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La sfida delle monete, tutti contro tutti
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Obama vuole svalutare il dollaro

NEW YORK
- Tutti contro tutti nella guerra delle monete: Barack Obama e il suo banchiere centrale Ben Bernanke applicano una tattica spregiudicata che ebbe un lieto fine (ma solo per gli americani) esattamente venticinque anni fa. Fu una poderosa svalutazione del dollaro - perse il 54% rispetto al marco tedesco e allo yen giapponese in due anni - a salvare l'America di Ronald Reagan dalla recessione dei primi anni Ottanta. E' un nuovo tracollo del dollaro il gioco pericoloso con cui la Federal Reserve tenta di trasferire la crisi americana al resto del mondo.

Oggi il concorrente cruciale per l'America è la Cina, un interlocutore meno malleabile del Giappone anni 80. E Pechino ha il vantaggio di aver studiato l'alto costo che la rivalutazione dello yen impose all'economia nipponica, precipitandola in una crisi da cui non è mai uscita. Intanto, dalla sfida tra Washington e Pechino per ora esce un solo perdente: l'Eurozona, costretta a subìre passivamente un nuovo rialzo della sua moneta che rischia di uccidere sul nascere la ripresa delle esportazioni europee.

Questo spiega la mossa di Nicolas Sarkozy, che in vista della presidenza francese del G20 (a novembre) cerca disperatamente di coinvolgere la Cina in una "pace mondiale" delle monete. O almeno un armistizio. Il presidente Hu Jintao sarà a Parigi a novembre. Per allora la Francia lavora a un accordo con la Cina sul "coordinamento delle politiche di cambio e la stabilità del sistema monetario internazionale", secondo quanto rivelato ieri dal Financial Times.

Il modello è quello dei mega-accordi degli anni Ottanta: il 22 settembre 1985 all'hotel Plaza di New York, il 22 febbraio 1987 al Louvre (nell'ala del museo parigino che allora ospitava il ministero del Tesoro). Il contro-modello, ovvero l'Apocalisse che tutti a parole dicono di voler evitare, è la spirale delle svalutazioni e dei protezionismi che negli anni Trenta aggravò la Grande Depressione e la prolungò fino alla seconda guerra mondiale.

L'iniziativa della Francia non dispiace a Washington. Per l'America qualunque cosa assomigli all'accordo del Plaza evoca fausti ricordi. A quell'epoca il club della governance globale era il G6 (l'Italia non ne faceva parte). Oggi ovviamente è il G20 dove siedono le potenze emergenti come Cina India e Brasile, tutte molto importanti nella tempesta valutaria che imperversa da settimane. Due antefatti sono cruciali per capire il precipitare degli eventi. Da una parte il fiasco del cosiddetto G2, cioè dell'asse sino-americano.

Naturalmente non è mai esistito il progetto di un direttorio a due per governare il mondo, però all'inizio dell'Amministrazione Obama il dialogo tra le superpotenze prometteva bene. Poi è andato quasi tutto storto: dal mancato accordo di Copenaghen sul clima, alla rivalutazione del renminbi, promessa e mai attuata (se non a dosi omeopatiche, di nessuna efficacia).

Nel frattempo è successo che la ripresa economica americana si è esaurita. E Obama ha perso ogni margine di manovra politica interna per un rilancio della crescita attraverso nuove iniezioni di spesa pubblica. A questo punto la Federal Reserve ha tirato fuori la vecchia arma: la svalutazione del dollaro, per l'appunto. Proprio quella che funzionò felicemente ai tempi di Ronald Reagan. Quando presidente della Fed era Paul Volcker che oggi è un consigliere di Obama.

L'economia americana passò da una decrescita (meno 0,3% del Pil) all'inizio della presidenza Reagan nel 1980, a una crescita del 4,1% del Pil al termine del suo secondo mandato nel 1988. Nello stesso periodo il tasso di disoccupazione scese dal 7,1% al 5,5% della forza lavoro. Il miglioramento della competitività rispetto ai due concorrenti di allora, Giappone e Germania, fu uno dei fattori di quella ripresa. Ovvio che Obama e Bernanke guardino con nostalgia a quell'epoca.

Certo, nel frattempo l'economia americana è cambiata, la sua base manifatturiera si è rattrappita, molte produzioni sono state delocalizzate definitivamente in Asia e in altri paesi emergenti, nessuna svalutazione del dollaro basterà a farle tornare. Ma tant'è, anche se il dollaro debole avrà un beneficio inferiore rispetto ai tempi di Reagan, è meglio che niente. Soprattutto se l'alternativa per Obama è la paralisi, l'attesa passiva della batosta elettorale di novembre. E così Bernanke è sceso in campo. Ha annunciato che la Fed è pronta a immettere generose dosi di liquidità nell'economia. Lo farà acquistando titoli del Tesoro sul mercato, e stampando dollari per comprarli.

Poiché la moneta risponde all'equilibrio della domanda e dell'offerta, crearne in eccesso ha come conseguenza la sua perdita di valore. Infatti sono forti gli effetti d'annuncio delle parole di Bernanke: ogni volta che ha promesso l'aumento della liquidità il dollaro ha perso in media il 6,6% sulle altre monete come "prezzo psicologico", prima ancora che la Fed passi all'azione. Il problema però è che l'indebolimento è stato seguito quasi integralmente dal renimnbi, la moneta cinese. Che è rimasta quasi incollata al ribasso del dollaro.

La Cina continua nella politica di sempre: mantenere un cambio artificialmente basso, come aiuto alle sue esportazioni. In questo gioco si è inserito il Giappone. Preoccupata perché lo yen stava salendo alle stelle, la banca centrale di Tokyo ne ha venduto sui mercati per 25 miliardi di dollari. Dalla Corea del Sud all'Inghilterra, molte banche centrali fanno lo stesso. E' la "guerra mondiale delle monete" denunciata dal Brasile.

Per ora c'è un perdente sicuro: l'euro, balzato a quota 1,379 sul dollaro. Questo è già un vantaggio non trascurabile per gli Stati Uniti. Produzioni ed esportazioni made in Usa e made in Europa sono decisamente più simili fra loro, rispetto alle specializzazioni dell'industria cinese. Guadagnare competitività sull'Eurozona attraverso il dollaro debole è una mossa che agli Stati Uniti fa bene comunque. Verso la Cina adesso Washington sfodera altre forme di pressione. Il Congresso ha già approvato una legge che autorizza Obama a colpire con dazi doganali tutte le merci made in China, se Pechino non rivaluta in misura consistente il renminbi. Un altro disegno di legge che potrebbe passare a novembre prevede un castigo fiscale per le multinazionali Usa che delocalizzano attività all'estero.

Pur sotto pressione, la Cina ha le sue buone ragioni per resistere. L'accordo del Plaza, visto da Pechino è un precedente molto pericoloso. Nel 1985, imponendo al Giappone di rivalutare lo yen, Reagan pose le premesse per la fine del miracolo nipponico. Entro la fine di quel decennio esplose la bolla speculativa di Tokyo, l'economia del Sol levante entrò in un tunnel decennale di stagnazione. Oggi il braccio di ferro sulle monete tra Washington e Pechino assomiglia a una partita per decidere chi sarà il "prossimo Giappone". Finora questo rischio ha riguardato l'America, bloccata in un dopo-recessione senza vera crescita.

Adesso i cinesi temono che li si voglia lasciare col cerino acceso, accollandogli una pesante perdita di competitività. Il premier cinese Wen Jiabao lo ha detto esplicitamente a Obama: "Una poderosa rivalutazione del renminbi non risolverebbe il vostro deficit con l'estero, ma farebbe chiudere migliaia di aziende cinesi che lavorano per l'export". Non a caso ieri Wen Jiabao era ad Atene, ad annunciare che "la Cina farà uno sforzo per sostenere la Grecia, e tutta l'Eurozona". Nella guerra delle monete ognuno sta cercando di conquistarsi alleati, per spostare i rapporti di forza se mai si dovrà negoziare l'armistizio.

FEDERICO RAMPINI

Fonte >
  La Repubblica



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