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Sionismo è pulizia etnica
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Herzl tracciò una doppia strategia, la prima da attuare verso i pochi grandi proprietari terrieri e l’altra, alla massa dei poveri nullatenenti.

«I proprietari terrieri verranno dalla nostra parte», scriveva: «Sia il processo di esproprio che la rimozione devono avvenire con circospezione e discrezione. (...) L’esproprio volontario sarà compiuto da nostri agenti segreti. La Compagnia pagherà prezzi eccessivi» per le terre. «Lasciamo che i proprietari immobiliari credano di starci ingannando, vendendoci le cose a più del loro valore. Ma noi non rivenderemo loro più niente».

Questo per i latifondisti. Quanto agli altri, «proveremo a far sparire la popolazione senza mezzi oltre confine procurando loro impiego nei Paesi di transito (sic) e allo stesso tempo negando loro ogni occasione di lavoro nel nostro Paese».

Dunque già nel 1895 Herzl progettava di costringere i palestinesi poveri all’esodo «volontario», negando loro i mezzi di sussistenza nel Paese. Anche la strategia dell’acquisto segreto di proprietà immobiliari è poi stata sempre applicata, e continua ad essere applicata ancor oggi per occupare le case palestinesi nella vecchia Gerusalemme.

Lo Stato ebraico vieta ai proprietari di restaurare quelle case, cadenti e bisognose di manutenzione; negli anni recenti in cui Arafat aveva per contro vietato ai palestinesi di vendere le loro case ad israeliani, l’ostacolo era aggirato da «compagnie» estere, spesso con denominazione cristiana, che si offrivano di acquistare gli immobili in rovina e non riadattabili, spesso per un prezzo superiore al loro valore. Risultava poi che queste compagnie fantomatiche erano di «agenti segreti» della lobby.

Una volta compiuto l’acquisto, aggiungeva Herzl, «le proprietà terriere saranno scambiate solo tra ebrei».

Da abile avvocato, Herzl si rendeva conto che sarebbe stato giuridicamente difficile sancire apertamente non valida la vendita a non-ebrei. Ma ciò si può ottenere con il controllo dei prezzi.

«Se il proprietario vuole vendere la proprietà, avrà il diritto di ricomprarla al nostro prezzo di vendita originario». Ossia al prezzo «eccessivo».

Trovo questa informazione nel saggio di Chaim Simons, «A historical survey of proposal to transfer Arabs from Palestine, 1895-1945», reperibile anche su internet. Simons è un rabbino israeliano, favorevole alla pulizia etnica, che ha voluto raccogliere tutte le dichiarazioni dei grandi sionisti a favore della «rimozione»; per dimostrare che si trattava di «una direttiva politca definita» e fedelmente perseguita da tutti i veri sionisti. Un libro prezioso, perchè contiene la storia di un secolo di manovre occulte, di trame segrete, di contatti con i più alti livelli del potere mondiale con cui la lobby sionista ha raggiunto il suo scopo. Una fonte inestimabile.

La Fabian Society

Per esempio, la manovra per guadagnare al progetto la Fabian Society: colonna dell’imperialismo britannico dell’ala «progressista», strumento fra i primi del progetto del governo mondiale, la Fabian Society si proponeva essa stessa uno scopo occulto, quello di instaurare un socialismo tecnocratico logorando il capitalismo con riforme graduali – volte a svuotare la proprietà delle imprese per trasferirla a manager stipendiati. Il «fabianesimo» è il socialismo dei ricchi, in parte ancora promosso dalla London School of Economics.

Ebbene: nel dicembre 1915, Israel Zangwill – un altro padre fondatore del sionismo – tenne una conferenza davanti alla Fabian per convincere quei potenti, illuminati e massonici signori della necessità di espellere gli arabi dalla Palestina.

Zangwill lamentò che nonostante l’accelerazione degli insediamenti ebraici in Palestina (allora parte dell’impero ottomano), la popolazione ebraica laggiù contava solo centomila membri, che possedevano solo il 2% delle terre: «Troppo pochi interessi stabiliti per poter reclamare il suolo su una base di Realpolitik», deplorò. Anche se il Paese fosse passato sotto la sovranità britannica, il ritorno degli ebrei sarebbe rimasto difficile.

«A meno che gli arabi non se ne vadano marciando in Arabia, o siano pacificamente espropriati, qualunque governo fondato su basi democratiche costituzionali finirebbe per essere non già un’autonomia ebraica, bensì un’autonomia araba».

Sicchè già Zangwill poneva il problema della mai superata ambiguità dello Stato ebraico, che pretende insieme di essere «democratico» e razziale, via apartheid. Che fare?

Zangwill poneva la questione a quei potenti signori. Era ancora lontano il tempo in cui Sion, super-armata, avrebbe potuto prendersi la terra «su una base di Realpolitik». I potenti signori fabiani espressero piena adesione al bisogno del povero piccolo popolo di creare uno Stato Modello razzialmente puro.

Nello stesso tempo, già Zangwill dava per scontato, nel 1915, che la Palestina sarebbe passata sotto amministrazione britannica. Erano evidentemente già in corso le grandi manovre che avrebbero portato alla «Dichiarazione Balfour» nel 1917, dove il capo della diplomazia britannica, lord Balfour, dichiarava che la Palestina era «il focolare ebraico»; e per strappare quel «focolare» ai turchi, Londra avrebbe spedito in quel lontano quadrante oltre un milione di soldati, al comando del generale Allenby, sottraendole ai fronti europei pericolanti della prima guerra mondiale.

Ma gli ebrei avevano promesso, in cambio, che avrebbero ottenuto l’entrata in guerra degli USA. Cosa che infatti avvenne, nel 1917 stesso.

Lord Rothschild

Centro motore delle manovre era il barone Edmond de Rothschild, il gran banchiere, grande finanziatore di insediamenti ebraici illegali in Palestina. Difatti, la Dichiarazione Balfour ha la forma di una lettera che lord Balfour (membro della loggia Quatuor Coronati di Londra) dirige a Lord Rothschild.

In quei mesi, la propaganda ebraica aveva già diffuso la seguente immagine della Palestina: «Una terra senza popolo per un popolo senza terra». Ma tutti gli attori della commedia sapevano che la terra aveva già un popolo, e  discutevano accanitamente come eliminarlo.

Che cosa ne pensava lord Rotshild?

Lo scrisse Vladimir Jabotinsky, il sionista di destra, fondatore del movimento revisionista ebraico da cui proviene il Likud, fautore di una presa di possesso della terra con le armi. Nel 1929, Jabotinsky ebbe un colloquio con Rotshilld, e dopo annotò:
«Dicono che sono un estremista? A confronto con il barone, sono un moderato... Io, ad esempio, sono disposto ad accettare una maggioranza (di ebrei) in Palestina del 55-60%, mentre egli vuole che la Palestina sia completamente ebraica... E’ un sionista, è un visionario che vuole l’indipendenza ebraica anche più di quanto la vogliamo noi» (Tutto questo episodio fu rievocato da «Tribuna Sionista», una pubblicazione messicana in lingua yiddish, nel maggio 1954).

Felix Warburg

E’ il banchiere ebreo-tedesco, divenuto americano, che pronunciò davanti al Senato americano la celebre frase: «Avremo il governo mondiale, o col consenso o con la forza».

Che sionismo e mondialismo siano le facce di una sola medaglia, basta a dimostrarlo il fatto che Warburg, «internazionalista» in economia, fu anche per anni presidente dell’Agenzia Ebraica (Jewish Agency), in cui riuscì a far entrare anche membri non sionisti, purchè miliardari.

Nell’ottobre 1930 – gli insediamenti ebraici nel «focolare» stavano già provocando gravissimi disordini – il governo britannico si preparava a limitare l’immigrazione giudaica in Palestina (Passfield White Paper). Warburg scrisse una lettera all’Alto Commissario britannico per la Palestina, lord John Chancellor, a cui propose il «trasferimento» in massa degli arabi in Transgiordania, l’attuale regno di Giordania, allora sotto occupazione inglese.

Pochi giorni dopo, l’Agenzia Ebraica organizzò una manifestazione di 40 mila ebrei in Madison Square Garden a New York per protestare contro le limitazioni.

Qui Warburg, nella pubblica arringa ai manifestanti, ripetè la sua proposta: «E’ ingiusto parlare di tale offerta (sic) di terre in Transgiordania come di un espatrio degli arabi, in quanto la Transgiordania è un territorio arabo, separato dalla Palestina solo dal fiume Giordano».

Ancor oggi, la proposta di sbattere i palestinesi in Giordania affiora spesso nei discorsi dei capi israeliani.

«Unità del Mondo»

Nel 1932 a Danzica, vari gruppi di socialisti ebrei della Diaspora, di vedute diverse  spesso in fiero contrasto, trovarono un accordo d’unione. Il nuovo partito social-sionista fu chiamato con un nome che evocava il governo mondiale: «Unità del Mondo», in ebraico Ilhud Olami.

Nel 1937, prima del Congresso Sionista di quell’anno, «Unità Mondiale» tenne la sua conferenza preparatoria a Zurigo (il 29 luglio). David Ben Gurion lesse la relazione programmatica.

In essa si legge: «Gli arabi che abitano in queste piane saranno rimossi e trasferiti nello Stato arabo» (?).

Egli, in realtà, evocava una decisione britannica (Commissione Peel) che effettivamente progettava l’espulsione dei palestinesi nelle terre vicine. Lietissimo, Ben Gurion assicurò che sarebbe stato possibile rimpiazzare ogni famiglia araba «trasferita» con cinque famiglie ebraiche sullo stesso terreno.

Nel dibattito seguente, si segnalò il delegato Berl Katznelson, che parlò a favore della moralità delle espulsioni: «La mia coscienza è completamente netta. Un vicino distante è meglio che un nemico prossimo. Loro non ci perderanno ad essere trasferiti, e noi men che meno».

Aharon Zisling, un capo di kibbutz: «Non c’è disputa sul nostro diritto morale a proporre il trasferimento. Non c’è assolutamente alcuna obiezione etica a questa proposta, che stimolerà lo sviluppo della vita nazionale».

Golda Myerson, poi nota come Golda Meir, primo ministro israeliano: «Sono d’accordo che gli arabi lascino la Palestina e in ciò la mia coscienza è perfettamente limpida».

Eliezer Kaplan, tesoriere della Jewish Agency, volle smentire ogni confronto con le espulsioni di ebrei dalla Germania, allora in corso: «Qui non parliamo di espulsione ma di un trasferimento organizzato di arabi da una zona interna allo Stato ebraico ad un’altra zona dentro uno Stato arabo, ossia nel loro ambiente nazionale, e assicuriamo che le loro condizioni saranno, come minimo, non peggiori delle loro in precedenza».

«Mandiamoli in Iraq»

Impossibile citare tutte le dichiarazioni, lettere e progetti elaborati da Ben Gurion per l’espulsione dei palestinesi; sono semplicemente troppe. Basterà ricordare una sua lettera all’Alto Commissario britannico, nel luglio 1936, dove si diceva a favore del «trasferimento forzato (compulsory) degli arabi», purchè lo facessero gli inglesi. Si sporcassero le mani loro. Altrimenti, annotava nel suo diario, se si concentisse ad arabi di restare nello Stato ebraico, acquisteranno diritti in quanto minoranza e si guadagneranno le simpatie di cui godono le minoranze.

«Dobbiamo fare questo (espulsione) subito, e il primo e forse decisivo passo è di prepararci ad applicarla».

Nel dicembre 1938, Ben Gurion elaborò un piano per «trasferire» i palestinesi in Iraq, da poco diventato un regno indipendente ma sotto controllo britannico.

«Offriremo all’Iraq dieci milioni di sterline per trasferire centomila famiglie arabe dalla Palestina », scrisse nel suo diario, al 10 dicembre ’38.

«Se non fosse per Ibn-Saud e l’Egitto, questo piano avrebbe una chance. In ogni caso, ci sia o non ci sia una possibilità, dobbiamo affrontarlo con un progetto completo».

Il progetto andò avanti, infatti, anche con una accurata campagna di stampa. La lobby assoldò a questo scopo Montague Bell, direttore del settimanale «Great Britain and the West», a cui pagò grosse somme, e di cui fece il suo uomo di fiducia semi-diplomatico presso il governo iracheno.

Nell’ottobre 1938, in occasione dell’anniversario dell’indipendenza dell’Iraq, Bell scrisse un articolo sul Times in cui ricordava quanto l’Iraq fosse spopolato, e per questo economicamente arretrato.

«La prima necessità per l’Iraq è un accrescimento di popolazione. Con 3,5 o 4 milioni in più di abitanti, può rendere giustizia alle potenzialità della sua terra, dove la mancanza di manodopera è un problema costante; e colmare lo svantaggio rispetto a Turchia e Iran, con le loro molto più dense popolazioni. L’insediamento dei nomadi sulla terra può aiutare, ma ogni aumento veramente sostanzioso di popolazione in futuro dovrà venire da fuori».

Dalla Palestina, ovviamente.

Non occorre dirlo: il piano di «trasferimento in Iraq» incontrò l’immediato favore di Louis Dembitz Brandeis, giudice della Corte Suprema USA. Ebreo, seguace della setta di Jacob Frank, il «messia» polacco settecentesco, Brandeis fu uno dei motori più potenti della lobby sionista in America; una storia completa della sua instanncabile azione dietro le quinte deve essere ancora scritta.

Nell’agosto 1939, Brandeis portò la proposta al presidente Franklin Delano Roosevelt. In una minuta di un colloquio con un emissario sionista, Robert Szold, si legge: «IDB (Brandeis) suggerisce che Norman (altro emissario) dia priorità al piano Iraq e ci si concentri».

Non sapeva che possono essere raccolti dieci milioni di sterline» per convincere gli iracheni. Ma la lobby aveva il denaro a disposizione, il che facilitava le cose…

E’ notevole come già allora gli ebrei disponessero da padroni delle terre altrui, e non solo della Palestina. L’interesse per la «democrazia» in Iraq ha come si vede una certa tradizione.

Roosevelt entusiasta

Franklin Delano Roosevelt, 32° presidente, cominciò ad appassionarsi all’idea di «trasferire» 4 milioni di palestinesi nell’ottobre 1938. Il che è inevitabile, visto che era circondato da ministri e consigliori come Henry Morgenthau, Felix Frankfurter, Stephen Wise e Ben Cohen, che scriveva i suoi discorsi.

Brandeis scrisse infatti a Frankfurter che Roosevelt comprende il significato della Palestina, «la necessità di tenerla indivisa e di renderla ebraica. E’ rimasto tremendamente interessato, e del tutto sorpreso, nell’apprendere la grande crescita della popolazione araba durante la guerra».

Difatti, il 25 di ottobre 1938, Roosevelt incontrò l’ambasciatore britannico in USA, sir Ronald Lindasy, che riferì a Londra: il presidente «è impressionato del fatto che la popolazione araba (in Palestina) è cresciuta di 400 mila membri dall’inizio del Mandato» britannico.

Il 13 marzo 1939 il giudice frankista Brandeis fu in grado di mostrare ai suoi compari Frankfurter, Ben Cohen e Wise, una lettera di Roosevelt a lui indirizzata, in cui il presidente «includeva l’idea che quei 400 mila arabi entrati in Palestina (sic) dalla Dichiarazione Balfour certamente non hanno diritto allo stesso rispetto degli ebrei. Ha suggerito che il trasferimento di questi arabi in Iraq dovrebbe essere preso in esame».

Nel dicembre 1942, esaltato dall’esito della guerra in corso, Roosevelt confidò al suo segretario al Tesoro Henry Morgenthau (autore del piano Morgenthau di castrazione dell’intera popolazione maschile tedesca):

«Effettivamente io metterei un filo spinato tutt’attorno alla Palestina, e comincerei a rimuovere gli arabi... Troverei della terra per gli arabi in qualche altra parte del Medio Oriente... per ogni arabo (rimosso) possiamo metterci una famiglia ebrea. Ma non voglio portarne dentro più di quanto (la terra) possa economicamente sopportare... Naturalmente, se ci sono il 90% di ebrei, gli ebrei domineranno il governo… Ci sono un sacco di posti in cui rimuovere gli arabi. Basta scavare un pozzo, perchè ci sono una quantità di acque sotterranee (nel deserto), e possiamo spostare gli arabi dove possano vivere».

Frankenstein è fra noi

Chiudo qui per non rendere l’articolo troppo lungo. Ma consiglio la lettura integrale dello studio di rabbi Simons, a cui rimando l’interessato anche per i riferimenti e le fonti delle citazioni di cui sopra; sono tutte in nota nel testo. Come ho detto, l’edizione del 2004 è disponibile sul web: ProposalsToTransferArabsFromPalestine1895-1947

Mi preme solo  riportare la conclusione di rabbi Simons, che come ho detto non è affatto contrario all’espulsione in massa.

«...Tagliare il cancro da un corpo malato non è crudele, è necessario. Pochissimi hanno il coraggio di sostenere pubblicamente la rimozione degli arabi dalla Palestina. E tuttavia, lo studio di questa corrispondenza confidenziale, diari privati e minute di riunioni chiuse, rivela i veri sentimenti dei leader sionisti sulla questione. (...) Tentativi di nascondere le proposte di trasferimento fatte dai leader sionisti del passato ha portato a una riscrittura della storia e alla censura di documenti ufficiali».

«... Inoltre, uno studio statistico condotto dal giurista ebreo tedesco Ernst Frankenstein nel 1939, chiarisce che «il 75% della popolazione araba di Palestina sono essi stessi immigrati o discendono da individui che immigrarono in Palestina nell’ultimo secolo, per lo più dopo il 1882».

«E’ troppo facile bollare i trasferimenti come ‘razzisti’ o ‘nazisti’: è un errore storico, in quanto trasferimenti di popolazione hanno avuto luogo – e con successo – molto prima dell’era nazista».

Bentornato fra noi, dottor Frankenstein.

Maurizio Blondet


(articolo pubblicato il 7 gennaio 2009)




 
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