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Il vero De Benedetti: storia di un cannibale che divora le aziende
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Suo padre produceva tubi, lui non ha mai prodotto un tubo. La storia del «capitalismo cannibale» di Carlo De Debenedetti, come l’ha definito Marina Berlusconi, è tutta qui: un’esistenza passata a fare soldi per fare soldi per fare soldi per non fare nulla. Nulla di costruttivo, s’intende. Aziende costruite: nessuna. Aziende rilanciate: poche. Aziende distrutte: tante. Dicono che gli imprenditori siano la spina dorsale di un Paese. Per fortuna, allora, che gli imprenditori non sono tutti come l’Ingegnere: altrimenti diventeremmo in un amen paralitici.

Il suo capolavoro resta naturalmente l’Olivetti. Fra il 1985 e il 1996 l’Ingegnere ha bruciato a Ivrea 15.664 miliardi delle vecchie lire. Le azioni crollarono da 21mila all’abisso delle 600, furono persi decine di migliaia di posti di lavoro, l’intero distretto produttivo del Canavese venne raso al suolo, seppellita per sempre una storia industriale d’eccellenza. Alla fine dell’impresa De Benedetti commentò piuttosto compiaciuto: «Missione compiuta». Missione compiuta, ma sicuro. Gli operai lo salutarono con una pièce teatrale. Tema: come si fa a pezzi una fabbrica. In scena l’avevano ribattezzato l’Ingegner De Maledetti.

Eppure all’Ingegner De Maledetti, nonostante i fallimenti, è sempre piaciuto dare lezioni sul senso etico dell’impresa e sulla lotta alla disoccupazione. Che è un po’ come se un macellaio volesse dare lezioni sull’importanza di non uccidere i vitelli. Di disoccupati, infatti, De Benedetti, ne ha sempre creati tanti, di lotta alla disoccupazione poca: nato da una famiglia di piccoli imprenditori, ha fin dalla tenera età preferito il coté finanziario a quello produttivo. Mai amato stare fra le macchine, al massimo fra le macchinazioni: scalate, opa, ardite operazioni di Borsa, alchimie da Piazza Affari. Risultato: ha fatto girare molti denari, s’è arricchito, ha fagocitato tanto. Ma che cosa ha costruito? Gli unici mattoni che lascia alle sue spalle sono gli editoriali di Scalfari.

Anche il suo rapporto con le società è sempre stato da cannibale. Quattro morsi e via. Dalla Fiat se ne andò dopo 4 mesi, dal Banco Ambrosiano dopo 40 giorni. In entrambi i casi se ne uscì con tanti soldi e qualche ombra. Della Olivetti s’è detto. La sua irruzione a Ivrea fu raccontata così: «Un esempio di mancanza di stile che rimarrà memorabile, con londata di terrore aziendale che ne seguì, dissipando repentinamente il patrimonio di lealtà organizzativa costruito in decenni. E ciò avvenne con una rapidità impressionante dopo il licenziamento di decine di dirigenti». Del resto s’è mai visto un raider che si preoccupa della lealtà organizzativa e del futuro dei suoi dirigenti?

Fateci caso: si sa cosa produce la Fiat, si sa cosa produce la Barilla. Che cosa ha prodotto nella sua storia imprenditoriale De Benedetti? Tonnellate di carta (finanziaria). E tonnellate di carta (editoriale) per coprire le carte finanziarie. Ricorderete il 28 marzo '94: l’ultimo atto del presidente del Consiglio Ciampi, prima di passare la mano a Berlusconi, fu la decisione per il secondo operatore di telefonia mobile italiano. In gara c’erano Fiat-Fininvest e De Benedetti. Naturalmente vinse De Benedetti. «Così come i generali nazisti, con gli americani alle porte, fuggivano bruciando le ultime carte», ha scritto Geronimo, «quella sera il moribondo governo Ciampi fece nascere Omnitel».

Fra l’altro, la documentazione per la gara d’appalto era un malloppo da 1.200 chili, esaminato con insolita e straordinaria rapidità. «Ora lIngegnere mostri quello che sa fare», scrissero i giornali. E l’Ingegnere lo dimostrò: infatti poco dopo rivendette Omnitel ai tedeschi della Mannesmann.

Ancora una volta un’operazione perfetta per sé, un po’ meno per il «sistema Paese» di cui si riempie la bocca nei convegni ufficiali. Il prezzo concordato fra Ciampi e De Benedetti per Omnitel fu di 750 miliardi di lire e il pagamento fu rateizzato in 14 anni con rate annuali di 76 miliardi. Ai tedeschi la medesima Omnitel fu venduta invece per 14mila miliardi. Naturalmente senza rateizzazione. Da 750 a 14mila miliardi: il guadagno val bene la svendita all’estero di un patrimonio italiano. Del resto non si può mica chiedere a De Benedetti di amare l’Italia. Al massimo, lui ama la Svizzera, dove infatti ha preso cittadinanza. Dopo tutti i buchi che ha fatto, evidentemente, si è trovato a suo agio con l’emmenthal.

Per finire, anche una delle sue ultime imprese, la M&C Management e Capitali, non ha tradito tutta la storia del capitalismo cannibale di De Benedetti. Fondata nel 2006, aveva il compito di risanare le imprese in difficoltà. La prima impresa in difficoltà che rilevò fu la Domopak: infatti, appena rilevata, l’Ingegnere annunciò il taglio di 190 operai. Scioperi, proteste, blocchi dell’autostrada. Poi di M&C non si seppe più nulla sul piano industriale. Nessuna impresa salvata. In compenso se ne è parlato moltissimo sul piano finanziario: un susseguirsi di operazioni in Borsa, scalate, opa, accordi, annunci di vendita, riacquisti, rilanci a Piazza Affari. Un tourbillon che, come al solito, nulla ha creato, al massimo ha distrutto. O incartato tutti, come con la Domopak. Ma in fondo che importa? È noto che il capitalista cannibale non si preoccupa di lasciare nulla dietro di sé. A parte la scia della propria barca, s’intende.

Mario Giordano

Fonte >
  Giornale

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