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Povero Uòlter...
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Non gliene va bene una. Incita le masse progressiste a scendere in piazza a difendere la sacra costituzione, secondo lui in pericolo, e in piazza arrivano in un migliaio. Sul palco, Veltroni non ha voluto salire, perchè non si dicesse che la costituzione è difesa da una parte; e mette sul palco Oscar Luigi Scalfaro, quello fra gli ex capi-di-Stato che la costituzione l’ha più apertamente violata (facendosi un governo personale contro i risultati elettorali) e che ancora non ci ha spiegato a quale titolo, nella prima repubblica, riceveva ogni mese 100 milioni di lire dai servizi segreti deviati.

Scalfaro è uno che strappa l’ammirazione solo per un dato: la faccia tosta con cui si presenta come puro esempio di alta dignità civile.

Veltroni sventola una lettera che ha ricevuto dal presidente Obama: vedete, ha scritto personalmente a me, mi ha notato, lavoreremo insieme... Poi si scopre che la lettera è una gentile circolare che la segreteria di Obama ha mandato anche ai ministri del Kazakhstan. E’ la riedizione dell’immortale «Un americano a Roma», protagonista Alberto Sordi.

Eppure, il povero Uòlter insiste. Critica il governo perchè «fa poco contro la crisi», e come esempio indica il mancato risparmio energetico: bisogna «fare come in America», dove si installa una smart grid, una rete elettrica «intelligente» che prevede i picchi dei consumi e li riduce.

Poi gli esperti gli spiegano che l’Italia è l’unico Paese ad avere una «smart grid»: ne fanno fede i nuovi contatori ENEL, che trasmettono istante per istante i consumi, i picchi, le medie consumate,
insomma tutto quello che c’è da sapere per consumare in modo più razionale: il che non è nemmeno strano perchè, visto che paghiamo l’energia più cara d’Europa, è anche giusto che stiamo più attenti agli sprechi. E in America, una smart grid proprio non ce l’hanno. La loro rete è tra le più arretrate, anche rispetto alle più arretrate d’Europa dove passa ancora un addetto a leggere il contatore.

Povero Uòlter, perchè non rinuncia?

«Nun ‘gna fa’ », come dicono a Roma. Non è capace. Voleva fare il grande partito della sinistra moderata, e si associa Di Pietro (l’ultimo ducetto rimasto, con battaglia del grano sul trattore incorporata) che gli succhia i voti a uno a uno (e a proposito, Di Pietro mica s’è fatto vedere in piazza accanto a Oscar Luigi: ritardo dell’aereo, dice).

Bisogna essere buoni cuochi per fare il soufflè, non è da dilettanti. Il grande partito democratico all’americana di Uòlter è un soufflè che si è seduto: invece del dorato panettone soffice come una meringa, dal forno è uscito un tortino stortignaccolo e bruciacchiato. Un grande cuoco sa che, quando un soufflè esce così, la sola cosa da fare è buttarlo via e prepararne un altro. Invece Uòlter continua a rimetterlo in forno, nella speranza che lieviti. Uòlter non è un grande cuoco. E nemmeno piccolo.

Veltroni, politicamente, non agisce: si limita a subire, a rispondere all’iniziativa che è sempre - piaccia o no - di Berlusconi. E di solito, la prima reazione di Uòlter consiste nell’esclamare: «Inaudito!». Come una signorina Felicita di Gozzano davanti a un esibizionista con l’impermeabile aperto. Su Eluana, dopo la solita esclamazione («inaudito!») nel suo PD ciascuno è andato per conto suo, Rutelli e i catto-democratici con il disegno di legge del Pdl.

Se Berlusconi merita il titolo di Salame, non c’è insaccato metaforico che possa descrivere Uòlter:  perchè del maiale, purtroppo, non c’è niente da buttare. E persino i lettori di Repubblica ormai capiscono che Uòlter è da buttare.

Il fatto è che a forza di esclamare «inaudito!», si fa capire che non si è progressisti per niente. Che si è dei conservatori attardati, sempre stupefatti, continuamente colti di sorpresa, e invariabilmente scandalizzati da qualsiasi proposta nuova, da qualsiasi spontaneità che emerga, e non sia descrita nei manuali del piccolo sinistrese illustrtato . Veltroni è così: sempre un passo indietro sugli eventi. Crede ancora che l’America sia il progresso tecnologico, figurarsi. Ecco cosa succede ad aver studiato male all’istituto tecnico.

Povero Uòlter.

Distrattamente, a Radio Radicale sento pronunciare un elogio sperticato di Pinuccio Tatarella, il missino defunto. Non credo ai miei orecchi: la voce è quella di Massimo D’Alema. Ogni giorno di più, Massimo da Gallipoli si atteggia a Venerato Maestro e riserva della repubblica di Lilli Gruber:  ieratico, olimpicamente sereno, a fianco del Fini Kippà, D’Alema ha teso la più alta lode dell’«amico Pinuccio», il fascista buono e moderato che fu vicepresidente del consiglio in quel primo governo Berlusconi del ‘94 - che D’Alema e i suoi comunisti distrussero con tutti i mezzi, legali e illegali, non senza l’aiuto determinante del golpista Oscar Luigi Mazzetta Scalfaro.

A Pinuccio morto, D’Alema gli trova tutte le virtù: Tatarella leggeva Gramsci, Tatarella aveva accolto la migliore lezione di Craxi (un altro che D’Alema ha trucidato) «Il suo moderatismo si espresse sempre anche come moderazione, una virtù rara nella politica italiana, una delle ragioni del rispetto e del rimpianto con cui è ricordato oggi, non solo da chi gli fu vicino e solidale nella lotta politica ma anche da chi, dalla parte avversa, lo considerò sempre un interlocutore intelligente e aperto al dialogo».

Naturalmente, l’elogio di Pinuccio è tutto un colpo a Berlusconi. Con Tatarella sì, intona il Venerato Maestro, la destra stava per « liberarsi di ogni residuo estremismo e arroganza e dimostrare una capacità di esercitare il potere nell’interesse generale in modo lungimirante e bonario, rifiutando la logica della minaccia». Tatarella sì che credette alla Bicamerale
(di D’alema).

«Molte delle attese e delle speranze per la Seconda Repubblica di cui Tatarella fu partecipe sono state mancate. Siamo ben lontani da quel bipolarismo maturo e civile per il quale egli lavorò con passione ricercando il dialogo e l’intesa. Non solo perchè appare incompiuto il processo delle riforme costituzionali, ma persino perchè si affaccia costantemente il rischio di un conflitto fra le istituzioni dello Stato proprio quando le difficoltà e le fragilità del Paese richiederebbero il massimo di coesione e di armonia».

«In realtà  l’esperienza di questi anni dimostra che senza istituzioni forti è assai difficile realizzare non solo la convergenza sulle nuove regole necessarie ma anche quelle grandi riforme della società che hanno bisogno di dialogo e di un certo grado di condivisione per incidere in modo profondo e duraturo».

Insomma: torniamo al dialogo fra cosiddetta «destra» e sedicente «sinistra», torniamo alla Bicamerale, al dialogo, al governo condiviso istituzionale. Nel nome del patriottismo istituzionale.

E’ stato un discorso che avrebbe potuto fare Fini. Infatti kippà era lì e assentiva ad ogni parola di D’Alema. Duo vivente che già incarna quella specie di grande DC laicista e del sereno moderatismo totalitario tanto voluto da Confindustria, CISL UIL e poteri forti; un partito unico della moderazione, che può finalmente - e definitivamente - infischiarsene se gli italiani lo votano o no.

Chissà se Uòlter ha esclamato «inaudito!» anche questa volta.

Perchè D’Alema non avrebbe certo pronunciato un così alto elogio del missino, se:

Dovesse temere il giudizio dei suoi elettori di sinistra, ammesso che ce ne siano ancora.

Se non avesse infornato un nuovo soufflè con Fini, e si preparasse a licenziare Weltro per scarso rendimento.

Se AN fosse ancora una forza reale e antagonista, e non quel partitello di piccoli impiegati statali meridionali che è.

D’Alema sa che AN è una forza spenta, e  può consentirsi il lusso di fare il presentat’arm sulla sua tomba (scavata dall’amico Fini). Resi gli onori funebri a un’Italia defunta, egli procede ad occuparne gli spazi - estrema lezione del leninismo de’ noantri. Lo tallona da vicino Violante, il giustizialista, l’eletto della magistratura come casta.

Anch’egli commemora le foibe di Tito e può finalmente permettersi di piangervi sopra qualche lacrima di coccodrillo, confessarsi «imbarazzato» da quella «tragedia», in quanto comunista.

Imbarazzato perchè, dice Violante, -  «l’aver appartenuto al PCI e il sentirmi tutt’ora dentro quella rigorosa educazione politica e quel complesso di valori civili e repubblicani mi facevano sentire tra quegli assassini».

Ecco il politico a cui un Paese deve affidarsi con fiducia: uno che scopre con 70 anni di ritardo che il comunismo era assassinio, è dotato di una sagacia, umanità e lungimiranza in cui può esserci maestro e guida. Napolitano, per dire, è appena arrivato a deplorare intervento sovietico in Ungheria del ‘56, ma non a dar ragione agli ungheresi in rivolta. D’Alema è meglio, ammette che Tatarella aveva ragione a un anno dal trapasso. Il partito fa progressi: ha abbracciato il liberismo e il «mercato», per esempio, un attimo prima che cominciasse a precipitare nell’inferno, della miseria da speculazione, trascinandoci tutti noi.

Poi Violante s’è offeso perchè il Riformista ha titolato la sua confessione sulle foibe così: «Mi vergogno di essere comunista». Non mi vergogno affatto, ha strillato. Ed ha ragione - come sempre.

Uno dei dettami principali della tattica marx-leninista suona così: aderire sempre alle forze sociali più potenti. Nel momento storico dato, la forza sociale più potente non è la classe operaia e men che meno il proletariato, ma i poteri forti, finanziari ed ereditari, le caste pubbliche parassitarie, e i 7 milioni di italioti fedeli del Grande Fratello (quello di Mediaset, in attesa di quello di Orwell).

Dunque, lo spazio da occupare è quello: il grande vuoto del grande centro secolarizzato dove tutte le vacche sono grigie. Il vuoto pneumatico di Fini e di Uòlter, e delle TV berlusco-RAI. E lo dice chiaro, Violante: «Finchè la sinistra non celebrerà le foibe e la destra non celebrerà Fossoli resteremo divisi nelle nostre storie e nelle nostre memorie».

Ecco sì, uniamoci nel patriottismo costituzionale, nella squadra (e nel compasso) dell’insignificanza de-ideologizzata. Un popolo che si contenta del proprio benessere zoologico, merita di essere tosato, munto e venduto come filetto e spezzatino.



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