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Società e autorità
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La natura dell’autorità

La società è un’unione morale di più uomini, per agire in vista del bene comune. La causa finale della società è il benessere comune temporale; la causa materiale sono le persone; quella efficiente è Dio che ha creato l’uomo socievole per sua natura; mentre la causa formale è l’unione morale tra i soggetti, ossia i diritti-doveri, mediante i quali gli individui sono uniti ad agire assieme, in vista del bene comune. L’autorità, deriva dalla società costituita, non è una delle quattro cause essenziali della società, ma una proprietà (o accidente proprio-necessario, che deriva direttamente e necessariamente dalla natura dell’autorità, e non ne è l’essenza).

Alcuni filosofi (per esempio il cardinal Tommaso Zigliara O. P.), ritengono che l’autorità sia l’essenza della società (1); altri (ad esempio Joseph Gredt O. S. B. e Josephus Goenaga S. J.), sostengono che essa è un accidente proprio della società e non la sua essenza (2), anche padre Felice Maria Cappello S. J., e il cardinale Alfredo Ottaviani seguono tale tesi (3).  Tuttavia essi non spiegano il perchè di tale tesi e non si dilungano oltre.

Mi sembra di poter dire che l’autorità, che ha il compito di indirizzare i diversi individui, (che costituiscono la società) al fine comune, proprio in quanto socii o associati in vista del bene comune (causa formale della società), mediante diritti e doveri, che li uniscono o associano ad agire in vista del fine comune, presuppone la causa formale (unione morale dei cittadini) e dunque non può essere l’essenza della società, ma una sua conseguenza o proprietà che deriva dalla natura di associati tramite diritti-doveri, in vista di un fine.

Ad esempio: l’intelletto e la volontà sono due facoltà dell’anima umana che è co-principio (assieme al corpo) della persona umana; esse per quanto nobili non sono la natura umana ma due facoltà o accidenti necessari tramite i quali l’anima è direttamente operativa, così è per l’autorità. Infatti l’autorità è piuttosto principio prossimo di azione, essa fa leggi, le fa osservare e castiga chi le vìola, dirigendo così - praticamente - la società degli uomini al suo fine.

Perciò l’autorità è una conseguenza della società già costituita nel suo essere; essa ha il diritto (e lo esercita) di obbligare i membri della società, affinchè cooperino coi loro atti al bene comune. L’autorità, pur essendo un accidente è necessaria, infatti «in qualunque società, scrive Leone XIII, è necessario che vi siano alcuni che comandino, affinchè la società non si sfasci, priva del capo da cui è retta» (4).

Come nel corpo umano (persona fisica) vi è il cervello o la testa che comanda, e le membra che eseguono i suoi ordini; così nella società civile (o persona morale) vi è l’autorità o capo che ordina e le membra o i soggetti che obbediscono (5).
 
L’autorità e la persona umana

San Tommaso d’Aquino insegna che «il regno non è per il re, ma il re è ordinato al buon governo» (6). Ossia il fine dello Stato e dell’autorità politica è il bene comune dei cittadini, chi comanda - insegna San Paolo - è «ministro di Dio per il bene dei sudditi». Leone XIII spiega che «l’autorità governante deve essere indirizzata all’utilità dei sudditi e sua natura è tutelare il bene della società, l’autorità civile essendo stabilita a vantaggio di tutti» (7).

Occorre evitare i due estremi dell’individualismo o personalismo e della statolatria:

a) il personalismo individualista e liberale: la libertà e l’indipendenza della persona umana non sono assolute e illimitate, esse dipendono da Dio e sono finalizzate a Lui. L’uomo deve perciò essere sottomesso alla Legge divina, quando l’uomo fa il male e aderisce all’errore mantiene la dignità radicale della natura umana, ma perde la dignità prossima di persona umana, ordinata al vero e al bene, e si abbassa al livello delle bestie. Inoltre l’uomo essendo animale sociale è limitato dalla necessità di convivere in pace con gli altri uomini e deve rispettare i diritti altrui. L’indipendenza, assoluta propria del liberalismo, sfocia necessariamente nell’anarchia.

b) la statolatria o assolutismo totalitarista: l’uomo non è un cosa, un semplice strumento dello Stato suo fine ultimo. Se lo Stato come persona morale (insieme di più persone fisiche) è giuridicamente più nobile dell’uomo-cittadino (animale sociale) come singola persona fisica, tuttavia l’uomo come persona umana (animale razionale, spirituale e immortale) è ontologicamente superiore allo Stato. Quindi la persona umana, immagine di Dio è metafisicamente superiore allo Stato. Leone XIII insegna «homo est republica senior». Lo Stato pertanto «è il perfezionatore dell’individuo e quindi lo Stato è ordinato all’individuo, esso deve aiutare l’uomo e non offenderlo - come insegna Leone XIII nella Rerum Novarum - tutelarlo e non diminuire i propri diritti» (8).

La persona umana e il suo benessere sono il fine dello Stato, mentre l’organizzazione politica è un mezzo attraverso il quale lo Stato possa cogliere il suo fine (benessere comune dei cittadini).

«Senza dubbio l’individuo deve servire la società, deve anche compiere dei sacrifici, ma sempre per suo vantaggio, perchè il sacrificio dell’individuo - in ultima analisi - torna a vantaggio dell’individuo stesso. La società civile ha potere sopra i sudditi, ma solo relativamente al loro fine e al loro bene» (9).

Tale rapporto tra Stato e individuo fu affrontato da Jacques Maritain, nel 1936, in «Umanesimo integrale», che fu criticato da don Julio Mienvielle nel 1945 («Da Lamennais a Maritain») e da padre Reginaldo Garrigou-Lagrange O.P. tra il 1947-48 («Corrispondenza tra padre Garrigou-Lagrange e don Mienvielle»). Come si vede padre Andrea Oddone S. J., professore all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e membro del Collegio degli scrittori de La Civiltà Cattolica, è stato il primo - nel 1937 - a confutare la tesi maritainiana, pur senza citarla esplicitamente.

L’intolleranza cattolica

Per capire meglio ciò che significhi esattamente il concetto di in-tolleranza, occorre partire dall’idea di tolleranza. Essa si trova accompagnata da qualche male da sopportare o tollerare, (ad esempio, quando si ha il mal di denti di notte, e non è possibile reperire immediatamente un dentista, si è costretti a tollerare, sino a quando apra lo studio dentistico, per poter estirpare il dente soggetto di carie, di dolore e di male). La tolleranza di un male morale, presuppone un vizio (per esempio si tollerano le cosiddette «case di tolleranza»), mentre la tolleranza dottrinale presuppone un male dell’intelletto, ossia l’errore. Quindi «tolleranza significa sopportare con pazienza una cosa cattiva moralmente o erronea dottrinalmente» (10).

Da un punto di vista teologico la tolleranza dogmatica, «mette sopra un eguale piano giuridico, le varie e contrarie religioni, e concede a tutte piena libertà, perchè suppone che debbano ritenersi tutte, di uguale diritto, davanti a Dio e in ordine alla salvezza, essa non è altro che l’indifferenza, germoglio diretto del liberalismo» (11).

Padre Andrea Oddone S.J., de La Civiltà Cattolica, afferma che la Chiesa «non può assolutamente ammettere la tolleranza dogmatica o dottrinale. Su questo punto essa sarà sempre intollerante, perchè ha la coscienza di aver ricevuto da Cristo il deposito della verità divina e sa di essere investita di un magistero sovrano e infallibile» (12).

L’intolleranza dottrinale è una conseguenza diretta della verità che si ha la fortuna di conoscere (per esempio, il maestro di matematica non può tollerare che per uno o anche tutti gli alunni, 2+2=6; no 2+2=4, solo e soltanto 4, nè più nè meno; non quasi 4, o 4 e qualcosa, ma solo e soltanto 4). Essa non può non condannare ogni errore; il cattolicesimo è intollerante allo stesso modo della verità che non ammette l’errore dottrinale. Una scienza che ammettesse nelle sue ricerche gli errori e le verità senza distinzioni, distruggerebbe se stessa (un ingegnere che nel progettare un ponte ammettesse l’errore nei suoi calcoli matematici, distruggerebbe la sua professione e tante vite umane, come conseguenza del crollo del ponte, il quale non può sostenere o tollerare carenze di ferro o di cemento). Così «la Chiesa, se non fosse intollerante nella dottrina distruggerebbe se stessa» (13).

Solo la verità e il bene hanno diritto di esistenza, l’errore e il male morale non hanno alcun diritto, possono essere soltanto tollerati, eccezionalmente, solo per evitare un male più grande (ad esempio il dentista che scorgendo un’infezione nel dente cariato, tollera la sua permanenza nella bocca del povero paziente, sino a che l’infezione non sia scomparsa, dopo un’eventuale cura di antibiotici. Non si ammette il mal di denti, non gli si concedono diritti; lo si tollera, per evitare che l’infezione si sparga dal dente a tutto il corpo del paziente).

«L’intransigenza teoretica della Chiesa, ha saputo tener conto delle situazioni pratiche, perchè altra cosa è l’ideale, altra cosa è la realtà. Idealmente la verità essendo una sola, deve imporsi a tutte le intelligenze, come la legge morale a tutte le coscienze. Ma la pratica dimostra che, sia per la debolezza della ragione, sia per i capricci della volontà, possono prodursi sovente mancanze di cui bisogna tener conto. Perciò la Chiesa permette che gli Stati accordino la tolleranza politica, in una società divisa sotto il punto di vista religioso, ma solamente nella misura necessaria per impedire mali maggiori» (14).

Sant’Agostino afferma che «bisogna condannare e confutare le dottrine eretiche e pregare per la conversione degli eretici. Siamo fieri di conoscere ed aderire alla verità, ma senza superbia, combattiamo per la verità ma senza crudeltà» (15).

Occorre sapere che «le azioni sono dei soggetti», onde la distinzione netta tra errore ed errante è poco corretta; infatti senza erranti non vi sarebbero errori, (in guerra senza soldati non vi sarebbero frecce e colpi di cannone. Se un generale volesse combattere un esercito nemico, e dirigesse i suoi sforzi solo contro le frecce e non contro gli arcieri, sarebbe un pessimo generale). La sana filosofia insegna che si deve combattere l’errante e il suo errore e la teologia insegna che verso l’errante non va esercitato l’odio di malevolenza (volere il suo male come fine), ma è lecito l’odio di inimicizia che ci porta a volere il suo bene, il suo ravvedimento come uomo, e a combatterlo come nemico della verità e del bene. San Leone Magno diceva che «non possiamo governare i nostri fedeli se non combattiamo - con zelo divino - coloro che sono malvagi e corruttori» (16).

«Quando gli erranti tentassero di spargere errori e di nuocere agli altri, l’intolleranza dell’errore dovrà ridondare anche a danno degli erranti. Allora anche gli erranti non possono essere tollerati, ma si debbono rimuovere dalla società o almeno occorre renderli impotenti a recar dann(17).

Infatti ogni corpo, fisico come morale, fisiologicamente tende ad espellere i morbi e le infezioni, (chi è raffreddato starnutisce, ossia cerca di espellere il raffreddore; sarebbe folle se gli accordasse il diritto di renderlo ammalato).

Non bisogna fare come Teofilo di Alessandria, il quale nel combattere l’eresia origeniana, era talmente tollerante con gli eretici da attirarsi la critica di San Gerolamo che gli scrisse «il tuo contegno dispiace a Dio, infatti mentre con la tua tolleranza miri a correggere alcuni pochi, fomenti l’audacia di molti malvagi e fai in modo che la loro setta si irrobustisca» (18).

Don Curzio Nitoglia



1) T. M. Zigliara O. P., «Summa philosophica», De Propaganda Fide, Roma, 1876, Ethica, volume III, pagina 184.
2) J. Gredt O.S.B., «Elementa philosophiae aristotelico-thomisticae», Herder, Friburgo, 1921, 3ª edizione, numero 847, pagina 346.
J. Goenaga S.J., «Philosophia socialis», Gregoriana, Roma, 1964, pagina 278.
3) F.M. Cappello S.J., «Summa Juris Publici Ecclesiastici», Gregoriana, Roma, 1954, 6ª edizione, pagina 26; cardinale A. Ottaviani, «Compendium Juris Publici Ecclesiastici», Typis Polyglottis Vaticanis, Roma, 1944, 4ª edizione, pagina 12.
4) Leone XIII, «Diuturnum illud», 29 giugno 1881.
5) Confronta L. Taparelli D’Azeglio S.J., «Saggio teoretico di Diritto naturale», Civiltà Cattolica, Roma, 1855, I volume, pagine 267-270.
6) S. Tommaso d’Aquino, «De regimine principum», 1, 2.
7) Leone XIII, «Immortale Dei», 1 novembre 1885.
8) A. Oddone, opera citata, pagina 52.
9) Idem, pagina 53.
10) A. Oddone S.J., «La costituzione sociale della Chiesa e le sue relazioni con lo Stato», Vita e Pensiero, Milano, 1937, pagina 129.
11) Idem, pagine 129-130.
12) Idem, pagina 130.
13) Idem, pagina 131.
14) Idem, pagina 135.
15) Sant’Agostino Aurelio, «Sermo 49», 7.
16) San Leone Magno, citato in A. Oddone, opera citata, pagina 137.
17) A. Oddone, opera citata., pagina 137.
18) San Gerolamo, «Epistula»; 63, 3.
 
Piccola bibliografia:

A. Messineo S.J., «Il fondamento giuridico dell’autorità», in «C.C.», anno 95, 1944, volume II, quaderno 2255, 27 maggio 1944, pagine 285-294.
Idem, «Le origini trascendenti del potere politico», in «C.C.», 1944, volume II, quaderno 2259, 29 luglio 1944, pagine 138-147.
P. Dezza S.J., «I neotomisti italiani del XX secolo. Filosofia morale», Bocca, Milano, 1944.
M Cordovani O.P., «Tirannia e Libertà. L’uomo e lo stato», Studium, Roma, s.d.
 

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