanno con la somma incertezza di coloro che giocano in difesa, smarriti nella loro coscienza ed eredità tradizionale apostolica.
Ma torniamo al chiasso, così poco spirituale, che la comunità ebraica romana sta inscenando in queste ore tragiche e vergognose per l’intero genere umano.
Rabbi Di Segni ha dichiarato anche che gli ebrei italiani sono affranti di dolore per la sorte tragica dei palestinesi di Gaza e che per primi si sono mobilitati in loro favore.
Non mettiamo in dubbio che anche tra gli ebrei romani ed italiani vi siano persone degne di ogni stima e rispetto, che saranno senz’altro addolorate per i bimbi palestinesi ed avranno senz’altro fatto quanto in loro potere per portar ad essi soccorso.
Tuttavia ci sia consentito di sollevare più di un dubbio sia sulla sincerità del Di Segni che del resto dei vertici dell’ebraismo italiano, così fanaticamente schierati con il governo di Israele anche quando si macchia di crimini contro l’umanità (la legislazione penale internazionale, infatti, è, dovrebbe essere, uguale per tutti, compreso lo Stato ebraico, e nessuno, neanche Israele o i suoi governanti, può dichiararsi rispetto ad essa legibus solutus).
Troviamo conferma di questi nostri dubbi nella rivelazione registrata di recente sulla stampa delle vere finalità della raccolta di medicinali, promossa dalla comunità ebraica romana, senza costi (una carità senza sacrifico personale non è carità accetta a Dio!) per i bambini di Gaza, tanto propagandata dai media nostrani.
E’ infatti accaduto che è stata intercettata, e poi pubblicata da Il Manifesto, un mail privata di Riccardo Pacifici ad un correligionario che spiegava tutta la strumentalità politica dell’iniziativa che in realtà era finalizzata a supportare una manifestazione di sostegno alla politica del governo di Israele, con la partecipazione bipartisan del centrodestra e del centrosinistra (2).
Manifestazione poi effettuata domenica 11 gennaio con la presenza in pompa magna di Cicchitto, Fassino, Alemanno, Rutelli, Fini, Veltroni, etc. (per un abruzzese come l’autore di questo articolo è stato curioso vedere in prima fila tra gli astanti della manifestazione l’inquisito ex governatore della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco: si dice che stia cercando di riciclarsi politicamente con il centrodestra, nelle fila dei socialisti di Stefania Craxi, per le europee, sicché un’occasione come quella della manifestazione pro-Israele non poteva essere persa se si nutrono ancora ambizioni politiche).

Che in tutta questa faccenda vicino-orientale, sin dai suoi albori, ormai secolari, vi sia una commistione di religione e politica, o meglio un uso politico della religione, dunque un insulto, una bestemmia, al Dio di Abramo, è cosa che in molti hanno da tempo capito.
Come, ad esempio, Lucio Caracciolo, il direttore della rivista di geopolitica Limes che, in una intervista su Avvenire di giovedì 8 gennaio scorso, non ha mancato di evidenziare anche gli interessi bassamente elettorali che si nascondono dietro l’operazione «Piombo Fuso»: l’urgenza per il governo israeliano di centrosinistra, Partito Laburista e Kadima, di fermare l’avanzata del centrodestra, il Likud, dato per vincente alle imminenti elezioni.
Cosa che però aggrava agli occhi di Dio e degli uomini il crimine del governo di Israele: uccidere inermi bambini palestinesi per un segno in più su una scheda elettorale!!!
Del resto, il mistero d’iniquità si rivela spesso proprio nella riduzione ad ideologia o nella strumentalizzazione politica della fede.
Questa è infatti l’essenza del fondamentalismo, che non è solo quello islamico.
Sta diventando, infatti, sempre più urgente tornare, come pur si faceva un tempo, a chiamare apertamente le cose con il loro nome.
In questa prospettiva è doveroso affermare, lo ha del resto così definito in via ufficiale anche l’ONU, che il sionismo è una forma di razzismo.
Ma, al di là della necessaria riappropriazione di un linguaggio corrispondente ad una esatta concettualità, quel che, soprattutto, sta diventando urgentissimo è reimparare a cogliere i lati metafisici e metastorici di tutta la questione.
L'ultima esternazione di Gianfranco Fini, ad esempio, quella del 16 dicembre 2008 circa il presunto silenzio complice della Chiesa sulle leggi razziali, rientra in un disegno teso alla fabbricazione di una «Verità di Stato», costruita sulla patente falsificazione della storia.
Se passa questo disegno il panorama diventerà ancora più orwelliano.
Non si creda alla mera ignoranza del noto «voltagabbana» ma si guardi ai suoi sponsor: Pacifici, Gattegna, Di Segni, ossia tutto il direttivo della comunità ebraica italiana.
Pacifici ha accusato la Santa Sede di aver offeso, come Stato straniero, le nostre istituzioni per aver detto che Fini, presidente della Camera, è un opportunista.
Tutto questo ricorda in modo impressionante il clima di fine XIX secolo quando l’israelita e massone Ernesto Nathan (si dice fosse figlio naturale di Giuseppe Mazzini), sindaco di Roma, in nome della non ingerenza del Vaticano nelle cose dello Stato italiano, organizzava continue provocazioni verso il Pontefice, come suntuose libagioni gratuite di carne sotto le finestre del Pontefice il giorno di Venerdì Santo.
Pacifici nonostante, come tutti gli ebrei italiani, abbia la doppia cittadinanza, italiana ed israeliana, si permette sfacciatamente di argomentare su pretese ingerenze straniere vaticane, quando la Santa Sede ha solo mosso le proprie giuste proteste verso un politico in carriera che, offendendo il buon nome di tutti i cattolici del mondo, parla di cose delle quali ignora anche l’abc.
Mettiamoci, poi, l’episodio di un anno fa quando fu impedito al Papa di presenziare, su invito del rettore, all’inaugurazione dell’anno accademico a La Sapienza nonché il rinfocolarsi di attacchi al Cattolicesimo di un tipo che sembrava ormai cosa derubricata alle cronache ottocentesche, ci riferiamo ai libri di Augias/Pesce e di Dan Brown ed altri, e, tirando le somme, chiediamoci se non siamo in una fase di forte intensificazione della lotta contro Cristo da parte di colui, l’omicida e padre della menzogna, che sa di «avere poco tempo».
Nessun «complotto» naturalmente, ma solo «spiriti dell’aria», come dice San Paolo, che tuttavia sanno come usare gli «sprovveduti», fossero anche docenti universitari, scrittori di fama o uomini politici.

Gli utili «sprovveduti»

Tra questi «sprovveduti», per i quali è più che mai necessario pregare, è necessario annoverare i membri del vertice direttivo dell’UCEI, ad iniziare da Riccardo Pacifici, Renzo Gattegna e dal rabbino capo Riccardo Di Segni.
La politica di tale direttivo nei confronti della Chiesa cattolica è, infatti, totalmente altra rispetto a quella di Elio Toaff ai tempi di Giovanni Paolo II.
L’attuale direttivo dell’UCEI rappresenta, qui in Italia, il braccio operativo più «fanatico» della nota lobby nell’ostacolare, in tutti i modi, la possibilità che Papa Pio XII venga beatificato, come sembra, da diversi indizi, voglia fare Benedetto XVI.
La guerra scatenata dall’UCEI alla Chiesa si è intensificata proprio con l’elezione di Ratzinger al soglio pontificio.
Non tutti ricordano che fu il Di Segni, per primo, a commentare l’elezione di Ratzinger in termini di precauzione preventiva contro il «Papa reazionario».
La guerra in questione ha poi avuto un suo momento mediaticamente forte con le polemiche scatenate ad arte, in tal caso con la collaborazione dei circoli catto-progressisti, dei vescovi antiratzingeriani e della sinistra, a proposito della liberalizzazione della Messa tradizionale e della preghiera «pro judaeis».
Questa ignobile politica non è appoggiata da tutto l’ebraismo italiano: ad esempio nel caso della questione della preghiera per gli ebrei proprio Elio Toaff prese ampie distanze da Di Segni e Pacifici.
Tuttavia al momento attuale bisogna che tutti noi cattolici teniamo realisticamente presente con chi abbiamo a che fare quando si parla di rappresentanti ufficiali della comunità ebraica: quella stessa che sponsorizza Fini ed Alemanno.
Chi voglia maggiori informazioni «dal di dentro» circa il livore anticattolico di certi ambienti «ebraico-romani», quelli che esprimono per l’appunto l’attuale dirigenza dell’UCEI, può rivolgersi ad Ariel Stefano Levi di Gualdo, giovane scrittore, allievo di padre Gumpel, uno degli storici postulatori della causa di beatificazione di Pio XII.
Levi di Gualdo, autore di un libro molto interessante (3), come dice il nome stesso, è nato ebreo, benché da famiglia cattolica, ha poi aderito in età adolescenziale all’ebraismo, imparando perfettamente l’ebraico compreso, frequentando la sinagoga, quello cultuale, per poi tornare in età più matura al Cattolicesimo deluso nelle sue aspettative spirituali dalla precedente scelta giovanile, rivelatasi insufficiente per avvicinarsi all’indicibile mistero del Dio di Abramo, che si è definitivamente rivelato in Cristo Gesù.

Certamente né Pacifici, né Gattegna, né Di Segni possono essere minimamente accostati per onestà intellettuale ad André Chouraqui, (1917-2007), ebreo francese nato in Algeria, emigrato a Gerusalemme, grande studioso delle tre religioni abramitiche (tradusse e commentò Bibbia, Vangelo e Corano), il quale si distanziava da ogni sterile polemica ebraica anti-cristiana: «Non è lamentandosi né mostrandosi sistematicamente aggressivi - scriveva in una corrispondenza - che si potrà rimpiazzare la conoscenza lucida dell’eredità di Israele».
In occasione del cosiddetto affaire Finaly, due ragazzi ebrei nascosti durante la guerra in Francia e Spagna da istituzioni cattoliche, battezzati nel ‘48 e nel ‘53 inviati da un giudice in Israele, Chouraqui si pronunciò in difesa dei sacerdoti cattolici accusati di aver costretto al battesimo i ragazzi ebrei loro affidati per sottrarli ai rastrellamenti nazisti: «L’ostilità sistematica - scrisse in quell’occasione - contro qualche Ordine o raggruppamento di uomini rinnega la vocazione profonda di Israele che rimarrà sempre quella dell’unità d’amore riassunta dall’ordine dello Shemah».
Jacques Ellul aveva difeso pubblicamente sulla rivista Terre retrovée padre Démman, accusato dal rabbino Wladimir Rabinowitch in merito al caso Finaly.
Ebbene, Charouqui, in una missiva del ‘53, plaudì all’apologia del sacerdote fatta dal pensatore francese (4).
Come può constatarsi non siamo noi cristiani ad evidenziare le «paranoie» caratteriali e psico-spirituali della mentalità di certi ebrei.
A farlo, saggiamente, sono altri ebrei, spiritualmente aperti, e non senza osservare che in questi atteggiamenti vi è un chiaro tradimento della stessa «vocazione di Israele».

Il mistero post-biblico di Israele

C’è però anche un inquietante aspetto «misterico» che da secoli accompagna la vicenda del giudaismo post-biblico.
Esso trova una significativa conferma persino nel nome dei mezzi corazzati in uso presso il «glorioso» Tsahal, l’esercito di Israele.
L’amico Domenico Savino, proprio su questo stesso sito, ci ha di recente ricordato che i carri armati israeliani sono denominati «merkavà» e che con questo termine nel cabalismo si intende ciò che in ambito gnostico si indicava con la parola, di origine ellenica, «pleroma».
Tuttavia, come poi lo stesso Savino, su impulso dello scrivente, ha chiarito, la Merkavà in origine era la visione del carro di fuoco testimoniata da parte del profeta biblico (5).
Il cabalismo, che è gnosi spuria, usa, infatti, deformandone però senso e significato, idee e concetti perfettamente tradizionali.
La Merkavà, alla quale faceva riferimento Ezechiele, non è il «pleroma», gnostico e cabalista, ma è il Trono di Dio al quale si ascende per il tramite del Fuoco dello Spirito Santo.
Quel Fuoco che ardeva, senza bruciare, nel roveto sul Sinai nonché sul capo di Maria e dei dodici il giorno di Pentecoste.
E’ lo stesso «fuoco» che i mistici cristiani dicono di sentire ardere nel cuore durante l’estasi indicibile che li unisce all’Amore di Dio (6).
Ora ci sembra emblematico che il nome sacro con cui il profeta Ezechiele indicava il Trono di Dio e lo Spirito Santo sia diventato, in ambito giudaico post-biblico, prima un concetto gnostico e poi, quando anche il cabalismo ha trovato la sua secolarizzazione politica nel sionismo, addirittura la denominazione di uno strumento di guerra e di morte come un mezzo corazzato.
Si conferma dunque, anche sotto questo profilo, l’inquietante presenza di un mistero di iniquità che acceca gli «sprovveduti» «fratelli maggiori».
L’irrisolta questione del Crocifisso è, infatti, per il giudaismo post-biblico, che i «fratelli maggiori» lo vogliano o no, la vera questione sulla quale tutte le loro mal riposte speranze messianiche si frantumeranno, come accade inevitabilmente a chi incespica sulla Pietra d’inciampo.
I soldati israeliani pregano dondolando la testa prima di andare ad ammazzare i bambini palestinesi ma le loro preghiere, come quella del fariseo orgoglioso della parabola evangelica, non possono essere ascoltate dall’Altissimo che ha già ammonito, per bocca del profeta antico, coloro che, non conoscendoLo nel suo essere Amore, perseguitano ed uccidono gli innocenti: «Udrete con i vostri orecchi, ma non comprenderete, guarderete con i vostri occhi, ma non vedrete. Perchè il cuore di questo popolo s’è indurito e hanno ascoltato di mala voglia con gli orecchi, hanno chiuso i loro occhi per non vedere con gli occhi, non ascoltare con gli orecchi, non comprendere nel loro cuore e non convertirsi, perchè io li risani.» (Isaia 6, 9-12).

In modo analogo Gesù ammoniva i Sinedriti, dottori del Tempio: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!» (Matteo 23,23).
Molti hanno iniziato a rileggere antiche profezie cristiane.
Molti si dicono sempre più convinti che manca solo la distruzione della Moschea di Gerusalemme per la ricostruzione del Terzo Tempio.
Non sappiamo se sia effettivamente questo che ci riserva il futuro, quantunque sembra sempre più plausibile che a questa follia possa giungersi per davvero.
Resta il fatto che comunque viviamo in un’età nella quale il mistero della storia si va certamente dipanando a grandi linee secondo modalità in qualche modo illuminate della rivelazione giovannea. Chi è ancora capace di «discernimento» faccia ora la sua scelta.
I rabbini ultra-ortodossi del Chabad Lubavitch, dei quali probabilmente molti di quei soldati che oggi operano in Gaza sono allievi, insegnano una gnosi razziale di evidente iniquità come traspare da queste parole di rabbi Yitzhak Ginsburgh: «Le anime dei goym (gentili) sono di un ordine completamente differente e inferiore. Sono totalmente diaboliche, senza nessuna possibilità di redenzione di nessun tipo».
Secondo l’insegnamento Lubavitch, ciascuna singola cellula del corpo di un ebreo richiama la divinità, è una parte di Dio, sicché qualsiasi molecola del DNA ebreo è parte di Dio.
Questo rende speciale il DNA, e dunque la razza, degli ebrei.
Secondo il già citato rabbi Yitzhak Ginsburgh la Torah (naturalmente interpretata al modo dei Lubavitch) consentirebbe il prelievo del fegato del primo innocente non-ebreo che capita per salvare un ebreo.
Questo perché la vita di un ebreo, essendo egli una parte di Dio, ha un valore infinito: «C’è qualcosa di infinitamente più santo e unico nella vita di un ebreo rispetto a quella di un non-ebreo» (7).
I Lubavitch sono un gruppo eterodosso dell’ebraismo che coltivano una religione di tipo neo-gnostico, ma sono molto ben accreditati presso i dirigenti sionisti di Israele e lo sono stati presso la Casa Bianca nell’era Bush.
Dire che ogni ebreo è parte di Dio, scintilla del pleroma divino, significa annunciare una prospettiva teologica panteista che si risolve in una auto-deificazione dell’uomo, dell’uomo ebreo, aprendo in tal modo la strada ad un messianismo antropocentrico che si rivela alla sensibilità cristiana, se non ancora addormentata dai fumi di certa nuova teologia, con le evidenti fattezze del paolino «mistero di iniquità».
Nessuno più di un ebreo, un grande studioso del cabalismo, Gershom Scholem, ha saputo spiegarci il messianismo ebraico a-cristiano, ossia avulso da Cristo (8).

Secondo Scholem quello che gli ebrei hanno dovuto pagare nel corso dei secoli al loro messianismo è stato un pesante prezzo.
Con ciò lo studioso intende dire che ogni qualvolta la speranza messianica dell’Israele post-biblico prendeva forma concreta o, apparentemente, si accendeva nella storia, incarnandosi politicamente, ne è conseguita per gli ebrei la più cocente delusione, sovente accompagnata da grandi tragedie.
Scholem, da ebreo, non dice quel che un suo «fratello minore» cristiano gli direbbe ossia che la storia delle ripetute delusioni e tragedie della speranza messianica dell’Israele post-biblico altro non è che la conseguenza del loro auto-accecamento nei confronti del Messia Gesù Cristo, l’unico, come osserva anche Messori, tra i messia ebrei ad avere avuto davvero successo benché per quella via, apparentemente infamante, della Croce che essi, finora, non sono riusciti a comprendere.
La storia del  popolo ebraico, lo abbiamo già ricordato, è piena di pseudomessia e di veri e propri falsi messia che hanno fallito la loro missione sovente dopo aver suscitato enormi entusiasmi in tutta la diaspora.
Il caso maggiore è forse proprio quello di Sabbatai Zevi attentamente studiato da Scholem.
Sarà pure un caso ma il rabbino che ne proclamò la messianicità, accendendo le speranze dovunque nel mondo vi fosse una comunità ebraica, era Nathan di Gaza.
Secondo Scholem, l’idea messianica, vera stella polare della vita travagliata della diaspora ebraica, ha sempre oscillato tra una dimensione razionalista, o «halakhica», ed una dimensione apocalittico-utopica.
La prima, di tipo normativo-religioso, riduce il messia ad una funzione rabbinica ed ha sempre interpretato l’età messianica alla stregua del tempo e del luogo, ossia del momento del ritorno alla terra dei padri, nel quale si sarebbe celebrata la libertà da ogni gioco straniero.
La seconda dimensione, invece, non nasconde affatto una forte valenza politica, a volte anti-politica cioè anarchica, che si caratterizza per la pretesa a distruggere l’ordine dato delle cose, il presente storico, per l’instaurazione di un altro ordine senza più ingiustizie e persecuzioni e nel quale il primato spirituale di Israele sarà garanzia della pace globale per tutti.
E’ chiaro che tutto il pensiero moderno avverso al Cristianesimo, si pensi, solo per fare l’esempio più evidente, al marxismo ma anche - e non sembri paradossale - al nazismo con l’utopia del «Reich millenario» ed i tratti pseudo-messianici rivestiti dal suo Furher, è profondamente intriso di tale spiritualità messianica di matrice ebraica a-cristiana.

La tensione che inevitabilmente si è prodotta all’interno dello stesso ebraismo della diaspora tra queste due dimensioni della speranza messianica è stata risolta, anzi ne è all’origine, dallo sdoppiamento della figura messianica in un messia politico, «figlio di Joseph», destinato a combattere eroicamente le forze del male ma ad essere sconfitto, ed un messia religioso, «figlio di David», che invece alla fine trionferà.
Si può dire che in qualche modo il sionismo ha fuso i due messia mediante la teologia dell’olocausto che è diventata il fondamento stesso dello Stato di Israele: il «figlio di David» ha vinto attraverso la sconfitta del «figlio di Joseph».
Si tratta, cristianamente non è possibile non vederlo, di una scimmiottatura del Sacrificio Perenne della Croce e del Mistero della Resurrezione Pasquale.

La dottrina dei due messia pare che risalga addirittura ai tempi di Bar Kokheba, il primo dei falsi messia della lunga storia della diaspora, quello della rivolta antiromana del 132 dopo Cristo.
Questa dottrina ha segnato in profondità l’escatologia ebraica post-biblica fino a quando, nel XVI secolo, la cabala luriana (Isac Luria fu uno dei più noti cabalisti rinascimentali) ne ha dato una nuova interpretazione quella per la quale il messia non «avviene», non giunge dall’Alto, da Dio, ma deve essere «realizzato» dall’uomo, dall’ebreo che agisce «come se» la redenzione messianica dipendesse esclusivamente da lui.
Questa svolta antropocentrica del messianismo ebraico post-biblico diventa possibile proprio perché sulla base della gnosi cabalista, che abbiamo visto riapparire anche nel Chabad Lubavitch, l’ebreo è una parte, una porzione, di Dio, una scintilla del pleroma.
Questa nuova interpretazione luriana del messianismo ebraico si diffonderà nella diaspora soprattutto attraverso le comunità chassidiche.
L’idea del popolo di Israele come «messia collettivo» prende qui forma definitiva prima religiosamente e poi politicamente trasformandosi con il sionismo in ideologia nazionalista etnocentrica.
A fronte di questo messianismo antropocentrico, come cristiani non possiamo non rammentare un’antica profezia «Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero… rappresenta un nome d’uomo» (Apocalisse 13,18).
Il numero della profezia, come è noto, è la triplice ripetizione della cifra 6 che biblicamente simboleggia, tra altre cose, la volontà prometeica dell’uomo, la sua aspirazione all’auto-deificazione.
Nell’ultimo Libro della Scrittura cristiana, dunque, riecheggia, anche a spiegazione del suo primo Libro, l’inganno originario dell’«eritis sicut Dei» (Genesi 3,4-5), del «sarete come Dio» inteso come perenne tentazione dello spirito umano.

I turbamenti dei cattolici tradizionalisti

Un caro amico, abbastanza anziano per aver nitidi ricordi dell’antica liturgia latina, ci parlava, giorni addietro, di un’antifona a suo tempo cantata la Domenica delle Palme, in processione  per le vie della Città, nella quale con espressione affettuosa, si faceva memoria dei «Pueri hebraerorum». Erano, questi, quelli che avevano gettato palme ed avevano steso le loro vesti sulla strada davanti a Gesù che sull’asinello entrava messianicamente in Gerusalemme.
E notava, questo amico, la contrapposizione liturgica tra i «Pueri hebraerorum» ed i «Perfidi (increduli) Iudaei» che invece, nell’antica liturgia, erano quelli che, fuori dal Pretorio di Pilato, gridavano «crucifige».
Questo amico ci ricordava l’antico canto liturgico per ammonirci sul fatto che gli ebrei devono essere amati.
Egli non sapeva che è proprio questo il sentimento che cristianamente proviamo verso di loro.
E tuttavia non possiamo non rammentare che ai fanciulli ebrei acclamanti il Signore si opponevano, appunto, i sinedriti (non tutti, naturalmente, facevano eccezione, ad esempio, Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo) e la folla di fanatici da loro aizzata il giorno del Venerdì Santo.

Di fronte a Cristo il popolo ebreo, per la prima volta nella sua storia, si è radicalmente diviso: una parte Lo ha seguito, non solo la Madonna e gli apostoli ma molti altri ebrei, ed una parte Lo ha rifiutato.
Di fronte a Cristo non ci sono mezze misure: o Lo si accetta o Lo si rigetta.
Ci sembra chiaramente che nelle attuali vicende di Terra Santa si evidenzi di nuovo, molto bene, la distinzione che l’antica liturgia faceva tra «pueri hebraeorum» e «perfidi judaei».
Proprio l’Amore/Logos è quel che oggi certi ebrei cercano ed è proprio quell’Amore/Logos che altri ebrei non solo non cercano, e non riconoscono in Cristo, ma addirittura rifiutano, per volontà nichilista di odio verso tutto ciò che non è giudaicamente, in senso sionista, etnocentrico.
Un atteggiamento più lontano dall’Amore di Dio, svelatoci dal Cristo, non potrebbe esserci.
In quell’anziano amico, forse, un malinteso filo-occidentalismo (questo Occidente non è cristiano né è l’erede diretto della perduta Cristianità: è questo in fondo il grande equivoco in cui cadono molti cattolici tradizionalisti, come il caro amico in questione) agisce in modo tale, complice anche l’ossessionante propaganda mediatica cui siamo tutti sottoposti, da portarlo a ritenere che criticare la politica di Israele significhi essere ostili agli ebrei in quanto tali.
O, per quanto riguarda l’aspetto teologico, osteggiare, quasi marcionisticamente, l’ebraismo autentico.
Cosa, questa, che è impossibile, e lo diciamo chiaramente, per chi fa professione di fede cattolica.
Innanzitutto per il semplice fatto che l’ebraismo, quello vero, ha trovato definitivo adempimento e continuità in Cristo e pertanto, come diceva Pio XI, noi cristiani «spiritualmente siamo semiti».
E poi per il non secondario fatto che quando oggi si parla di ebraismo si pensa, erroneamente, che quello praticato dai «fratelli maggiori» sia lo stesso ebraismo di Cristo.
In realtà, l’attuale «ebraismo» è una invenzione post-cristiana, post-templare, che rappresenta piuttosto la continuazione delle deviazioni, o se si vuole del differente giudaismo, che in parte già allignavano tra i sinedriti del secondo Tempio.

Si tratta, essenzialmente e sostanzialmente, di un giudaismo diverso dall’ebraismo cristiano ossia dalla Fede di Abramo adempiutasi in Cristo Gesù.
Questo diverso giudaismo costituisce, rispetto alla Fede di Abramo, una deviazione o almeno una discontinuità irrimediabile.
Ecco perché l’antica liturgia ricordava i «fanciulli ebrei», che acclamavano il Signore che entrava messianicamente a Gerusalemme, opponendoli ai «perfidi giudei» che urlavano fuori dal Pretorio di Pilato.
Si aggiunga che quel differente giudaismo praticato da molti dottori del Tempio già ai tempi di Cristo (non tutti come abbiamo detto: Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, pur sinedriti, avevano riconosciuto in Cristo l’autentico ebraismo nonché l’adempimento delle promesse messianiche secondo la vera fede abramitica ossia innalzamento dell’uomo al Cielo e non realizzazione in terra, in termini politici, di un millenaristico regno di Dio, della «pace universale», come vuole il giudaismo post-biblico) si è nei secoli trasformato o, se si preferisce, fuso con il sionismo, una ideologia nazionalista non riconducibile semplicemente, proprio per il suo particolare carattere, all’alveo del romanticismo politico europeo.
Sul piano strettamente politico o gius-internazionalista, crediamo che lo Stato di Israele abbia tutti i diritti di esistere, possibilmente come Stato multireligioso e multietnico, e che Gerusalemme debba essere internazionalizzata in quanto Città Santa delle tre fedi religiose di matrice abramitica.
Tuttavia non ci è assolutamente possibile identificare la dirigenza, di matrice sionista, di tale Stato con i «Pueri hebraerorum».

Quella dirigenza è invece l’erede a pieno titolo dei «Perfidi Iudaei».
E si badi: abbiamo detto «quella dirigenza» e non il popolo ebreo nel suo complesso.
Infatti esistono tantissimi ebrei puri di cuore, che cercano davvero con sincerità il Dio di Abramo e che in nome di quel Dio contestano la politica di «quella dirigenza».
Questi ebrei puri di cuore sono i veri eredi dei «Pueri hebraerorum».
E, magari senza saperlo, sono già incamminati sulla via di Cristo.
Criticare la politica della dirigenza dello Stato di Israele, che meriterebbe davvero una nuova Norimberga, è un atto d’amore e di leale amicizia verso i «fratelli maggiori».
Un’altra cara amica, anch’essa di orientamento cattolico tradizionalista, ci ha detto: «Ricordiamoci che siamo cristiani e come tali dobbiamo condannare sempre il male, in modo equanime. Il nostro
riferimento è il Logos, Amore e Giustizia insieme, esercitate appunto con intelligenza».
Ha ragione: Cristo è il Logos Incarnato ed è Sacerdote in Eterno al modo di Melchisedeq, che era Re di Giustizia e di Pace.
Tuttavia anche qui mi sembra che si sia incapaci di vedere fino in fondo tutta la realtà delle cose.
Chiunque abbia visto le immagini, che non ci fanno vedere in TV ma sono reperibili sulla rete, dei bambini palestinesi massacrati dai soldati israeliani, soprattutto se ha fede nel Logos/Amore Incarnato non può non sentire indiscutibilmente come falso il «mito» dell’equidistanza.
Da parte nostra, non ce la sentiamo proprio, nell’attuale situazione di Terra Santa, di essere equidistanti tra il carnefice e la vittima.
I rapporti di forza, non è possibile negarlo, sono assolutamente ìmpari: esattamente come quelli che sussistevano tra i nazisti e gli ebrei in rivolta nel ghetto di Varsavia.
Si poteva allora essere equidistanti?
Non lo crediamo.
Ed infatti Pio XII non lo fu, checché ne dicano oggi i suoi detrattori.
Ed operò, non valendo a nulla le denunce verbali, per salvare quanti più ebrei possibile.

Allo stesso modo (e non si dica che le situazioni non sono paragonabili, perché il sionismo, non lo affermiamo noi ma molti storici compreso l’ebreo George Mosse, è un «nazismo giudaico») non si può essere equidistanti tra sionisti e palestinesi.
Cosa diversa è essere vicini anche agli ebrei che soffrono, quelli ad esempio feriti dai pur ridicoli razzi di Hamas, come un tempo fu cosa diversa essere vicini anche ai tedeschi che soffrivano.
Ed infatti Pio XII nello stesso radiomessaggio del Natale 1942, in cui condannava lo sterminio per ragioni di «stirpe», implicito ma chiarissimo riferimento alle vittime ebree, condannò anche i bombardamenti indiscriminati anglo-americani sui civili tedeschi.
Anche ora Papa Benedetto XVI, quando partecipa del dolore degli uni e degli altri, ha certamente a cuore soltanto le popolazioni civili, non certo il sionismo o l’arabismo ed i loro adepti.
Saremmo scandalizzati se il Papa fosse equidistante tra la vittima palestinese ed il soldato israeliano o il suo mandante sionista che è al governo di Israele.
La nostra preoccupazione è piuttosto quella per la quale un domani, quando una nuova Norimberga o qualcosa di simile giudicherà i crimini israeliani (perché è sicuro che anche il potere u-sraeliano cadrà: è caduto quello, che sembrava dover durare in eterno, del comunismo, figuriamoci se non cadrà quello israelo-americano!) Benedetto XVI possa essere accusato di silenzio come fanno oggi con Pio XII.
Ecco perché la pubblica dichiarazione del cardinal Martino è stata provvidenziale e riteniamo che essa sia stata concertata con il Santo Padre.
Il quale, poi, con quell’accenno alla necessità di cambiare la classe politica attuale in Terra Santa, sembra intenzionato anche lui ad uscire maggiormente allo scoperto.
Forse, durante il viaggio in Terra Santa, sempre che lo faccia davvero o che la situazione lo consentirà, ci riserverà qualche ulteriore e più chiaro intervento.
Ci piacerebbe, ad esempio, che il Papa, evitando le questioni politiche in se stesse, dica però qualcosa di strettamente teologico che tuttavia suoni fortemente come condanna della politica sterminatrice di Israele.
Qualcosa come un richiamo agli ebrei ad essere coerenti con la fede nel Dio di Abramo che non vuole quanto essi, o meglio i loro politici e militari, stanno facendo ai palestinesi ed a dissociarsi in massa dalla loro criminale dirigenza politico-religiosa.

Stretti tra i contendenti di una guerra artificiale

A differenza di certi cari amici tradizionalisti, è ormai da diversi anni che abbiamo aperto i nostri orizzonti, di studiosi di filosofia politico-giuridica e di storia, ad un livello che potremmo definire più «mistico» o perlomeno «teologico».
Ecco perché abbiamo superato l’idea, che a molti ambienti della destra cattolica proviene dalla stagione del duro scontro con la sinistra negli anni ‘60 e ‘70, secondo la quale Israele è l’alleato dell’occidente contro i suoi nemici.
Idea che riecheggia ancor oggi nelle dichiarazioni per cui Israele sarebbe l’unica democrazia del Medio Oriente (una democrazia che però vuole essere etnicamente omogenea, ossia tribale e discriminatoria).
Ci sembra invece di percepire in quanto sta accadendo, e non da ora, in Terra Santa qualcosa che ha a che fare, appunto, con la meta-storia e con il suo mistero di provvidenzialità dolorosa.
In tal senso crediamo, lo ripetiamo ancora una volta, che il giudaismo post-biblico, che nella sua forma sionizzata è in qualche modo l’anima dello Stato di Israele (la cui fondazione infatti è dai rabbini ultraortodossi considerato un «evento messianico»), si sia incamminato verso quella che forse sarà, dopo molte altre, la sua debacle finale.
Dopo la quale forse i «fratelli maggiori» inizieranno ad aprire gli occhi e ad almeno prendere in considerazione il fatto che il Messia, che è già venuto, non è il popolo ebreo ma Cristo.
Come dice anche Vittorio Messori, quello della Palestina non è (solo) un problema politico ma è molto di più: è una questione eminentemente religiosa (9).
Siamo sempre pronti a rivedere il nostro giudizio sull’attuale situazione in Terra Santa.
Ma devono riuscire a dimostrarci che vi è equanimità nei rapporti di forza che vedono un oppresso popolo di «straccioni» (potrebbero essere i moderni «insorgenti», i moderni «straccioni del cardinale Ruffo», i moderni «briganti» contro quella che in fondo è una forma, certamente particolare perché tutta dentro la cultura ebraica, del giacobinismo ossia il sionismo) opporsi alla volontà egemonica di uno Stato militarmente organizzato (come era la Francia napoleonica ed il suo esercito) e dotato di non meno di 200 bombe atomiche.
Anche qui si potrebbe vedere un precedente biblico nella vicenda del piccolo Davide che affronta il gigante Golia.
Mentre nei tempi veterotestamentari Israele sapeva, con Davide, affidarsi solo a Dio, oggi invece, ebbro della sua potenza militare, si è trasformato in un novello Golia riponendo blasfemamente solo in se stesso, in un «se stesso» messianizzato, la propria fiducia.
Sappiamo però quale fu l’esito dello scontro tra Davide, che oggi è impersonato dai palestinesi indifesi e fiduciosi solo in Dio, e Golia.
Il mediasistem occidentale, tutto faziosamente favorevole ad Israele, conferma il nostro giudizio.
Solo se si è degli ingenui oppure si è in malafede si può pensare che vi è equanimità da parte della stampa occidentale.
Noi, che non siamo ingenui, di una tale malafede noi non vogliamo essere complici.
 
Molti cattolici, anche tra quelli di orientamento tradizionalista, sono portati, con l’inganno, a ritenere che il pericolo islamico sia tale da dover ad ogni costo stringere una «santa alleanza» con l’occidente liberale, con i rabbini, i sionisti, gli «atei devoti», insomma con tutto coloro che nello scenario del presunto «scontro di civiltà» si oppongono all’Islam, inteso a sua volta come un monolitico «male metafisico».
Questa moda dell’attribuzione all’avversario della qualifica di «nemico assoluto» è segno che anche in Occidente si stanno ricalcando le orme della deriva fondamentalista in atto in molte parti del mondo islamico (anche il fondamentalismo islamico è del resto espressione del mistero d’iniquità) e consistente proprio nel dichiarare l’altro, confondendo il piano provvidenziale con quello storico, «male assoluto», nel discriminare l’altro come «non umano» (i sintomi di questa deriva sono trapelati anche dalle parole di Guido Coen, su Il Messaggero dell’11 gennaio, quando ha definito i militanti della sinistra e della destra radicali «al di fuori del consorzio umano», «fuori dell’umanità»).
La stupida ed inutile prova di forza degli islamici in piazza Duomo, a Milano, per la quale comunque da parte dei responsabili sono state presentate le debite scuse al cardinale Tettamanzi, ha a tal punto allarmato tanti buoni cattolici da indurli, ed è proprio questo ciò che vuole chi per i propri indicibili interessi gioca allo scontro di civiltà, nella difensiva a fianco degli ayatollah dell’occidentalismo come Capezzone, pannelliano abortista neocons arruolato per la bisogna in quel PDL che ama poi presentarsi con il volto del tutore dei «valori cristiani nella società» ma che con Fini non ha esitato a mettere la Chiesa sul banco degli imputati della storia.
Ora è necessario che i cattolici tradizionalisti riflettano.
Se l’Occidente non è più cristiano la colpa non è certo degli immigrati islamici.
Questi piuttosto rappresentano un problema socio-politico, e sovente di ordine pubblico, ma non sono una minaccia per una identità cristiana della società che, purtroppo e da tempo, da prima che essi giungessero, non c’è più.
La colpa della decristianizzazione è nostra, tutta tragicamente nostra.
E’ responsabilità unicamente di tutti noi che abbiamo tradito Cristo.
Gli immigrati islamici sbagliano alla grande se si mettono a pregare nelle strade italiane credendo di fare una provocazione ad una Cristianità che non c’è più.
Essi in tal modo ottengono solo l’unico risultato di far strillare Il Giornale e Libero e tutti i corifei di Israele.
Sbagliano completamente obiettivo anche perché credono che l’Occidente, che esporta la democrazia a suon di bombe, sia la, perduta, Cristianità.
Per il seguace di Maometto è difficile cogliere le differenze tra un americano ed un europeo, un cattolico ed un protestante.
Stiamo, evidentemente, parlando delle masse popolari islamiche e non dei livelli dotti della cultura islamica.
Pertanto se Bush invadendo l’Iraq si proclama cristiano, per quelle masse vuol dire che la «Cristianità» sta facendo la «crociata» contro l’Islam: andate poi a spiegarla all’immigrato islamico la differenza tra Cattolicesimo e protestantesimo, Europa e America!
Quello che si sta inscenando, e che forse è nient’altro che un programma già scritto altrove, altro non è che il copione huntingtoniano dello «scontro di civiltà».

Aizzare gli occidentali, non più cristiani, alla «crociata», al radicamento identitario in nome di uno strumentalizzato ed anacronistico «Deus vult», spaventandoli con la minaccia terroristica gonfiata a tal punto da individuarla in qualsiasi soggetto con fattezze un po’ mediorientali
(è esattamente quel che fanno certi film e sceneggiati di produzione americana trasmessi in prima serata da RAI e Mediaset: non ne avete mai visto uno?), serve a propagandare l’etat d’ésprit dello scontro di civiltà.
L’«ateismo devoto» di gente come Ferrara e Pera, un tempo anche della fu Oriana Fallaci, che dopo aver sputato per una vita sull’oscurantismo cattolico oggi invocano la «crociata anti-islamica» per la salvezza dell’Occidente delle veline, serve ad arruolare i buoni cattolici che non stanno più nella pelle dalla gioia di essere presi in considerazione dall’intellighenzia laicista, dopo secoli di ostilità da parte di essa, cadendo nella trappola.
A questo, a tenere vivo l’allarme per la difesa dell’Occidente, si presta anche, purtroppo, la continua insistenza sulle radici cristiane della razionalità occidentale contrapposta al «fanatismo» islamico: ma mentre il Papa parla di quelle radici con il santo obiettivo di ricostruire il rapporto Fede Ragione, dissolto, guarda caso, a partire dal XVI secolo, dal fideismo luterano e dal razionalismo illuminista, e per evidenziare il carattere razionale del Logos cristiano che proprio per questo è Amore di Dio, i corifei di questo Occidente, come Massimo Introvigne sulla scorta del presbiteriano Rodney Stark, usano le parole del Papa per fargli dire quel che in effetti egli non dice ossia che l’Occidente, post-anti-cristiano, sarebbe figlio della fede cristiana e che la fede non sarebbe possibile senza la contestuale occidentalizzazione dei popoli non occidentali.
Attenzione: costoro non dicono «ellenizzazione», forse perché sanno che anche l’Islam si è, a suo modo, abbeverato alle stesse fonti ellenistiche alle quali si è abbeverato anche il cristianesimo, certamente con esiti del tutto incomparabili e diversi tra loro (10).
Introvigne è notoriamente al servizio dei thin tank neocons  statunitensi e, quindi, al servizio del loro progetto politico.
Ed, allo scopo, ama nascondersi dietro la difesa della «Cristianità» artatamente confusa con la «pars occidentis» del mondo come se si potesse accantonare, o minimizzare, il fatto che tra noi e la Cristianità ci sono di mezzo Lutero nonché la Rivoluzione Inglese e quella Francese, diverse fin quanto si vuole ma entrambe tappe della scristianizzazione post-medioevale.
Ad alimentare lo scontro di civiltà sono servite le vignette su Maometto ma anche la strumentalizzazione, da parte dei media, del discorso di Ratisbona, con cui Benedetto XVI in realtà ha solo inteso ricordare alla Chiesa che la sua Tradizione non è solo ebraica ma anche greca
(il punto centrale di quel discorso è stato il definire provvidenziale la traduzione, nel I secolo avanti Cristo, in greco della Bibbia dei LXX, che è la Bibbia cristiana, ricordando ai cristiani che essa è il nostro Vecchio Testamento, e non il testo masoretico ebraico che tra l’altro è del II secolo dopo Cristo).
Il Papa, in quell’occasione, è stato gettato dai media occidentali in pasto alle masse mussulmane per un passaggio decontestualizzato del suo discorso, quello nel quale egli ha citato, del tutto incidentalmente, il Paleologo al solo scopo di supportare alcuni concetti relativi al rapporto fede/ragione, che con la questione islam/cristianità o islam/occidente poco o nulla c’entravano.
Del resto, negli intenti di chi gioca allo scontro di civiltà, provocare ad arte la rabbia delle masse islamiche per spaventare gli occidentali, sia laici che cristiani, o umiliare i moderati di Al Fatah, per poi dire che con Hamas (che comunque ha vinto democraticamente in libere elezioni, controllate da osservatori internazionali, e che comunque ha parzialmente modificato il suo iniziale programma anti-israeliano) non si può trattare (magari quando Hamas sarà fuori gioco tratteranno con ciò che verrà dopo ossia Al Quaeda!), è utile per mantenere alta la tensione e la mobilitazione degli spiriti in attesa di quella delle armi.
La continua minaccia a paesi come Iran e Siria, invece di aprire con i moderati di tali Stati (e ve ne sono persino in posizione di rilievo governativo) canali di dialogo diplomatico, ha lo stesso scopo di non far scemare la tensione.

Fratelli in Cristo tra «fratelli maggiori» e «fratelli minori»

Nell’ultimo numero, del dicembre 2008, della rivista 30Giorni nella Chiesa e nel mondo, che sotto la guida di Giulio Andreotti in questi anni si è distaccata dal coro filo-usraeliano dando ampio spazio alle realtà spirituali cristiane, ebree ed islamiche in Medio-Oriente, è stato pubblicato un articolo del vescovo vicario apostolico d’Arabia, Paul Hinder, che narra de «Il Natale di Gesù nelle terre dell’Islam».
Un racconto commovente e per niente da «crociato bushista».
L’articolo si apre con una foto che ritrae una folla di povera gente cristiana in una chiesa orientale, araba probabilmente.
Gente raccolta in preghiera.
La semplicità, la devozione, l’amore per Cristo che traspare da quei volti è davvero commovente. Gente che a causa delle guerre di Bush ora non se la passa più tanto bene mentre prima, nell’Iraq di Saddam, aveva i suoi spazi giuridicamente garantiti.
Ebbene: se si è cattolici ci si può sentire più vicini a un protestante come Bush, «cristiano-rinato», che a gente come quella della foto in questione la cui storia di fede spesso ha radici apostoliche?!
Crediamo assolutamente di no.

E poi perché mai dovremmo sentire più vicini certi settori del rabbinato che ancor oggi usano nelle sinagoghe i racconti offensivi contenuti nel Talmud sulla Madonna e su Cristo («Jeshu Ben Pantera» ossia Gesù figlio della prostituzione di sua madre con il legionario romano Pantera) e non invece quegli islamici, non fondamentalisti e «spirituali», che recitano le sure del Corano nelle quali la Madonna è venerata come Sempre Vergine e Gesù come Verbo, o Segno, di Allah (11)?
D’accordo, sappiamo benissimo che per essi quelle sure significano altra cosa rispetto alla nostra fede nella Divino-Umanità di Cristo.
E tuttavia non possiamo dimenticarci della profezia di San Paolo sulla conversione finale a Cristo degli ebrei né della visione di Santa Caterina da Siena sui cristiani e mussulmani che, alla fine dei tempi, entrano, per due schiere separate, nel Costato aperto di Cristo.
Santa Caterina proclamava così profeticamente che alla fine la Salvezza per tutti è solo Cristo e che solo in Lui anche gli islamici troveranno la strada verso la salvezza, riconoscendoLo a tempo debito (12).
Ecco: di fronte alle paure del momento l’invito a tutti i cattolici è quello ad aver più fede e fiducia in Dio, secondo l’esortazione e la promessa di Nostro Signore Gesù Cristo: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Matteo 6,33).
Vi è un Suo disegno di salvezza universale che è incentrato su Cristo ed alla fine anche i «fratelli maggiori» ebrei e quelli «minori» mussulmani, che ora secondo quel disegno giocano la loro parte, entreranno, come e quando non sta a noi saperlo, nella via di Cristo.

Non saranno certamente gli immigrati islamici a far cadere la Chiesa o a far scomparire la fede cristiana dalle terre d’Europa.
Laddove essa è scomparsa (Europa del nord e Europa anglofona, ossia l’Europa protestante:
il protestantesimo non è annoverabile nella continuità apostolica) ciò è accaduto per altre cause. Laddove invece la fede cristiana sopravvive, tale sopravvivenza è già un evento che ha del miracoloso e provvidenziale.
Ed è da questo preservato seme, dal «pusillus grex», che ripartirà l’evangelizzazione, prima o poi.
Vittorio Messori ha recentemente fatto notare agli «allarmati» cristiani occidentali che tra qualche generazione anche i figli degli immigrati islamici, quelli che ora pregano in piazza Duomo, saranno arruolati nel popolo dei reality, del tifo calcistico, del mediasistem, vestiranno americano, mangeranno hamburger, e che le loro figlie aspireranno a fare le veline e letterine nelle TV di Berlusca.
Possiamo testimoniarlo anche noi per averlo visto di persona in quel di Monaco di Baviera, l’estate scorsa.
Donne islamiche che sono molto più emancipate delle nostre, che hanno fatto del velo e dell’abbigliamento islamico persino qualcosa di estremamente sensuale e provocante, che vanno a passeggio da sole anche nottetempo dandosi alla «movida» come e forse più delle occidentali (13).
Con Messori, diciamo che il vero  nemico comune di tutti noi, cristiani, islamici ed ebrei, naturalmente quelli che tra noi hanno ancora fede, è proprio questo occidente relativista e liberale
(il liberalismo, anche se Benedetto XVI non lo dice espressamente, è il relativismo in politica),
questo Occidente che della libertà ha fatto l’irresponsabilità etica nonché la sopraffazione e mercificazione dell’uomo, l’Occidente dell’economia finanziaria che brucia la sua stessa opulenza nella speculazione e, come dice il Papa, nell’avidità, l’Occidente dell’usurocrazia.
L’Occidente, per dirla con T. S. Eliot, del Potere, della Lussuria e dell’Usura.
E di questo Occidente, sul piano politico, l’alleanza «u-sraeliana» (USA + Israele) è l’asse portante.
Non vogliamo lo scontro di civiltà anche perché non vorremmo trovarci a dover difendere la civiltà delle veline e letterine.
Vorremmo invece un’Europa, ricristianizzata (e non secondo il metodo sociologico e relativista, quello delle religioni fai da te, che è il metodo americano che tanto piace oggi anche a troppi cattolici), che sappia aprirsi geopoliticamente, senza gettare alle ortiche la propria identità, anzi in nome di essa, al resto del mondo, ad iniziare dai nostri vicini dell’area euromediterranea, che, del resto, in buona parte, compresi i palestinesi, sono fratelli in Cristo.
Solo questo tipo di Europa cristiana può piacerci.
Non quella euroamericana cons e/o neocons.
Più che al presunto scontro di civiltà, che esiste solo nella propaganda di certi think tank oltreoceanici, l’attenzione nostra, di cattolici ed i europei, deve essere invece rivolta alla politica iniqua di uno Stato che, sulla scorta di una ideologia paranazista come il sionismo, si vuole etnicamente puro e che dunque esprime una concezione razziale, e non giuridica, quindi atavica, tribale e non cristiana, del concetto di «popolo».
Non a caso la proposta, tra l’altro poi sempre tradita anche questa, avanzata da Israele, e noachicamente ripetuta dai nostri Fini e Fassino, non è quella dell’unico Stato multietnico e multireligioso, dove la cittadinanza sia riconosciuta, con eguaglianza di diritti e doveri, sia agli israeliani che agli arabi, sia agli ebrei che ai cristiani ed ai mussulmani, ma è quella del «due Stati e due popoli» ossia di due Stati concepiti come etnicamente puri ed omogenei.
Alla radice dei guai vicino-orientali, molti israeliani onesti lo riconoscono, vi è anche, un «anche» molto pesante però, questa visione sionista delle cose.

Padre Mussallam e la sua preghiera. Cattolici con la C maiuscola ed i due pericoli da evitare

Nessun vuol sostenere che dall’altra parte non vi siano analoghe responsabilità.
L’arabismo nazionalista, oggi trasformatosi in o sostituito dall’islamismo fondamentalista, è per molti versi speculare, ossia eguale e contrario, al sionismo.
Ciò non toglie però che nella concreta situazione attuale il rapporto di forze, militare, politico ed internazionale, gioca tutto a favore di Israele.
Quel che più indigna è che la dirigenza di un popolo che nella storia ha molto sofferto possa poi trasformarsi in carceriere ed aguzzino di un altro popolo.
Questo, lo diciamo a rabbi Riccardo Di Segni, non è espressione presa dall’armamentario antiebraico, come afferma lui, è semplicemente espressione dell’Eterna Sapienza evangelica: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra!».
Non siamo solo noi a ritenere che Israele si comporti da Stato legibus solutus.
Condividiamo questa convinzione con Richard Falk, professore di diritto internazionale nonché ebreo americano, e con padre Manuel Mussallam, parroco dell’unica chiesa cattolica nella striscia di Gaza dedicata alla Sacra Famiglia (a Gaza passarono Giuseppe, Maria ed il Bambino nella loro fuga in Egitto per sfuggire ad Erode. Lo stesso che oggi sembra essere riapparso nelle divise del «glorioso» Tsahal).
Il primo gennaio scorso, Benedetto XVI, in san Pietro, ha ricordato pubblicamente, anche questo un segno della disapprovazione pontificia verso la politica di Israele, la «piccola ma fervente parrocchia cattolica di Gaza».
E’ noto che lo Stato di Israele nel perseguimento della purezza etnico-religiosa favorisce in tutti i modi, con le buone o con le cattive, più con le cattive che con le buone, l’emigrazione dei cristiani dalla Terra Santa.
Oggi molti temono che nel giro di qualche generazione la presenza secolare dei cristiani in Palestina sarà del tutto scomparsa.
Lo facciamo notare, incidentalmente, ai «crociati» in servizio effettivo permanente pro-Israele: dove non è riuscito l’Islam in passato, ammesso che esso volesse innanzitutto questo, potrebbe riuscire l’«alleato» israeliano.
Padre Mussallam ha denunciato l’insensata violenza di uno Stato che sta apertamente, e con il consenso dell’Occidente che si dice liberale, violando il diritto internazionale.
Il buon parroco si è poi detto indignato del sistema di menzogne messo su dal mediasistem occidentale che, raggiungendo anche Gaza, aumenta la rabbia dei palestinesi offesi anche sul piano della mera verità dei fatti oltre che nella loro dignità di persone.
Un sistema di menzogne che, per dirla con il vecchio ma saggio Catechismo di San Pio X, è cosa che «grida vendetta al cospetto di Dio».
Crediamo che a rabbi Riccardo Di Segni potrebbe molto giovare spiritualmente la frequentazione, ove mai ne avesse occasione, di padre Mussallam.
Ecco infatti la preghiera che ogni giorno il parroco di Gaza recita ad alta voce, in arabo, sotto le bombe nella sua piccola chiesa ciricaondato dal suo piccolo gregge ed anche da molti mussulmani ivi rifugiatisi: «Signore della Pace, piova su di noi la pace. Signore della pace, dà pace al nostro Paese, pace. Abbi pietà, o Signore, del tuo popolo. Ti preghiamo, fa che la tua eredità non venga derisa» (14).

Il premio Nobel per la Pace, l’irlandese Mairead Maguire, ha scritto al Segretario-generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, e al Presidente dell’Assemblea-generale delle Nazioni Unite, Miguel D’Escoto, aggiungendo la propria voce agli appelli dei giuristi internazionali, affinché l’Assemblea generale dell’ONU consideri seriamente la creazione di un Tribunale Criminale internazionale per Israele (ICTI) a seguito delle atrocità israeliane in corso contro il popolo di Gaza e del resto della Palestina.
Qui si parrà la «nobilitate» dell’ideologia umanitaria dell’Occidente post-anti-cristiano.
La veridicità, alla quale noi non crediamo, della liberaldemocrazia.
Se non sarà istituito alcun tribunale e non sarà effettuato alcun processo contro i crimini di guerra israeliani sarà palese a tutti quel che i giuristi non kelseniani già sanno ossia che il «diritto umanitario», il «costituzionalismo formale», sono solo dei paraventi per coprire ben chiari e ben più sostanziali rapporti di forza e di egemonia.
Per tornare alle varie reazioni dei cattolici, in particolare di quelli tradizionalisti, di fronte alla situazione della Terra Santa. Maurizio Blondet ha chiamato «cattolici con la C maiuscola» quelli che credono sia sufficiente conoscere a menadito i trattati di teologia per salvarsi (15).
Siamo completamente d’accordo con quanto il direttore Blondet ha in proposito affermato, pur ritenendo da parte nostra comunque importante che ciascun cattolico si prenda cura di una sempre migliore personale conoscenza della Fede anche sul piano teologico.
Quando Nostro Signore, parlando in parabola del buon samaritano, ha insegnato cosa è la Carità autentica, ci sembra che abbia voluto dire che non la si può costringere, sarebbe il caso di dire «talmudicamente», in confini etnici o confessionali.
Approvando la risposta della cananea, dunque, per la mentalità farisaica del tempo, di una «pagana» esclusa dal Patto abramitico («anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni», Matteo 15,27), ed esaudendo, ammirato della fede di quella donna, la sua richiesta
( «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri», Matteo 15,28), Gesù Cristo ha voluto chiaramente affermare, smentendo per l’appunto l’esegesi dei farisei che ritenevano l’elezione una questione di appartenenza etnica o di tradizione (umana), che è soltanto la Fede in Lui a salvare l’essere umano.
Fede che travalica le appartenenze e le identità o meglio apporta ad esse quel Soprannaturale che le santifica nell’Universale senza negarle ma anche senza chiusure esclusiviste.
Ma questa Fede si manifesta nell’Amore verso il prossimo, anche verso il non cristiano.
Senza per questo rinunciare a Cristo ed alla nostra identità cristiana.

I pericoli, dunque, dai quali i cattolici devono guardarsi oggi sono due: da un lato l’irenismo, un certo «ecumenismo irenistico», che è la notte nella quale tutte le vacche sono nere ossia, fuor di metafora, l’indifferentismo che annulla le reciproche identità, e dall’altro lato, all’opposto ma in dialettica complementarietà con l’irenismo relativistico, una sorta di «integralismo occidentalista», quel che Remì Brague ha chiamato «cristianismo», che fa della identità una mazza ferrata, a servizio di un progetto di egemonia geopolitica, da brandire contro i non occidentali.
E’ questa la logica, lo ribadiamo ancora una volta, indotta - senza bisogno per questo delle logge, bastano i media - dello «scontro di civiltà».

Cristianamente non si può indulgere né all’uno né all’altro errore e bisogna evitarli entrambi.
Del resto la nostra unica vera radice è Cristo, che è la Vite di cui noi siamo i tralci.
Ma in Cristo ogni identità non si perde ma si adempie e si ritrova.
Allora, quello che noi cattolici dobbiamo, dovremmo, proporre è il modello dell’impero sopranazionale (non - si badi - «transnazionale» che ne è la contraffazione moderna) del quale i secoli medioevali ci hanno saputo dare esempi concreti.
Il modello romano-cristiano di una tolleranza plurietnica e plurireligiosa che non negava la centralità della fede cristiana ma inglobava, certamente tra alti e bassi e non senza tensioni soprattutto a livello popolare, le altre identità senza però dissolverle.
Un modello che rendeva ad esempio possibile che alla corte dei Papi vi fossero medici ed astrologi ebrei e nelle corti regali anche dotti islamici.
Ma sia il Papa che l’imperatore ed i re non per questo rinunciavano a Cristo ed al suo primato.
Un modello che non è neanche tanto lontano nel tempo, essendo in fondo scomparso soltanto nel 1918 con la fine dell’asburgica «Austria Felix», e che è stato capace di convivere con la modernità duttilmente adattandosi alle nuove esigenze che lo scorrere dei tempi gli avevano posto di fronte.
Questo è, per l’Europa, il modello da tenere presente e da tentare di reinverare in forme inedite dove e come possibile anche nel futuro.
Altrimenti o vincerà il modello liberal-massonico del relativismo indifferentista o quello giacobino giurisdizionalista che riduce le fedi, tutte le fedi, a fatti privati senza incidenza pubblica o sociale o, peggio che mai, vincerà il modello conflittuale, e per di più artificiale, dello scontro di civiltà.

In conclusione

Per concludere, vogliamo ribadire ancora una volta, soprattutto a coloro che hanno balzane idee circa un presunto antisemitismo cristiano, che noi cattolici amiamo gli ebrei perché sono stati loro a portare la Luce al mondo, ossia Cristo.
Quel che i cattolici non possono ammettere, come invece vogliono i rabbini e come oggi concedono certi prelati che non si rendono conto di scherzare con il fuoco, è la pretesa valenza messianica dell’Israele post-biblico, nonché, il che è lo stesso, riconoscere validità all’esegesi giudaica post-cristiana della Scrittura.
Perché ammettere questa valenza messianica o riconoscere questa esegesi significa dire che Cristo non è Dio né Messia e che il Cristianesimo sarebbe stato un errore o al più un equivoco durato duemila anni.
Noi cristiani non possiamo sostituire il Calvario con Auschwitz, secondo la prospettiva esegetica  del «messia collettivo» sofferente per aprire l’era messianica dopo l’impero del «male assoluto», benché riconosciamo senza indugio che anche la sofferenza degli ebrei nei lager, come la sofferenza di qualunque uomo a qualsiasi latitudine ed epoca appartenga, è certamente partecipazione alle sofferenze salvifiche di Cristo Redentore.
La Chiesa non dovrebbe aver paura di ricordare con chiarezza e franchezza, innanzitutto ai «fratelli maggiori», quanto abbiamo testè detto, anche se la sinagoga dovesse, per tutta risposta, strillare accusandola di «antisemitismo».
Negata fermamente ogni concessione al «messianismo» post-biblico di Israele, diciamo di essere d’altro canto anche convinti che in molti settori dell’ebraismo vi siano in atto, oggi come vi sono stati nei secoli passati, passi, magari inconsapevoli, verso Cristo, come nel caso dei Neturei Karta o di quel grande «rabbino che si arrese a Cristo» che fu Israel Zolli.
Esempi che, insieme a quello di molti altri ebrei convertiti, come Alphonse De Ratisbonne ed Edgardo Mortara, costituiscono la prefigurazione del futuro pienamente cristiano degli ebrei puri di cuore.
Lo stesso può dirsi anche per gli islamici puri di cuore, tra i quali diversi hanno già trovato la via di Cristo.

La fonte dell’Amore Divino, che è la Fonte della Vita e della Verità, è solo Nostro Signore Gesù Cristo e tutti coloro che cercano con sincerità tale fonte prima o poi si imbatteranno inevitabilmente in Lui.
                                                                                                  
Luigi Copertino



1) Di questa vicenda è rimasta un’eco persino nel Corano nella sura LXXXV Al-Burûj
Le Costellazioni.
2) Ecco come la vicenda è stata ricostruita, domenica 4 gennaio scorso, da Miguel Martinez sul suo blog www.kelebek.it: «Riccardo Pacifici, i massacri di Gaza e il trucco mediatico degli ‘aiuti’. ‘Il Manifesto’ di oggi ha pubblicato, a pagina 4, un trafiletto incredibile, che trovo sulla rassegna stampa dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Il trafiletto è scritto con i piedi, in gran fretta e non si capisce bene nemmeno quale sia la fonte. Che sembra sia una mailing list sionista. Visto che ci vanno di mezzo - finora - alcune migliaia di palestinesi arsi vivi, accecati, azzoppati o sepolti sottoterra, credo che sia giusto fare qualche violazione della privacy. Ricostruisco così. In una mailing list di sostenitori di Israele, Riccardo Pacifici, che ha vinto le elezioni interne alla comunità ebraica italiana con una lista spudoratamente intitolata ‘Per Israele’, annuncia che l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) e la Comunità ebraica di Roma doneranno 300 mila euro alle vittime della guerra in corso a Gaza (200 milioni ai palestinesi, 100 milioni agli israeliani). Insorge un italo-israeliano di destra, tale Shimon Fargion, furibondo all’idea di aiutare pure i palestinesi. Pacifici gli risponde, dicendo che si tratta di un  trucco mediatico, concordato in anticipo con l’ambasciata israeliana: ‘Posso garantirvi - scrive [Pacifici] - che la scelta tutta mediatica di far arrivare medicinali ai bambini palestinesi e israeliani era ed è solo utilizzata per quando da lunedì comincerà la nostra battaglia sui media a sostegno di Israele.’ E per il 10 annuncia ‘un megaevento’ da 1.500 persone selezionate con l’ambasciatore di Israele per spiegare le ragioni di Israele e il suo diritto a fare questa guerra. Pacifici giura che la Comunità romana non ha tirato fuori ‘neanche un euro’ per quei medicinali, donati ‘da un’organizzazione ebraica internazionale’ e garantisce ‘che comunque non arriverà un solo medicinale a Gaza che non sia autorizzato dal Governo di Israele’. Si potrebbe dire che Riccardo Pacifici, preso da machiavelliche ragioni di Stato, sia poco umano. E invece no. Dimostra tutta la spontanea ricchezza del proprio carattere, rivolgendosi così a Shimon Fargion: ‘Caro testa di cazzo... dammi il tuo indirizzo così ti vengo a prendere a calci nel culo... io qui per Israele mi faccio un gran culo e vivo sotto scorta... STRONZO... Sappi che ho fatto tutto insieme all’ambasciata d’Israele... Che cazzo ne sai cosa stiamo facendo? STRONZOOOOOOOO’.» Un linguaggio molto colorato, non c’è che dire.
3) Confronta A. S. Levi di Gualdo, «Erbe Amare - il secolo del sionismo», Bonanno editore, Acireale - Roma, 2007.
4) Le citazioni di André Chouraqui sono tratte da L. Fazzini, «L’odio di Hitler verso ebrei e cristiani», in Avvenire del 6 dicembre 2009.
5) Confronta D. Savino «Piombo fuso» e «E ora fosforo bianco», in www.effedieffe.com.
6) Sulla Merkavà, il suo senso originario e la sua deformazione cabalista, ha scritto pagine interessanti il teologo tradizionalista Julio Meinvielle in «Influsso dello gnosticismo ebraico in ambiente cristiano», Sacra Fraternitas Auriganum, Roma, 1995.
7) Confronta Rabbi Y. Ginsburgh, in «Jewish Week», 26 aprile 1996.
8) Confronta G. Scholem «L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica», Adelphi, Milano, 2008.
9) Abbiamo trattato di questi argomenti nella nostra relazione all’Università d’Estate della repubblica di San Marino, edizione 2007, ora nei relativi atti AA. VV. «Imperia - esperienze imperiali nella storia d’Europa», Il Cerchio, Rimini, 2008. Rimandiamo ad essa per un maggior approfondimento di questi nostri convincimenti.
10) Pur figli obbedienti di Santa Romana Chiesa e di Benedetto XVI, attuale regnante Pontefice, siamo convinti che la simpatia nutrita dal Papa per il modello americano derivi da una sua personale e privata convinzione professorale. Quella che lo porta a ritenere il liberalismo come «cristianesimo secolarizzato» da ribattezzare. Ci permettiamo, non trattandosi di materia dogmatica né di materia del Magistero, di considerare illusoria questa convinzione proprio da un punto di vista «teologico-politico». Il liberalismo reale non è quello ideale sognato dal teologo Ratzinger, e da tanti catto-liberali, e soprattutto, essendo la radice del relativismo, esso non è battezzabile. Forse, un certo tono prudente del Pontefice circa gli eventi di Terra Santa deve essere compreso anche alla luce della convinzione professorale alla quale stiamo accennando. O forse, la cosa è ben più che plausibile, potrebbe esservi anche dell’altro, qualcosa di indicibile, ed a noi impossibile da accertare, che limita la libertà del Pontefice. Qualche ricatto u-sraeliano? Non a caso il gonfiato scandalo dei preti pedofili in America è scoppiato quando Giovanni Paolo II non ha voluto benedire la guerra di Bush in Iraq. A proposito del rapporto fede/ragione e dei fondamenti ellenistico-cristiani della razionalità, Andrea Padovani, docente di filosofia dell’Università di Padova, ha scritto in una chiave ermeneutica che non astrae dalla concretezza della storia, spesso accantonata dai catto-neocons: «… la razionalità - teoretica o pratica che sia (con tutte le implicazioni etiche, politiche, economiche, giuridiche, etc.) - non può essere colta nella dimensione astratta, ma nella sua laboriosa genesi storica, dunque entro uno spazio fisico e temporale ben individuato. (…). Ora, proprio il rifiuto del Logos universale ha segnato l’avvento del multiculturalismo come orizzonte intranscendibile (sicché) occorrerà avere chiara consapevolezza del fatto che, appunto, la ragione di cui facciamo uso non è mera facoltà concepita in termini universali ed astratti, al modo degli illuministi (ma anche, aggiungiamo noi, dei pre-illuministi riformati, ndr). Essa, piuttosto, si rivela storicamente orientata, modellata… da una tradizione ch’è, in radice, greco-romana ed infine cristiana. Avere misconosciuto questa semplice constatazione ha condotto ad errori clamorosi, quali la pretesa di esportare modelli politici, giuridici, economici a nazioni di cultura spesso assai distante da quella occidentale. Di qui, le crisi di ‘rigetto’ che le pagine dei giornali e la televisione ci documentano quasi quotidianamente. Se l’Islam ha optato, da secoli, per una fede che esclude la riflessione filosofica, è peraltro innegabile che l’Occidente s’è posto per una via che conduce, nelle sue linee prevalenti, ad una paralizzante estenuazione del pensiero. Nel rifiuto del ‘grande satana’ - l’Occidente - , ben più che l’opposizione all’assetto economico capitalistico, agisce il rinnegamento di un modello culturale che tende a svuotare la componente spirituale dell’uomo. Per altro verso, però - poiché i soggetti di un contrasto finiscono fatalmente per assomigliarsi - il terrorismo islamico affianca a rappresentazioni mitiche, integraliste ed antimoderne, metodi di lotta che utilizzano le tecnologie sofisticate, strategie assimetriche, informali, a raggio planetario. Esiste il rischio concreto che il confronto tra i due mondi sia sequestrato, con esiti devastanti, da due nichilismi» (confronta A. Padovani «La laicità al bivio», in AA.VV. «Linfa antica per la nuova Europa - radici culturali e spirituali dell’Europa unita», Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini, 2007, pagine 63-68). La persona è una scoperta del Cristianesimo nella sua continuità apostolica. Laddove tale continuità non c’è, come in ambito protestante, il Cristianesimo viene derubricato a morale sociale secolarizzata riducendosi ad mero «umanitarismo» liberale. Se la Chiesa continua a parlare di «diritti umani universali» senza previamente risolvere in termini chiari ed espliciti questa aporia storico-teologica, ossia senza nascondere l’impossibilità in chiave liberal-protestante di una fondazione metafisica del diritto di natura, continuerà sempre più a dare la sconsolante impressione di essere una sorta di vecchio prototipo dell’ONU ormai inservibile nell’ambito del mondo attuale e da riporre, benché con tutta la venerazione dovuta ad un antico cimelio, nel museo dei tentativi umani verso la pace universale. Questo è il grave problema epocale della Chiesa all’inizio del XXI secolo e che nelle parole del Santo Padre spesso trapela laddove fa capolino l’illusione di convertire il liberalismo. Si cerca, infatti, a tutti i costi di rendere cattolica la democrazia liberale, forse memori dei problemi del passato cristiano, ma poi si finisce sempre per cozzare contro la dura realtà del fatto che essa, la democrazia liberale, è fondata proprio sul relativismo. Non a caso Benedetto XVI ha dovuto spesso precisare che i diritti umani senza Dio sono un mero flatus vocis e che la globalizzazione altro non è che speculazione globale che rovina tutti, Occidente e resto del mondo. Quel che però non ancora sentiamo dire dal Santo Padre è che il Dio che è il vero fondamento dei diritti umani è solo il Dio cattolico e non quello della contraffazione deista dei costituenti americani.
Il Santo Padre è stato molto ferito dalle sue esperienze giovanili (e chi non lo sarebbe stato al suo posto?). Benedetto XVI, sotto questo profilo, (il che è secondo me un problema di tutta la Chiesa in questo momento storico) è un uomo del XX secolo che guarda al totalitarismo, comunista e nazista, come al nemico principale, ormai tramontato. Che si tratti di una visione in qualche modo retrospettiva è confermato anche dall’interpretazione che, a suo tempo, da cardinale Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, diede del cosiddetto «terzo segreto di Fatima» come di una rivelazione ormai del tutto chiusa all’interno del XX secolo. Da tale atteggiamento consegue inevitabilmente una lettura «crociana» della storia recente come lotta tra il totalitarismo anti-umano e la preferibile liberal-democrazia della quale, mediante una conciliante interpretazione cristiana, la Chiesa dovrebbe cercare l’alleanza. Invece noi riteniamo che il nemico principale sia oggi altrove. E’ in quel relativismo, il cui esito è poi il nichilismo. Relativismo dal Papa giustamente denunciato ma, è il nostro giudizio, solo a metà ossia solo sul piano teologico: infatti non si può, cattolicamente, non dire che la radice del relativismo è nel protestantesimo e che non esiste nulla di più relativistico della democrazia liberale non giacobina. Quella appunto americana. La gerarchia, attraversando oggi la Chiesa un momento di grave sbandamento, sembra volersi attaccare, come ad una insperata ancora di salvezza, alla presunta religiosità americana, senza chiedersi però di quale religiosità si tratti e nascondendo innanzitutto a se stessa che quella americana è una religiosità intimistica e soggettivistica, del tutto inconciliabile con la fede cattolica. In futuro la gerarchia capirà, ne siamo certi anche se non possiamo dire come e quando, che si tratta di una speranza vana mossa da umane paure e che la salvezza vera, l’unica vera salvezza, alla Chiesa viene sempre dal Suo Sposo e non dalle alleanze politiche, neanche da quella con la liberal-democrazia.
11) Riportiamo dall’opera, pagine 168-173, di A. S. Levi di Gualdo citata alla precedente nota 3: «Numerosi studiosi ebrei moderni ritengono conveniente gloriare l’ebraicità di Gesù, senza però rammentare che sino a un paio di secoli fa, ad affermare che Costui era un Figlio del Popolo d’Israele… si correva il rischio d’esser condannati alla pubblica fustigazione dal Tribunale Rabbinico. Secondo il Talmud, Gesù fu giustiziato perché incitava gli ebrei all’idolatria e al disprezzo verso la legittima Autorità rabbinica. Le fonti ebraiche classiche che parlano della esecuzione di Gesù se n’assumono con gioia la responsabilità e, per quanto riguarda il governatore romano e i romani in generale, in quei testi non sono neppure rammentati. A dispetto di ciò, le moderne scuole rabbiniche e molti illustri autori ebrei, si reputano tutt’oggi diffamati dai cattolici che per secoli accusarono il popolo d’Israele di deicidio, un’accusa cancellata dalla teologia cattolica con encicliche papali e profonde scuse profuse dal magistero cattolico al popolo ebraico, tant’è umano e ovvio il fatto che né un popolo, men che meno i discendenti di quel popolo, possono essere ritenuti ad alcun titolo colpevoli della morte di un giusto messo a morte dal braccio secolare romano, …istigato dal Gran Sinedrio. Dotato di gran tempra profetica, Rabbi Yeshu seppe farsi messaggero di fede e spese la sua esistenza per riportare i suoi fratelli ebrei ai valori etici della Torah e della Tradizione dei Profeti. Il suo spirito ebraico si estende dai passi evangelici che ne riportano la predicazione: ‘In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra non passerà neppure uno iota o un segno della Legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei Cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei Cieli’. E chi erano coloro che, con le loro interpretazioni legali, giocavano ad alterare la Legge attraverso responsi umani? (…) certi autori dovrebbero ricordare che il profeta venerato dall’Islam è dichiarato immondo dai maestri ebrei, che lo hanno sepolto con Gesù tra i rifiuti in mezzo alle carcasse dei cani e degli asini, dove sono sepolti i cadaveri dei cristiani e dei mussulmani. Per questo il libro dello Zohar, come il Talmud dato alle fiamme dai cristiani, fu requisito e bruciato dai mussulmani. La Tradizione islamica, oltre a Gesù profeta, riconosce anche la figura della Beata Vergine Maria. Diversa l’opinione di certi maestri ebrei che dipingono la Madonna a tinte forti, narrando che Gesù è finito condannato a perire all’inferno tra escrementi bollenti. Altrove si narra che Gesù era un bastardo figlio di prostituta concepito durante il periodo d’impurità di sua Madre. Per non parlare dei vari libelli redatti sulla scia del Talmud, come le Toledoth Jeshu, risalenti all’epoca medioevale, prive di ogni valore storico, ma stillanti feroce odio dissacratorio verso la Cristianità. Tuttavia può essere che la moderna vittima ebrea non abbia mai letto certe pagine, essendo troppo impegnata a sollevare accuse contro la Chiesa tiranna che bruciò il Talmud; o forse è troppo presa a girare per le sale di conferenza a bollare come antisemiti gli evangelisti che narrano l’ipocrisia dei farisei. (…). E’ vero che nel XIII Secolo la Chiesa cattolica ordinò di ‘affidare il Talmud alle fiamme purificatrici’, ma andrebbe anche riportato che negli scritti talmudici i florilegi osceni abbondano: i santi cristiani sono chiamati effeminati, le sante puttane, il sacrificio eucaristico offerta di sterco. Un passo talmudico esorta: ‘Colui che li vede defecare - offrire il sacrificio di fronte al loro idolo- deve dire: colui che sacrifica a un idolo, sia completamente distrutto’ (Talmud di Gerusalemme: fol. 13b. La citazione del secondo periodo è tratta da Esodo XXII, 20). Il Talmud  dato alle fiamme è un episodio riportato con lamento da stuoli d’autori ebrei ma soprattutto dagli utili goy che si sono messi anima e cuore a servizio della politica sionista, settari più di quanto non lo siano gli ebrei che militano nel Sionismo politico. Quando questi autori narrano il fatto e additano la Chiesa cattolica moderna al pubblico spregio, di rigore omettono - chissà se per ignoranza o malafede - ogni menzione a quel che d’ingiurioso è stato scritto nel Talmud sui cristiani e i loro sacramenti di fede. Né questi autori fanno cenno che l’orrido rogo nacque quando vari ebrei fuggiti dal dispotismo delle loro comunità si convertono al Cristianesimo e cominciano a rivelare i contenuti della letteratura rabbinica, di cui molti erano studiosi. Prima di questi fatti, la Chiesa ignorava quasi del tutto il Talmud; furono gli ebrei a fornirle le fascine e la torcia incendiaria. Appena due secoli dopo, i peggiori inquisitori spagnoli di fine Quattrocento erano in gran parte ebrei convertiti al Cristianesimo, zelanti come mai lo fu alcun cristiano a torchiare i talmudisti, che in pubblico ammaestravano a rispettare i propri simili come comanda la Torah, in privato partorivano interpretazioni per istruire che era da considerare proprio simile solo l’ebreo come comanda il Talmud in vari passi. E all’occorenza punivano coloro che non si mantenevano a dovuta distanza dagli adoratori del ‘porco’ ossia Gesù, pronunciato il cui nome era recitato di rito: ‘Perisca il nome dell’infame!’. Se nella Torah si esorta all’amore verso il prossimo in certi passi talmudici, dove più che uno iota è stato cambiato tutto l’alfabeto, quest’amore muta un po’ di forma: ‘Quando le donne ebree escono dal bagno rituale, devono cercare di incontrare un amico per primo, non un essere immondo (un cristiano). Ma se casualmente lo incontrano, per mantenersi pulite dovranno tornare a fare il bagno’ (Iorè Deah, 198, 48, Hagah). Norme analoghe si trovano anche nei commentari allo Shulkhan Arukh, il gran trattato legislativo scritto nel XVI Secolo dal Rabbino Iosef Caro, che certi gaudi li vergava al tempo in cui altrove si mietevano i frutti del Rinascimento. Per difendersi dai contenuti di testi destinati a creare imbarazzo presente, andando agli incontri d’amicizia ebraico-cristiana diversi rabbini narrano che certi vituperi sono stati cancellati dal Talmud. Dicono il falso. Dopo che i cristiani principiarono a reagire appiccando fuoco al Talmud, i riferimenti alle persone furono sostituiti con appellativi vaghi. I rabbini ritoccarono i passi ostili al Cristianesimo ma senza mai cessare la trasmissione delle parti omesse. Dopo la nascita del moderno Stato d’Israele, i talmudisti si sentirono al sicuro, ed in breve ristabilirono tutti i passi eliminati. Nella moderna ristampa del Talmud in uso nelle principali scuole rabbiniche israeliane troviamo intatti tutti gli antichi florilegi, come il precetto in cui s’invita ogni ebreo che passa davanti ad un cimitero a benedirlo se è un cimitero ebraico, ed a maledire le madri dei defunti se è un cimitero non ebraico. Presso le moderne scuole rabbiniche israeliane esistono opuscoli che riportano per estratto tutti i responsi anticristiani dei talmudisti, evitando agli studenti di andarli a cercare in qua e là con inutile dispendio di tempo. Tra le varie esortazioni di precetto il Talmud invita a bruciare ogni esemplare dei Vangeli quali libri d’immonda empietà. Questo insegnamento fu applicato il 23 marzo 1980, quando centinaia d’esemplari del Vangelo furono bruciati a Gerusalemme ‘sotto gli auspici del Yad Lekahim’, un’istituzione finanziata dal ministero della Religione dello Stato d’Israele. Quella pira fu peggiore del vecchio rogo del Talmud, considerati i tempi e i mutamenti intervenuti nella storia dell’uomo durante il correre di sette secoli. Presentare ai giorni d’oggi certe invettive talmudiche come Verbo di Dio è il danno peggiore che taluni ebrei possono recare a se stessi e alla propria Tradizione. Certi attacchi contenuti nei testi antichi nascono da dispute religiose ebraico-cristiane condotte attraverso dei botta e risposta aggressivi mirati a difendere le rispettive verità di fede. In quei tempi lontani la parola polemica non voleva dire confrontarsi, bensì difendersi distruggendo l’uno le basi di fede dell’altro». Osservazione, quest’ultima, giustissima che ci consente di rammentare che proprio rabbi Riccardo di Segni ebbe, qualche anno fa, a scrivere un’opera sulle Toledoth Jeshu, «Il Vangelo nel ghetto», nella quale porta avanti la tesi stentatissima circa la natura di replica e di difesa di quei libelli, ingiuriosi verso Cristo, a fronte delle persecuzioni cristiane anti-ebraiche in età medioevale, ossia nell’epoca della loro elaborazione. In realtà è ampiamente dimostrato che nelle Toledoth Jeshu furono codificate, per essere organicamente raccolte, narrazioni anticristiane risalenti a molti secoli prima dell’età delle persecuzioni medioevali. Che l’ingiuria, rivolta poi anche dal Talmud e dalle Toledoth Jeshu a Cristo ed alla Madonna, circa la nascita adulterina di Gesù sia stata addirittura coeva alla predicazione del Signore è dimostrato anche dal fatto che di essa vi è traccia persino nei Vangeli (Giovanni 8, 41: «Gli risposero: ‘noi non siamo nati da prostituzione…’ »). Diciamo questo non certo a giustificazione della mancanza di carità da parte dei nostri avi cristiani, spesso dimentichi, di fronte alle offese talmudiche, delle preghiera di Gesù morente sulla Croce «Padre perdonali, perché non sanno quel che fanno» (Luca 23,34), e neanche per nascondere che di letteratura cristiana antiebraica, altrettanto immonda di quella talmudica anticristiana, gli archivi storici sono pieni, ma soltanto per ristabilire il giusto ed obiettivo ordine storico-temporale delle origini del conflitto tra Chiesa e sinagoga. Infatti la responsabilità maggiore alle origini del conflitto è senza dubbio da attribuirsi alla sinagoga che all’epoca era in una posizione di forza, anche legale, rispetto al debole cristianesimo nascente, quest’ultimo privo, a differenza della sinagoga, di qualsiasi protezione da parte delle autorità romane. E’ dimostrato, dalle ricerche di Marta Sordi, Ilaria Ramelli ed Ennio Innocenti, che tra le principali cause che scatenarono le persecuzioni neroniane ci fu anche la pressione anticristiana, oggi diremmo l’azione di lobby, che la sinagoga esercitò sull’imperatore incendiario per mezzo di sua moglie Poppea allieva giudaizzante di alcuni maestri ebrei romani.
Sappiamo del resto che il sangue cristiano, con il martirio di Stefano, fu sparso immediatamente da parte del Sinedrio. Quel che da parte nostra è d’obbligo riconoscere è, come detto, il fatto che ci è poi spesso mancata, quando le posizioni di forza si rovesciarono a nostro favore, la capacità del perdono. Comunque la Chiesa, nonostante i roghi del Talmud, a differenza dei regni laici e sovente del popolino adirato a torto o a ragione contro gli ebrei, a volte meri capri espiatori, per motivi economici, esercitò sempre grande prudenza e carità nei confronti degli israeliti. Naturalmente la carità non escluse per niente la volontà di controllarli sia per motivi di ordine pubblico, ovvero impedire le violenze popolari antiebraiche, sia per finalità di apostolato, ovvero facilitarne o anche a volte maldestramente forzarne la conversione. Praticata, questa della misericordia vigilante, che non deve oggi, moralisticamente, scandalizzare perché era del tutto conforme alla mentalità dei tempi.
12) Confronta Franco Cardini «La Croce, la spada, l’avventura - Introduzione alla crociata», Il Cerchio - Itaca, Rimini, 2000. Alle pagine 105 e 106, capitolo 11, di tale opera, l’autore scrive:
«Ma c’era anche una componente religioso-popolare e una mistica che favoriva la crociata: ne era esponente straordinaria, verso la fine del XIV secolo, Caterina da Siena. A tal proposito incalzava il Papa affinché si decidesse ad abbandonare Avignone - dove la corte pontificia risiedeva dai primi del Trecento - per rientrare in Roma; da lì sarebbe stato possibile avviare seriamente una riforma della Chiesa e con essa un intimo rinnovamento della società cristiana. La crociata era, nel pensiero di Caterina, intimamente connessa a tale rinnovamento: per paradossale che ciò possa oggi parere, essa era sentita anzitutto - non solo dalla Santa - come opera di pace. La proclamazione del divieto solenne di guerre intestine alla Cristianità era il primo passo verso l’atto del bando di crociata: era sulla base della fratellanza e dell’amore che si andava contro l’infedele:
ma Caterina pensava anche ai mussulmani, pregava per la loro conversione e in una celebre visione li scorse entrare - in una schiera separata dai cristiani - nel Costato del Salvatore». 
13) Naturalmente non stiamo dicendo che le donne devono portare il velo o il burqa. Anzi cogliamo l’occasione per ricordare che uno dei segni che maggiormente hanno evidenziato, durante la Sua missione terrena, la Divino-Umanità di Cristo è il suo essere stato assolutamente non riconducibile negli stretti ambiti della mentalità misogina, sia ebraica che pagana, tipica dei suoi tempi. Infatti, secondo le categorie proprie dell’antropologia, della sociologia e della storia è cosa del tutto impossibile che in quei tempi per un uomo qualsiasi, modellato nel comportamento sociale dalla propria cultura di appartenenza, si badi che in fondo è così ancora oggi per tutti noi, manifestare una totale libertà di giudizio e di azione nei modi propri manifestati da Cristo (si pensi, solo per fare un esempio, all’episodio della lapidazione dell’adultera). Non si ragioni in proposito anacronisticamente con la mentalità odierna: nei tempi precristiani l’idea di una soggettività compiuta della donna era del tutto impensabile. Il rapporto da Cristo instaurato con l’universo femminile è unico nel panorama culturale, sociale e religioso dell’umanità del tempo. La proclamazione della parità spirituale e di natura tra uomo e donna, condizione necessaria affinché con un pur lento sviluppo storico si raggiungesse poi anche la parità giuridica, è un portato teologico, normativo e storico del Cristianesimo. Lo riconosce anche una femminista certamente non tenera con i cristiani come Ida Magli: la Chiesa, nel corso dei secoli, sia donando alle donne specifiche vie religiose, compresa la clausura, per non parlare - aggiungiamo noi - della grande mistica cristiana al femminile, sia con il fare di esse liberi soggetti giuridici del patto nuziale, cristianamente invalido senza libera volontà di entrambi i nubendi, ha ampiamente favorito l’emancipazione della donna dall’autorità dell’uomo, padre o marito. Autorità alla quale nel mondo antico, anche quando nell’età imperiale romana essa si era addolcita nelle forme giuridiche, la donna non poteva sottrarsi, dal momento che, appunto, le donne non erano affatto soggetto quanto piuttosto oggetto del matrimonio (presso tutte le culture arcaiche, non solo nella Roma più antica ma anche in culture arcaiche a noi temporalmente più vicine, si pensi per esempio ai pellerossa americani, il matrimonio altro non era che la «compravendita» della donna, la quale passava dal padre al marito come una merce, come un capo di bestiame).
14) Confronta Giovanni Cubeddu, inviato della rivista 30Giorni, su La Stampa, «La guerra di Natale a Gaza - Una testimonianza dalla terra di Hamas. Parla padre Manuel Musallam, l’unico sacerdote cattolico di rito latino presente nella striscia di Gaza».
15) Confronta Maurizio Blondet «Il samaritano norvegese ed altre parabole», in www.effedieffe.com


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