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La risposta di Israele alla sfida iraniana è stata fuori sincrono con le realtà che nel tempo si stavano sviluppando. Di recente poi è diventata pericolosamente controproduttiva, ancorata come è nel suo rifiuto. Mentre Israele insiste sul proprio ruolo di “principale minacciatore” e rimane attaccata ancor più alla logica di "più bastoni, e più grandi", gli eventi tutto intorno si stanno muovendo.

C’è una triplice pretesa logica dietro l'aumento delle minacce di Israele, che fa pensare che sia pronta ad andare in guerra da sola. Mette pressione sull'Iran, aumentando così la leva internazionale sui negoziati; un mondo nervoso si sente spinto ad aumentare le sanzioni e a produrre risultati; e tutto il cammino viene modellato verso l'accettazione di possibili azioni future israeliane. Eccetto che la logica, sempre molto tenue, viene adesso ripudiata su tutti e tre i fronti.

L'Iran apparentemente vede le minacce come un ulteriore motivo per perseguire più vigorosamente il proprio programma di arricchimento dell'uranio, piuttosto che per desistere da esso.  In generale la percezione che l'Iran è minacciato (circondato da forze armate USA in Iraq, Afghanistan e Golfo Arabo) aggiunge impeto al suo programma di acquisizione di armamenti. La minaccia israeliana ottiene solo di aggiungere forza a quella spinta.

Le sanzioni tendono ad essere uno strumento politico lento, spuntato ed inefficiente. I progressi tecnologici iraniani hanno sempre lasciato indietro le sanzioni e, comunque, la prospettiva di intensificare le sanzioni collettive proposte dall'ONU è stata verosimilmente sepolta nei rifiuti della disputa dell'America con la Russia a proposito della Georgia e delle sue province separatiste.

Ma il collasso della politica di Israele è stato ancor più drammatico nello scatenare, in tutte le parti degli USA, un forte rifiuto pubblico contro l'eventuale azione militare. Tutti gli alti ufficiali americani si sono recentemente allineati nel mettere in guardia contro un attacco all'Iran, e questo è avvenuto ogni volta dopo aver incontrato i principali governanti israeliani. Appare chiaro che, per quanto riguarda il Pentagono, non ci sarà un terzo fronte nel suo già ampio pantano mediorientale, e nessuna luce verde per Israele.

In aggiunta alla perdita di efficacia, la posizione di "principale minacciatore" si basa anche su una falsa premessa, oggi ancor più trasparentemente falsa, e cioè che Israele abbia un'opzione militare che comporti un accettabile livello di rischio. La reticenza americana in tal senso è solo una considerazione. Diversi influenti studi, uno molto recente dell'Istituto per la Scienza e la Sicurezza Internazionale di Washington, suggerisce che un attacco otterrebbe soltanto di rafforzare la decisione di Teheran di acquisire la bomba, e che il suo programma di centrifughe potrebbe essere ricostruito molto rapidamente. Un attacco, molto verosimilmente, porterebbe il popolo a stringersi maggiormente attorno agli esponenti della linea dura del regime iraniano. Il tintinnare di sciabole ha già consentito alla fazione del presidente Ahmadinejad di distrarre l'attenzione dai suoi errori economici e di giocare la carta del nazionalismo.

Queste preoccupazioni sono ben note ma vale la pena di riassumerle: la regione sarebbe radicalmente destabilizzata e forse, nel medio periodo, irreversibilmente, con un potenziale enorme contraccolpo sia per Israele che per gli USA.
Israele è comprensibilmente incline ad evitare un confronto su vari fronti con l'Iran ed i suoi alleati, ma un attacco creerebbe le condizioni ottimali perché tale eventualità si realizzasse. L'ostilità iraniana sarebbe stata garantita per generazioni ed i regimi regionali amici fortemente scossi, o peggio.

Per le truppe americane e della coalizione in Iraq, Afghanistan e persino nel Golfo, una realtà già molto dura diventerebbe decisamente insostenibile, e questo persino prima ancora di considerare gli effetti sul mercato del petrolio e le implicazioni sui prezzi mondiali del cibo, e l'instabilità, e per la dipendenza dell'Europa dalle forniture energetiche russe. Israele semplicemente non può e non deve correre tale rischio.

La buona notizia è che ci sono opzioni migliori. Per dirne una Israele dovrebbe condurre, o almeno contribuire a, piuttosto che ritardare, un ripensamento politico sull'Iran. E invece quando il Sottosegretario di Stato americano William Burns si siede al tavolo dei negoziati con l'Iran a Ginevra, Israele si adombra. E lo stesso accade quando i Turchi, i nostri mediatori diretti con la Siria, ospitano i leaders iraniani.

Israele deve incoraggiare questo duro e diretto impegno diplomatico fra i suoi amici e l'Iran, contribuire con propri punti di discussione e suggerire che il dialogo si rivolga ad un ampio spettro di argomenti che preoccupano Israele.
Israele potrebbe persino provare a sbilanciare in anticipo i suoi avversari e proporre una dinamica costruttiva regionale, sviluppando un'offerta occasionalmente accennata dal presidente Shimon Peres, e cioè che Israele si impegni per un Medio Oriente privo di armi di distruzione di massa nel contesto di una pace regionale, per il riconoscimento reciproco e per garanzie di sicurezza.

Oltre a ciò Israele dovrebbe de-enfatizzare le proprie opzioni militari unilaterali e rinforzare la fiducia nella propria capacità di deterrenza fronte a fronte con l'Iran. Piuttosto che spaventare irresponsabilmente il proprio popolo e trasmettere terrore alla regione il messaggio di Israele potrebbe essere che è soltanto intenzionata a fronteggiare le sfide potenziali poste dall'Iran.
Di fatto, senza concedere niente di nuovo, Israele potrebbe reiterare che di tutti i protagonisti regionali è quello che ha minori motivi di preoccupazione per gli sviluppi di parte iraniana.

Una reciproca deterrenza sarebbe un'accettabile, anche se indesiderabile risultato. Creerebbe il senso di un problema condiviso ben più che le affermazioni disperate di diritto alla violenza e le minacce di azione unilaterale.

Inutile pretendere che la diplomazia preventiva sia semplice o rapida, ma Israele farebbe un errore terribile, forse fatale, se attaccasse l'Iran. Non fa un favore a nessuno, men che meno a sé stessa con la ripetizione del mantra del "principale minacciatore".

Daniel Levy

(senior fellow at the New America and Century Foundations, was a former adviser in the Israeli Prime Minister's Office, and was the lead Israeli drafter of the Geneva Initiative)

Tradotto per EFFEDIEFFE.com da Arrigo de Angeli

Fonte >  Ha’aretz

Originale >  There are better options

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