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In merito alla lettera del Papa
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Benedetto XVI ha scritto, come è noto, una lettera a tutti i vescovi per spiegare le ragioni della revoca della scomunica ai quattro presuli consacrati da monsignor Lefebvre. Un gesto che, forse, giunge come epilogo di una vicenda che in questi mesi ha denudato agli occhi dell’opinione pubblica, facendo cadere ogni velo di ipocrisia, quel che già si sapeva, ossia che dentro e fuori la Chiesa ci sono «lupi» che aspirano a minarne le fondamenta. Quando l’attuale Pontefice fu eletto, chiese a tutti preghiere e si affidò a Maria perché egli non indietreggiasse di fronte ai «lupi». Disse proprio così: «affinché non indietreggi di fronte ai lupi». Alla luce di quanto è accaduto in questi ultimi due mesi possiamo dire che Benedetto XVI non disse quella frase per pura circostanza o per retorica. Egli, salendo al soglio di Pietro, sapeva molto bene cosa lo attendeva. Sapeva che nel tentativo di riportare la barra della nave di Pietro al centro si sarebbe dovuto scontrare con quelli, moltissimi, che la vogliono invece costantemente volta a sinistra e con quelli, molti di meno, la vogliono invece volta a destra.

Ma Benedetto XVI sa che il Cristianesimo è sempre un «et-et» e che sono invece le eresie a voler fare della parte il tutto. Lo stesso termine «eresia» significa etimologicamente «ritagliare una parte del tutto». L’errore infatti nasce sempre dalla parzialità, dal riduzionismo di ciò che di per sé è essenzialmente un complesso nel quel tout se tient ossia la Verità. Lo ricordavamo di recente in un articolo, «Dicotomie ingannevoli», su questo stesso sito a proposito della verità teologica dell’antropologia tradizionale che rifugge dagli estremi dell’homo homini lupus e del bon sauvage, ossia dell’uomo corrotto totalmente dal peccato e dell’uomo buono per natura. Radicalizzazioni che derivano, appunto, da errori teologici, da eresie che assolutizzano indebitamente una parte della più complessiva Verità di fede, il peccato dimenticando l’originaria bontà e la redenzione, da un lato, l’originaria bontà dimenticando il peccato e la redenzione, dall’altro.

La cifra vera della lettera di Benedetto XVI, pubblicata il 13 marzo 2009, sta tutta in quel suo richiamo all’«apertura dei cuori». Un richiamo che il Papa rivolge a destra e a sinistra, ai tradizionalisti ed ai «post-conciliatoristi». Finora, bisogna sottolinearlo, una risposta positiva sembra venuta più dai lefevriani che dai loro detrattori, a dimostrazione che, nonostante il mal di pancia che ha colpito certuni in ambito tradizionalista, se l’amore per il Papa, per la Chiesa romana, è cosa sicura e ferma tra i tradizionalisti, non altrettanto può dirsi per i «post-conciliatoristi».

Naturalmente dal discorso si sono già automaticamente posti fuori, da soli, da un lato i sedevacantisti e dall’altro i fautori di qualcosa che non è più la Chiesa, come gli Hans Kung, i Melloni e i Vito Mancuso. Certo, mentre i sedevacantisti non hanno voce mediatica, al contrario trovano, e non a caso, grande audience nella stampa e nelle TV i «vaticano terzisti» ossia proprio quei Mancuso, Kung, Melloni e consorteria che hanno iniziato un gran battage propagandistico sui media invocando la detronizzazione di Benedetto XVI e la convocazione di un Vaticano III che faccia finalmente coincidere lo «spirito del Vaticano II», questo spettro delle loro fantasie teologiche, con i documenti conciliari. Questo perché essi ben sanno che se negli anni ‘60 e ‘70 hanno avuto facile gioco a far passare lo spettro per la carne, in realtà ora la concretezza del corpus dottrinario ed ecclesiale sta reiniziando a riprendersi i suoi inalienabili diritti.

«Apertura del cuore». E’ esattamente questa che manca troppo spesso a ciascuno di noi e da questa mancanza al passaggio a posizioni di durezza fondamentalista, che stanno tutte nell’assolutizzazione delle proprie parziali convinzioni, del proprio ego ipertrofico, il passo è purtroppo fin troppo facile. Al contrario Benedetto XVI sembra aver fatto della mitezza e dell’unità inscindibile di Verità e Carità l’emblema del proprio Pontificato. Evangelicamente: «Prendete il mio giogo sopra di voi ed imparate da Me, che sono mite e umile di cuore» (Matteo 11, 29).

Benedetto XVI sa che a Dio, a quel Dio che vuole riportare in un mondo che se ne è allontanato, non piace la «superbia farisaica». Quella che porta l’uomo a ritenersi individualisticamente depositario della Verità laddove tale deposito è stato affidato solo alla Chiesa.

La radice delle eresie è stata sempre la «superbia». Se Francesco è stato approvato dalla Chiesa mentre Valdo no, nonostante l’assoluta somiglianza delle loro proposte di vita evangelica, è perché il poverello di Assisi poneva l’umiltà al di sopra di tutto ed era disposto a tutto rivedere se la Chiesa glielo avesse imposto. Al contrario Valdo fece dell’indignazione per gli scandali del clero corrotto un motivo di ribellione all’autorità gerarchica ecclesiale. Non c’era in Valdo umiltà ma solo «orgoglio rivoluzionario», come più tardi in Lutero. San Francesco invece, con grande scandalo degli astanti sempre pronti al linciaggio del «prete puttaniere» o «simoniaco», baciava le mani dei sacerdoti peccatori perché erano mani che consacravano e davano il Corpo ed il Sangue di Cristo.

Sul piano ecclesiale, poi, l’eresia diventa settarismo. Anche qui si tratta del ritagliare una parte per farne abusivamente il tutto. Ma, ce lo ha detto il Signore, ogni tralcio tagliato dalla Vite è destinato a seccare, è destinato alla «chiusura del cuore», all’indurimento della coscienza (esattamente come è capitato all’Israele post-biblico), alla sclerotizzazione spirituale. La storia ha dato ampia riprova della verità dell’avvertimento di Cristo. Non a caso ogni gruppo che si è staccato dalla comunione con Roma è finito per «seccare», in misura maggiore o minore a seconda del grado di mantenimento, perlomeno minimale, della continuità apostolica. Così, ad esempio, gli ortodossi, che pur hanno mantenuto in grado notevole quella continuità, tuttavia, separati da Roma, hanno finito per rinchiudersi in chiese autocefale, certamente apostoliche ma storicamente legate al potere statuale tradizionale, il cui venir meno ha rischiato di travolgerle, che concepiscono l’universalità soltanto come «confederazione» di chiese patriarcali senza primato. Peggio poi nel caso dei protestanti che privi anche di continuità apostolica hanno finito per sottomettersi del tutto al potere statuale, favorendo la nazionalizzazione ecclesiale e frammentandosi in una miriade di sette, in quanto per essi la «chiesa» è solo quella dell’invisibilità intimistica della coscienza individuale, senza alcuna visibilità esteriore e «corporea». Gli anglicani si pongono come una sorte di via mediana tra l’errore ortodosso e quello protestante.

In ogni caso, dalla separazione da Roma è sempre derivato, in forma più o meno grave, il settarismo. Persino quando il pretesto per separarsi da Roma fu quello della presunta difesa della Tradizione. All’indomani del Concilio Vaticano I un gruppo di vescovi dissidenti, rispetto alla proclamazione del dogma dell’Infallibilità papale in materia di Fede e di morale, fuoriuscì dalla Chiesa cattolica assumendo il nome di «chiesa dei vecchi cattolici». Dove quel «vecchi cattolici» voleva significare che essi si ritenevano i puri difensori della Tradizione che a loro dire non contemplava, neanche impliciter, l’infallibilità pontificia. Ebbene, in nome di questa presunta difesa della Tradizione, quei «vecchi cattolici», dopo diverse peripezie, sono finiti nella «chiesa» calvinista di Utrecht. Mentre la Chiesa cattolica, nonostante tutti gli assalti che ha dovuto subire e nonostante tutti i travagli che la tormentano ai giorni nostri, è ancor oggi qui, viva e vegeta, chi si ricorda, a distanza poco meno di 150 anni, dei «vecchi cattolici»?

Riteniamo che monsignor Lefebvre, a suo tempo, e monsignor Fellay, oggi, siano sempre stati memori del tragico destino dei presunti «tradizionalisti» del Vaticano I. Ecco perché se il primo, passando a miglior vita, ha raccomandato ai suoi vescovi di non lasciare mai Roma, il secondo oggi, adempiendo ai voti di chi lo aveva ordinato vescovo, sta pazientemente ricucendo con il Papa, nonostante, ripetiamo, i molti mal di pancia interni alla sua Fraternità.

Con Benedetto XVI i lefevriani hanno trovato sulla loro strada un Papa provvidenziale. Spetta ora a loro saper comprendere e cogliere il segnale che la Provvidenza ha loro inviato per chiamarli a collaborare all’interno della Chiesa a riaffermare in Essa, non fuori o contro di Essa, i diritti della Tradizione. Lo Spirito Santo ha fatto loro incontrare un Papa che, nella sua lettera ai vescovi, spiegando le motivazioni di misericordia paterna che lo hanno spinto ad «aprire il cuore» a questi suoi figli in difficoltà, non ha affatto nascosto che ci sono ancora diverse difficoltà derivanti da «irrigidimenti» ma non ha neanche nascosto, anzi per la prima volta Roma ha pubblicamente ammesso, che ci sono state «stonature» anche nella Chiesa post-conciliare.

Benedetto XVI se da un lato «bacchetta» i lefevriani ricordando loro che «Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962», ed in proposito monsignor Fellay ha già rassicurato il Papa che la Fraternità Sacerdotale San Pio X non ha mai inteso congelare il magistero al pontificato di Pio XII, dall’altro lato, ed è questo che vorremmo che i tradizionalisti annotassero, anzi scolpissero, nelle loro coscienze, ha redarguito, con parole nient’affatto leggere, «coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio» ai quali, dice il Papa, «deve essere richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuol essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive». In altri termini Benedetto XVI ha pubblicamente condannato tutti coloro che in nome del fantomatico «spirito del Concilio» cercano di segare il ramo sul quale sono seduti. Con ciò i «vaticanoterzisti» hanno avuto il ben servito.

Maurizio Blondet, proprio all’indomani della notizia della revoca della scomunica, su questo stesso sito, prima di altri commentatori aveva compreso il significato profondamente ecclesiale e misericordioso del gesto del Papa. Il nostro direttore ha, infatti, scritto che la revoca era intesa, nel cuore del Papa, a far sì che vescovi validamente benché non legittimamente consacrati, e che quindi possono somministrare efficacemente i sacramenti, non andassero alla deriva lontano dalla Chiesa e che quel potere sacramentale fosse riportato in seno alla Cristianità.

Glielo diciamo con tutta la stima e l’amicizia che nutriamo per lui. Non sempre siamo d’accordo al cento per cento con il nostro direttore, ma ci sono occasioni nelle quali egli si supera e nelle quali sottoscriveremmo ad occhi chiusi il suo pensiero. Quanto ebbe a scrivere circa le motivazione della revoca della scomunica fu una di quelle occasioni. Sentimmo subito di condividere a pieno il suo argomentare. Ebbene oggi abbiamo la riprova che Blondet aveva visto più che giusto. E ce la dà il Papa stesso quando, spiegando le motivazioni del suo gesto, scrive:

«Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli  anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti così che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme. Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi? Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate - superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi, ecc. Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori. Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura?».

Ecco, come si vede il Papa invita all’apertura del cuore. E se sottolinea la sussistenza di «stonature» tra i lefevriani non nasconde affatto che «stonature» vi sono anche nell’ambito ecclesiale e che spesso la mancanza di carità verso i seguaci di monsignor Lefrebvre, il mancare di stare persino a sentire le loro ragioni, ha causato quegli «irrigidimenti» che ora però, dall’una e dall’altra parte (il che significa che nessuno deve «cantar vittoria» perché se si giungerà ad una riconciliazione non avrà vinto Lefebvre o il Vaticano II ma avrà vinto solo Cristo), devono essere superati nel reciproco rispetto, nella validazione di quel che di autentico vi è in quanto dicono i lefreviani, e nella comune obbedienza a Pietro.

L’autore di queste note non è un lefevriano. Egli si dichiara tradizionalista, nel senso migliore del termine, senza essere per questo lefevriano. Ha sempre osteggiato i post-conciliari ed i vaticanoterzisti senza però cadere nel settarismo o nel pericolo del settarismo. Ha sempre avuto stima e rispetto per i lefevriani e gratitudine per loro quando effettivamente difendono ciò che è tradizionale, ma non ha mai preteso per questo di ingessare la Tradizione (1). Né mai lo scrivente ha ritenuto di trattarli con sufficienza o alterigia. Ecco perché la via della riconciliazione intrapresa da Benedetto XVI e monsignor Fellay è nei personali voti ed auspici dello scrivente. Il ritorno dei lefevriani alla piena comunione con la Chiesa sarà certamente un bene per loro, che torneranno a respirare spiritualmente a pieni polmoni, areando la canonica e superando diverse sclerotizzazioni, ad iniziare da quella della confusione del piano storico con quello teologico emersa, ad esempio, nelle parole di monsignor Williamson (2). Ma il loro rientro nella Chiesa sarà senza alcun dubbio un sommo bene anche per la Chiesa stessa che ha urgentemente bisogno del loro clero nel pieno delle sue funzioni.

C’è un’ultima cosa che vorremmo far notare. Ci ha fatto molto riflettere una frase della lettera del Santo Padre. Una frase di sapore autobiografico scritta con evidente riferimento a quanto occorsogli a seguito della revoca della scomunica. Egli con tale frase ha messo in evidenza agli occhi del mondo intero l’ipocrisia dell’Occidente liberale che si riempie la bocca, ad ogni occasione «opportune et inopportune», di belle parole come «tolleranza» e «libertà», fino a voler esportare la liberal-democrazia a suon di bombe, ma che poi svela il suo vero volto feroce nell’intolleranza che suole riservare a qualunque gruppo minoritario osi contestare i suoi valori liberali. Il Papa, avendo, e non da ora, provato sulla sua pelle questa feroce intolleranza, circondato anche in quest’ultima occasione dai famelici «lupi» della «teologia civile dell’Occidente», dentro e fuori la Chiesa, se ne è lamentato con parole profondamente vissute che non ci resta che riportare nella loro efficacia insuperabile e lasciare alla riflessione dei lettori: «A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi - in questo caso il Papa - perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo».

E’ in fondo una vecchia storia: quella del «capro espiatorio», della «vittima sacrificale». Una storia abolita e superata dal Sacrificio della Croce, nel quale l’Unica Vera Vittima è stata immolata per tutti, ma che riappare - non a caso - nell’Occidente scristianizzato che, rifiutata la Vera Vittima Immolata, torna al «sacrificio umano».

Luigi Copertino





1) Ad esempio, lo scrivente pur difendendo il pensiero teologico dell’Aquinate, quello vero, come ripreso da valenti pensatori del calibro di Cornelio Fabro, non ha mai confuso San Tommaso con la cattiva «scolastica», molto diffusa negli ambienti tradizionalisti, che, riducendone il pensiero ai soli schemi del sillogismo aristotelico - San Tommaso al contrario insieme allo Stagirita pose a fondamento della sua Somma Teologica Sant’Agostino e lo pseudo-Dionigi Areopagita - ne ha fatto una sorta di precursore del razionalismo kantiano, la cui pretesa sarebbe quella di ridurre Dio, che è Infinito Mistero, all’interno della sola razionalità, realizzando in tal modo una prometeica «reificazione» o «cosificazione» di Dio. Per l’autentico tomismo, invece, la ragione, che è così del tutto valorizzata come base naturale della Grazia, può certamente arrivare a comprendere il mistero di Dio ma solo fino ad un certo punto oltre il quale quel mistero la supera all’Infinito, senza però annullarla.
2) La «confusione del piano storico con quello teologico emersa, ad esempio, nelle parole di monsignor Williamson», è emersa anche presso altissimi rappresentanti del clero nell’imporre la «religione dell’olocausto» e l’eresia di una seconda via di salvezza, a prescindere dall’unica rappresentata da Cristo, che sarebbe riservata agli ebrei (nota dell’editore).

 
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