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Galileo e il «primato della legge»
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Nonostante molti storici si stiano impegnando da tempo a sfatare i molteplici luoghi comuni creati intorno alla figura di Galileo, definito da Carlo Emilio Gadda «maligno pisano» (1), le celebrazioni, eccessive, riguardo a tale personaggio continueranno a farci compagnia oltre il 2009, dichiarato Anno Internazionale dell’Astronomia, nel quale come è noto ricorre il quattrocentesimo anniversario dell’utilizzazione del cannocchiale da parte del suddetto, per investigare le novità celesti. Grazie a Dio, dicevamo, una critica contraria ai giudizi ottimistici, spesso gonfiati, degli empiristi logici circa l’immagine galileiana, che hanno comunque invaso ad ampio raggio la dimensione culturale, è riuscita a fornire un quadro alquanto più obiettivo, riguardo alla nascita ed alla successiva edificazione della scienza induttiva. Infatti, «esposizioni concepite in passato del lavoro di uomini come Galileo e Newton sono risultate zeppe di errori, e sono stati spietatamente denunciati il mito di Galilei e il mito di Newton, prodotti da un’interpretazione eccessivamente baconiana e positivistica» (2). Anche il noto fisico Enrico Bellone conferma tale prospettiva controcorrente, in modo alquanto esplicito: «l’idea che Galilei abbia posto le basi del cosiddetto metodo scientifico è una creazione letteraria la cui futilità è solo pari a quella dell’altra favola che descrive Newton come scienziato meccanicista» (3). Di certo, può colpire leggere, diversamente da quanto sostiene la comune vulgata, che Galileo: «oggi spesso declassato a poco più di un agente pubblicitario della rivoluzione scientifica, non fondò le sue opinioni su esperimenti, e anche quando li eseguì - cosa che avvenne molto più raramente e con minore efficacia di quanto si sia supposto in precedenza -, non ne trasse conclusioni, ma se ne servì piuttosto per illustrare conclusioni a cui era già pervenuto per altra via, ignorando, nel corso di questo processo, tutto ciò che si discostava da tali risultati» (4).

D’altra parte, già Alexandre Koyré aveva ribaltato il classico modo di considerare Galilei, dichiarando che l’esperimento, nell’opera galileiana, ebbe scarso rilievo. Koyré tra l’altro parla di una «epistemologia galileiana ‘aprioristica’ e insieme sperimentalista», dove le sperimentazioni di Galileo, quasi sempre mentali, sono «costruite partendo da una teoria, la cui funzione è quella di confermare, o d’invalidare, l’applicazione al reale delle leggi dedotte da principi il cui fondamento è altrove» (5). Nella stessa opera critica, il famoso epistemologo illustra chiaramente la differenza fra platonismo ed aristotelismo, facendoci bene intendere come in Galileo queste due linee interpretative si intrecciassero fino a confondersi.

Koyré scrive: «Se si proclama il ‘valore superiore’ delle matematiche, se, d’altra parte, si attribuisce loro un valore reale e una posizione dominante nella e per la fisica, si è platonici. Se, al contrario, si vede nelle matematiche una scienza ‘astratta’, e per conseguenza di ‘minor valore’ delle scienze - fisica e metafisica - che si occupano del reale, se in particolare si pretende di fondare la fisica ‘direttamente sull’esperienza’, non attribuendo alle matematiche che una funzione fiancheggiatrice, si è aristotelici».

Galileo, pur combattendo gli aristotelici da posizioni aristoteliche, non disdegnò di seguire nel contempo quelle linee platoniche, ma sarebbe più corretto dire pitagoriche, che elevano il modello astratto e matematico al di sopra del reale, quasi in corrispondenza con le idee universali, che sussisterebbero nell’Iperuranio, contemplate dall’anima prima di cadere imprigionata nella caverna del corpo. Egli infatti postulando il primato del modello razionale sulla realtà, della matematica sulla fisica, utilizzò la metodologia induttiva per ribaltare il criterio scolastico di verità, intesa come adeguamento dell’intelletto alla cosa, che sfocia necessariamente in una filosofia realista. E’ noto peraltro il suo elogio ad Aristarco e a Copernico, capaci di aver fatto con la ragione «tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona della loro credulità» (6).

Questa unione, e confusione, di matematica e fisica, di modello e fenomeno, caratterizza i punti salienti dell’opera galileiana, fondata - come afferma lo stesso scienziato nella famosa lettera copernicana a don Benedetto Castelli - su due cardini, le: «sensate esperienze e necessarie dimostrazioni». Tuttavia, se Galileo non fosse stato un pitagorico, se cioè non avesse inteso usare la fisica per dimostrare la matematica, avrebbe dovuto invertire i termini. Infatti, è sorprendente, se non addirittura contraddittorio, che proprio l’ideatore del metodo sperimentale ponga il fondamento della ricerca sperimentale sulle «necessarie dimostrazioni», matematiche, invece che sulle esperienze, fisiche. Sia dal punto di vista metodologico che da quello logico, Galileo avrebbe dovuto affermare il contrario. Ossia che, in fatto di scienza sperimentale, occorrano innanzitutto «necessarie esperienze», ed in secondo luogo «sensate dimostrazioni», dal momento che sono proprio le esperienze concrete, che ci forniscono i modelli rappresentativi della realtà, a dover essere spiegate e dimostrate in modo adeguato. Dunque, le esperienze devono essere «necessarie», mentre invece le dimostrazioni non possono che essere «sensate», ragionevoli, proprio perché, per giungere a definire la verità del reale, sono i sensi che devono informare la ragione. Se questo non avviene, allora l’idea finisce con l’imporsi sui sensi, «il far violenza al senso», e la natura viene interpretata non così come è. Ma come si pensa, o come si vuole, che sia (7).

La storia è comunque arcinota. Galileo aderì all’ipotesi copernicana e divenne il fautore più accanito di tale astratta idea. Cercò allora di provarla con dimostrazioni «necessarie», o matematiche, non potendo farlo con dimostrazioni «sensate», o fisiche. La realtà infatti dimostra il contrario. Pertanto, non potendo trovare prove fisiche dell’ipotesi eliocentrica, utilizzò argomentazioni astratte: «indifferentemente applicabili all’uno o all’altro sistema, e molte poi errate nell’applicazione», afferma Piero Pagnini, in una memorabile edizione delle opere galileiane (8). Ma non solo.

Tutta l’opera galileiana è costellata di errori che lo scienziato compì, nel tentativo di voler dimostrare fisicamente il modello matematico eliocentrico. Tra le sue molteplici dimostrazioni errate: «Emerge l’interpretazione erronea del flusso e del riflusso portato come dimostrazione certissima, mentre invece oggi sappiamo quanto poco peso abbia nel moto della Terra. Errori che riguardano le relazioni delle velocità di rivoluzione dei pianeti, errori sulla determinazione della traiettoria di un mobile libero di cadere fino al centro della Terra, sul valore costante dell’accelerazione, ed altri ancora ci sembrano costituire manchevolezze».

E dire che Galilei avrebbe potuto risparmiarsi molti dei suoi errori, se solo avesse assunto un atteggiamento più pacato, meno impetuoso e passionale, nei confronti dell’attività di ricerca scientifica. Di certo, avrebbe evitato il suo errore più grande, addirittura inspiegabile. Ossia, il non aver voluto riconoscere, forse per gelosia professionale, la validità delle leggi kepleriane, che invece fornivano la dimostrazione razionale, matematica, ma non fisica, del modello eliocentrico.

Scrive in proposito il Pagnini: «La ragione di questa manchevolezza ci sembra si debba solo attribuire ad una stima eccessiva del proprio valore, ad una mancanza di obiettività di giudizio, che gli impedirono di vedere il legame armonico e causale fra le leggi del Keplero ed il sistema copernicano». E che avesse una stima esagerata di sé, emerge anche dal fatto che sempre più Galilei: «si espande in una superba gloriosa vecchiezza non priva di iattanza: la iattanza della ragione. E’ questa fiducia che lo induce di errore in errore, dalla trascuranza delle leggi di Keplero alla teoria delle comete, alla teoria delle maree» (9).

E’ un fatto comunque del tutto singolare, che Galileo non si sia reso disponibile a stabilire un confronto costruttivo con uno scienziato del taglio di Keplero, nonostante fosse in corrispondenza epistolare con lui fin dai primi anni della sua attività. E nonostante che entrambi fossero impegnati lungo una linea comune di indagine scientifica. Questo fatto è tuttavia molto indicativo. Perché se Galileo non riuscì a stabilire un dialogo costruttivo con gli scienziati che la pensavano come lui, figuriamoci con quale aggressività si rivolse a quelli che contestavano le sue idee. Che infatti strapazzò ed irrise, spesso senza ritegno. Sembra persino paradossale, che col tempo sia stato elevato a modello, e promotore, del dialogo fra scienza e fede proprio un personaggio siffatto, incapace di riconoscere persino le ragioni di chi condivideva i suoi ideali, offrendogli su un piatto d’oro validissimi argomenti, che se utilizzati opportunamente avrebbero potuto evitargli persino i dolorosi strascichi dei processi. Ma se Galileo non fu disponibile a dialogare costruttivamente nell’ambito della stessa scienza, si dimostrò invece pronto nell’innescare polemiche, riuscendo a far perdere le cosiddette staffe a quelle persone che della Fede avevano fatto a tutti gli effetti il centro della propria vita, svolgendo l’impegno quotidiano di trascendere le pur umane tendenze, sull’incrollabile certezza della verità dei dogmi professati.

Ma Galileo non fu un dogmatico, almeno dal punto di vista religioso. Di conseguenza, non riconoscendo pienamente né l’autorità, né il magistero ecclesiale, forse anche istigato dai suoi potenti sostenitori, appena si presentò l’occasione, polemizzò in modo beffardo con i Gesuiti del Collegio Romano. La presunta colpa di questi ultimi, fu una loro pubblicazione, del 1618, il «De tribus cometis», nella quale padre Orazio Grassi sosteneva, correttamente, sulle linee di Tyco Brahe, che le comete fossero reali e che percorressero traiettorie aperte e non circolari. Galileo l’anno successivo pubblicò il «Discorso sulle comete», nel quale sosteneva, sbagliando completamente strada, che le comete fossero mere illusioni ottiche provocate dal Sole. Egli se la prese aspramente, oltre che con il Grassi, anche con l’astronomo maestro di Keplero, Tyco Brahe, morto nel 1601, in seguito ad un misterioso avvelenamento, sul quale sarebbe interessante indagare.

Scrive ancora il Pagnini, che nella polemica col Grassi emerge: «il carattere di Galileo, impulsivo, aggressivo, facile a prendere di punta le discussioni, a mordere sempre, difficile a ritirarsi, a riconoscere i propri errori, insomma egocentrico al massimo grado. La sua polemica fatta di ironia e di disprezzo mal celato per l’avversario, spesso esulava fa quell’atmosfera di pacatezza e di equilibrio quale si addice alle questioni scientifiche, specie in una scottante come questa, per assumere una forma ironica da maestro verso lo scolaretto saputello ed ignorante, in modo che, anche là dove egli aveva ragioni da vendere e poteva convincere l’avversario, irritandolo, invece, se ne attirava l’ostilità».

E dire che il gesuita Grassi cercò di stemperare l’aggressività del pisano, e della cerchia che lo sosteneva, o addirittura guidava sulle linee della polemica contro gli ecclesiastici, esternando sentimenti di ammirazione nei suoi confronti. Come riferisce Giovanni Ciampoli, nella lettera a Galilei, del 18 ottobre 1619: «Il padre Grassi Gesuita ha sempre trattato di lei onorandola». Notare il «sempre».

A distanza di anni, il 27 febbraio 1626 - nonostante, nel 1623, Galilei avesse pubblicato contro il Grassi «Il Saggiatore» -, un altro amico lo informò che: «Si parlò [col Grassi] di Vostra Signoria et egli ne fece onoratissima commemorazione, e mi disse che l’anno passato cercò di riconciliarsi con esso lei, ma che ella non se ne compiacque». Pochi mesi dopo, Galileo rispose a queste attestazioni, che potevano benissimo essere considerate come base d’avvio per stabilire un valido e pacato confronto, nel suo solito modo sarcastico. In una lettera al suo amico Marsili, del 21 aprile 1626, scrisse che non solo il Grassi, ma tutto l’Ordine dei Gesuiti: «In materie filosofiche sono assai triviali».

Bisogna peraltro riconoscere che, con la filosofia, Galilei dimostrò di saperci fare benissimo, riuscendo sempre a rigirare le carte a proprio favore. Soprattutto, quando nel momento cruciale della lotta ideologica, dovendo provare concretamente l’idea della rotazione della Terra, e non potendo negare gli argomenti aristotelici, dell’immobilità dell’atmosfera terrestre e della pietra che cade da una torre secondo una linea perpendicolare al suolo, egli mise in atto la famosa soluzione pitagorica. Quella della negazione del cosiddetto senso comune e della realtà stessa. Insegnandoci così a leggere la realtà non per quella che è. Ma «a rovescio». In quel frangente, come chiudendo gli occhi di fronte all’evidenza, il nostro lanciò sul banco la carta del dubbio. Poiché è innegabile che la Terra appare a tutti ferma, non gli restò che dubitare della percezione dei sensi.

E così filosofeggiò: «Meglio è dunque che deposta l’apparenza, nella quale tutti convergiamo, facciamo forza col discorso, o per confermare la realtà di quella, o per iscoprire la sua fallacia». Come ben sappiamo, anni dopo, Kant riprenderà questo atteggiamento, affermando la sua altrettanto famosa «rivoluzione copernicana» nel campo della conoscenza, tagliando così i ponti con la realtà fisica, ed avviando la ricerca filosofica lungo il cammino dell’idealismo: «movendo dall’ipotesi che siano gli oggetti a dover regolarsi sulla nostra conoscenza» (10). Gli oggetti sono dunque interpretati e riconosciuti secondo quello che noi pensiamo su di essi, e non in base a quello che sono per se stessi. E’ singolare, come dicevamo, che all’origine della scienza sperimentale vi sia una svolta contraria, idealistica, con la conseguente presa di distanza dalla realtà sensibile e dal cosiddetto «senso comune». Una sorta di «primato della legge» matematica e del modello ipotetico precostituito. Singolare, perché lo stesso Galileo, che precedentemente, come abbiamo appena visto, dubitò del senso, lo rivalutò prontamente, senza riserve, in altra ben nota occasione.

Quando infatti venne il momento per sfruttare a suo favore il cannocchiale, Galileo dimenticò il principio precedentemente enunciato, circa la critica della percezione e del suo oggetto, ed applicò direttamente senza dubbi e discorsi filosofici il suo occhio, purtroppo già debole, ad uno strumento alquanto rozzo e difettoso. In questo caso, egli non fece «forza col discorso», non «depose l’apparenza». Ma anzi prese l’immagine confusa che si presentava innanzi al grezzo oculare, per la realtà più vera. E pieno di entusiasmo definì il cannocchiale appena costruito come: «senso superiore e più eccellente de i comuni e naturali».

Vasco Ronchi, fondatore dell’Istituto Nazionale di Ottica in Arcetri, ha affermato senza alcun dubbio che: «non solo Galileo non era uno specialista ottico, ma, per sua fortuna, era dotato di una cultura ottica molto modesta». A parte che è risaputo che leggeva molto poco (si ha la prova che egli ancora nel 1610 non conosceva i «Paralipomena» di Keplero)… altro elemento per giudicare molto modesta la cultura ottica galileiana lo si trae dal fatto che, nella lunga polemica sorta a proposito del funzionamento del cannocchiale, Galileo, pur battendosi come un leone, sicuro del fatto suo, non accetta mai una battaglia sul terreno tecnico e alle innumerevoli obiezioni ottiche degli avversari egli non risponde mai direttamente, ma lascia rispondere ad altri… «col suo tacere in tutte le discussioni ottiche egli tradisce il suo stato di inferiorità rispetto ai contemporanei in fatto di cultura ottica» (11).

Galileo, dunque, così scettico e prudente nel caso della percezione sensoriale circa la quiete terrestre, in questo nuovo ed ancora sconosciuto ambito lasciò cadere le necessarie cautele che sempre devono accompagnare ogni buon sperimentatore, e come «la gran massa delle persone crede ciecamente - è proprio il caso di dire così - a ciò che vede in uno strumento ottico». Senza rendersi conto che invece: «se uno dicesse che ciò che si vede in un cannocchiale non è la realtà, ma è un’apparenza, da cui si deve dedurre com’è la realtà, non sarebbe affatto lontano dal vero» (12).

E’ noto che il cannocchiale di Galilei fosse poco più di un grezzo giocattolo, una «coglionaria». Infatti, dopo averlo prontamente visionato, il mago e scienziato Giambattista Della Porta, al pari di Galilei Accademico dei Lincei e che vantava diritti di priorità circa l’invenzione dello stesso strumento, inviava a Federico Cesi, un severo giudizio: «Del secreto del cannocchiale l’ho visto, et è una coglionaria, et è preso dal mio libro 9 ‘De rifractione’», pubblicato a Napoli nel 1593. Del resto, già nel libro 17 del suo «Magia naturalis», l’esoterista napoletano descrive la realizzazione ed il funzionamento della camera oscura, nella quale osserva tutte le figure esterne alla stanza e le proietta, capovolte, sulle pareti, raddrizzandole con una combinazione di uno specchio concavo e di uno convesso. E poi applica questa sua invenzione all’osservazione delle eclissi solari. E’ la premessa del cannocchiale.

Non ce la vogliano gli epigoni galileiani, se facciamo notare che il nostro, oltre a non aver inventato il cannocchiale, già presente in mezza Europa, non fu neanche il primo a puntarlo verso il cielo. Il 5 agosto 1609 il matematico e astronomo inglese Thomas Harriot (1560 - 1621) aveva già osservato la luna con un cannocchiale da sei ingrandimenti, illustrandone graficamente in modo dettagliato la superficie lunare. Galileo tuttavia fu molto più sveglio di questo inglese. Prontamente, presentò il telescopio come sua invenzione a Leonardo Donato, doge di Venezia, magnificandone non tanto la sua applicazione in campo scientifico, quanto in quello bellico. Lo attesta una sua lettera, del 24 agosto 1609. Il doge lo premiò altrettanto prontamente, raddoppiandogli lo stipendio, da cinquecento a mille fiorini. Nonché assicurandogli la sua riconoscenza, con l’offerta di un lusinghiero contratto a vita. Fatto, questo, che suscitò invidia e risentimenti nei colleghi dello scienziato, che lo accusavano di «aver buscato mille fiorini in vita, e si dice col benefizio d’un occhiale simile a quello che in Fiandra fu mandato al cardinale Borghese».

Esiste peraltro, a puro titolo di cronaca, una lettera di un certo Raffaello Gualtierotti, in data 24 aprile 1610, nella quale il suddetto comunicava a Galilei di essere stato lui a costruire il cannocchiale, ben dodici anni prima, pur non essendo riuscito a sfruttarlo pienamente. Il Gualtierotti si rivolse a Galilei per ottenere per lo meno un riconoscimento o citazione formale.
Di certo: «non per contrariare la gloria di V. S., ma per esservi a parte molto e molto giustamente, poiché a me si deve quella lode che V. S. dà ad uno Belga, quelo che V. S. può dare ala sua patria».

La Serenissima oltre che per il cannocchiale era già intervenuta a favore del Galilei in un’occasione assai delicata, forse attraverso l’autorevole intervento del suo protettore, il console Giovanni Francesco Sagredo, impegolato nei servizi segreti veneziani (13). Una questione di oroscopi, che il padre della scienza moderna compilò in chiave giudiziaria, ossia previsionale. Pratica questa vietata dalla Chiesa, in quanto contraria alla dottrina del libero arbitrio. E proprio per aver compilato oroscopi in chiave previsionale, come il più sprovveduto ciarlatano, Galilei stava per essere processato nel 1604. Se il procedimento non fosse stato prima sospeso e poi bloccato, grazie al pronto e fermo intervento della Repubblica di Venezia. Gli oroscopi compilati da Galilei costituiscono un aspetto alquanto trascurato, se non addirittura ignorato, dai molteplici autori delle sue biografie, per ovvi motivi. Anche se di oroscopi, Galileo ne compilò molti, di tutti i generi, per tutti i livelli. Incorrendo, anche in questo campo, in clamorose cantonate.

Come nel caso della granduchessa Cristina di Lorena, sua illustre estimatrice, la quale, incautamente, avanzò allo scienziato la richiesta di stilare un oroscopo per il consorte Ferdinando I de’ Medici. Galilei rispose prontamente e, nel gennaio del 1609, pronosticò al granduca un felicissimo futuro di regnante, utilizzando per i suoi calcoli le nuove tavole che Reinhold aveva compilato, nel 1551, sulla base della teoria copernicana. Peccato che dopo una ventina di giorni, il povero marito della granduchessa si ammalò senza rimedio. E morì in modo alquanto repentino. Lo scienziato tuttavia non si perse d’animo. Superò l’imbarazzo, continuando ad indagare i significati occulti dei moti delle stelle. In fondo, una svista «occulta» può capitare a tutti. E riprese, senza più sbilanciarsi troppo, a mettere la sua arte a disposizione di nobili ed aristocratici potenti, come Cosimo II de’ Medici ed il suo protettore Sagredo, in grado di ricompensarlo in modo adeguato. Egli pensò bene inoltre di interpretare le stelle pro domo sua.

Ma anche in questo caso non ci «azzeccò». Infatti, sbagliò a leggere il responso degli astri persino riguardo ai caratteri delle figlie. Per Virginia previde un carattere chiuso, calcolatore e distaccato. Per Livia un’innata tendenza alla dolcezza ed alla docilità. Invece, la prima si rivelò di temperamento tenero ed affettuoso. Al contrario della seconda, la fredda Livia. Tutte queste sono: «Cose note tra gli storici. Ma rimosse nel timore di intaccare un mito» (14).

D’altra parte, bisogna anche capire il lato umano di Galileo, costretto a cercare in tutti i modi di far soldi, oltre che per sbarcare il lunario, forse anche per trovare liquidità per compensare certe sue costose «debolezze». Se è vero che: «l’illustre scienziato non disdegnava le ragazze allegre: scrisse un poemetto contro il ‘portar la toga’ perché quest’obbligo, rendendolo riconoscibile come docente universitario, gli impediva di frequentare i bordelli» (15).

La sua premurosa madre, Giulia Ammannati - che Andrea Albini, senza spiegarne il motivo, definisce bisbetica, forse solo perché come tutte le madri conosceva bene il carattere e le intemperanze del figlio -, incaricò un servitore di controllarlo. In questo modo, ella seppe che, tra l’altro, il caro figliolo, invece che a Messa: «andava da quella sua putana Marina veneziana», domiciliata in località Pontecorvo (16). Si tratta della compagna di «giochi», Marina Gamba, che Galileo frequentò assiduamente per circa un decennio, senza impegni, nonostante i tre incidenti di percorso noti, dai quali nacquero tre figli. La storia illecita terminò, quando lo scienziato decise di lasciare la corte veneziana, per tornarsene a Firenze, nel 1610, alla corte di Cosimo II, con il titolo di «Matematico e filosofo primario». Portò con sé le due figlie, Virginia e Livia, sistemandole al più presto in un monastero di clausura, senza preoccuparsi troppo del loro eventuale consenso, e nemmeno dell’effettiva consistenza della loro vocazione. Il piccolo Vincenzo, nato nel 1606, restò invece con la mamma, che non sembrò fare un dramma di questo abbandono. Poco dopo, infatti, la «Marina veneziana» trovò la sua strada, sposando a tutti gli effetti tale Giovanni Bertoluzzi, che in chiave del tutto moderna non si formalizzò davanti al suo stato di ragazza madre, sparendo così ufficialmente dalla vita e dalle cronache galileiane.


Tornato a Firenze, il nostro fece per così dire il cosiddetto salto di qualità, frequentando non più i pubblici bordelli di Padova e Venezia. Ma i salotti medicei, nei quali, oltre che le immancabili buone donne, nobili, viziosi, artisti, filosofi e affini, ebbe modo di conoscere, e aderire, alla nascente Accademia dei Lincei, fondata dal principe Cesi, i cui appartenenti, almeno formalmente, si proponevano di trasporre alla scienza, quanto San Bernardo disse riguardo alla fede: «linceos oculos habet». Tale consorteria, forse solo apparentemente scientifica, venne fondata alcuni anni prima, il 25 settembre 1603, alle 9 e 50 del mattino, secondo un preciso rituale, a sfondo magico, fissato in modo opportuno per perseguire un fine specificamente superstizioso, mai verificatosi in forma solenne neppure nel tanto ingiustamente vituperato medioevo. In tale occasione, infatti, i componenti si predisponevano innanzitutto a: «captare il favorevole influsso degli astri, specialmente di Mercurio».

Proprio quel Mercurio latino, sinonimo dell’enigmatico Ermete, tanto invocato nelle pratiche occulte rinascimentali: «dietro il quale si può identificare Thot - altrimenti detto Ermete il Grande - divinità che aiuta Horus, dio del Sole nascente in lotta contro le tenebre e figlio di Osiride, a riconquistare il regno invaso da Seth» (17). Metafisica solare, abbiamo scritto altrove, celata dietro la rivoluzione eliocentrica copernicana. Il verbale di questa prima riunione, scritto in prima persona dal principe Cesi: «appare chiaramente come la descrizione di un’operazione magica condotta secondo i canoni dell’ermetismo rinascimentale con la quale si cerca, mediante la manipolazione di metalli e vegetali collegati ai pianeti, di attrarne simpateticamente l’influsso, convogliandolo verso di sé dalla sfera superiore del cosmo… Su fogli di carta di seta, predisposti allo scopo, venivano trascritti pitagorici misteri».

Si capisce così quale fosse, almeno nel loro nascere, l’intima ed occulta natura degli accademici Lincei. Ossia, come essi intendessero predisporsi all’iniziazione magica. Per realizzarsi, quindi, soprattutto nel ruolo di «sagacissimi indagatori delle scienze arcane e dediti dell’arte paracelsica, amanti delle scienze e indagatori delle arti spagiriche» (18). E’ in questo ambiente propizio alle «novità», dicevamo, che Galileo continuò le sue osservazioni celesti con il telescopio. Nonostante la sua vista cominciasse ad appannarsi. Per poi esaurirsi completamente, nel 1637, pochi anni prima della sua morte. Appare peraltro strano che, nonostante la debole vista, Galileo riuscisse a compiere con il cannocchiale sorprendenti osservazioni celesti, annotandone alcune nei minimi particolari.

E proprio per risolvere questo dilemma, si sta esaminando la possibilità di analizzare il dna dello scienziato. Anche per comprendere fino a che punto i suoi difetti visivi influenzassero le sue scoperte astronomiche (19). Per far questo, sarà necessario riesumare il suo cadavere, che subito dopo la morte venne sepolto in una celletta nascosta del campanile di Santa Croce. Ma che il 12 marzo 1737, «per intervento della massoneria fiorentina e del granduca Gian Gastone» (20), venne trasferito nella Basilica di Santa Croce. Ove attualmente giace, in pompa magna, insieme alle spoglie del suo discepolo Vincenzo Viviani, ed a quelle di una giovane donna. Forse, la sua prediletta Virginia, alias suor Maria Celeste, morta nel 1634, a soli trentatré anni.

Quasi per una misteriosa legge del contrappasso, l’accademico linceo che dubitò della vista, nel caso del moto del Sole e delle stelle, ma che poi la usò intensamente, indagando il cielo attraverso il cannocchiale, perse infine il dono di questo meraviglioso senso. Non senza una enorme pena. Tuttavia, speriamo che, infine, anche in base a questa grande sofferenza, parafrasando il cardinal Baronio, Galileo sia riuscito ad andare in cielo. Egli, che volle insegnarci come va il cielo. Se così non fosse, tutta la sua scienza si sarebbe dimostrata inutile, dal punto di vista della Fede. Proprio perché presumere di sapere come va il cielo, non corrisponde ad entrarvi. Ma la nostra speranza, oltre che nella misericordia del Padre, è rinforzata da due fatti, sottolineati dal Pagnini.

Il primo: Galileo, dopo il processo e la condanna del Santo Uffizio, volle recarsi una seconda volta in pellegrinaggio a Loreto, dopo esservi già stato nel 1618.

Il secondo: Egli inoltrò la richiesta di poter accedere alla Santa Comunione.

In questi due atti di conversione dello scienziato si può, forse, leggere la causa stessa di molte contraddizioni ed atteggiamenti equivoci che egli assunse, specialmente nel confronto della Fede. Quasi una sorta di contrasto fra la sua buona coscienza religiosa, il saggio timore di Dio, e le ambigue «direzioni» che, forse, gli venivano imposte dall’esterno, dalle potenti e segrete «adiacenze», che lo scienziato frequentò nella sfarzosa, sfaccettata e maliziosa, corte fiorentina.

In ogni caso, la sua ulteriore richiesta di tornare come semplice pellegrino a Loreto, insieme a quella di poter ricevere il Santissimo Sacramento: «sono due argomenti che dovrebbero mettere in serio imbarazzo coloro che vollero col suo nome battezzare una loggia massonica, quasi egli fosse un martire del libero pensiero» (21).

Giancarlo Infante



1) R. Zanin (a cura di), «Galileo Galilei - Tre lettere», Pagus Edizioni, Paese (Treviso) 1991, pagina 62.
2) D. Shapere, «Significato e mutamento scientifico», in AA. VV., «Rivoluzioni scientifiche», a cura di I. Hacking, Laterza, Roma-Bari, 1984, pagina 57.
3) E. Bellone, «Il tempo del senso comune e il tempo delle teorie fisiche», in AA VV «Filosofia del tempo», a cura di L. Ruggiu, Mondadori, Milano, 1998, pagina 87.
4) D. Shapere, «Ibidem».
5) A. Koyré, «Studi galileiani», Einaudi, Torino, 1979, pagina 6.
6) G. Galilei, «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo - Opere», Einaudi, Torino, 1970, volume VII, pagina 355.
7) M. Caleo, «Galileo l’anticopernicano», Dottrinari, Salerno, 1992, pagina 20.
8) P. Pagnini, (a cura di), «G. Galilei: ‘Opere’ », Volume II, Adriano Salani Editore, Firenze, pagine 69 e 70.
9) G. Morpurgo-Tagliabue, «I processi di Galileo e l’epistemologia», Edizioni di Comunità, Milano, 1963, pagina 123.
10) E. Kant, «Critica della ragion pura», (a cura di) P. Chiodi, UTET, Torino, 1986, pagina 44.
11) V. Ronchi, «Galileo e il suo cannocchiale», Boringhieri, Torino, 1958, pagine 105 e 110.
12) «Ibidem», pagina 116.
13) P. Preto, «I servizi segreti di Venezia», Il Saggiatore, Milano, 1994, pagine 209 e 293.
14) P. Bianucci, «Gli oroscopi sbagliati di Galileo», La Stampa, 24 dicembre 2008, pagina 42.
15) «Ibidem».
16) A. Albini, «Oroscopi e cannocchiali», prefazione di M. Hack, Avverbi, Grottaferrata, novembre 2008, pagina 116.
17) J. P. Corsetti, «Storia dell’esoterismo e delle scienze occulte», Edizioni Mondolibro, Milano, 2003, pagina 53.
18) Citazioni tratte dall’articolo di A. Socci: «Il lato debole di Giordano e di Galileo», Il Sabato,
18 gennaio 1992, numero 3, pagina 52 e seguenti.
19) G. Caprara, «Un test del dna per svelare i misteri di Galileo», Corriere della Sera,
22 gennaio 2009, pagina 25.
20) «Ibidem».
21) P. Pagnini, «Citato», pagina 57.


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