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Albero della vita e santa Croce
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Il mistero della redenzione passa per la sofferenza di Cristo, che è il prezzo della sua donazione totale all’uomo e per l’uomo; assunzione del peccato e delle sue conseguenze, fino alla purificazione massima nell’amore dello Spirito Santo per la gloria di Dio e la salvezza di chi in Lui confida e crede. Se è vero, come è vero, che la causa efficiente della morte di Gesù furono i capi del sinedrio, che sobillarono il popolo, consegnando il Figlio dell’uomo alla brutalità del paganesimo (i romani, nella fattispecie), occorre ricordare che la croce che salva, quella di Gesù, causata dal peccato di ogni uomo, è già iscritta nel profondo del suo cuore; vivenza profondissima dell’anima di Cristo. «La mia anima è triste fino alla morte», come dirà San Luca, o «Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome», come preciserà San Giovanni; croce spirituale, che si manifesta nella materialità della condanna, croce generata dal singolo peccato di ogni uomo, che non resta ignoto né indifferente al Cuore di Gesù. Egli, che si è addossato delle nostre colpe e che fu trattato da peccato, pur non conoscendo in sé peccato, che sapeva bene quel che c’è in ogni uomo, ha sublimato ed amato l’istante presente della vita di ognuno, offrendolo in riparazione al Padre e prendendolo su di sé come sacrificio spirituale incruento, reso visibile nell’olocausto del Calvario.

Per la sua volontà, dirà la Lettera agli Ebrei, sono salvati coloro che a Lui aderiscono ed accettano di farsi irrorare del Sangue Divino per purificarsi. Per le sue piaghe siamo stati guariti. Maledizione per noi maledetti a causa dal peccato, ma in Lui benedetti. Salute eterna dell’uomo che si vuole salvare.

L’albero della divina Croce è il mezzo scelto per operare questa eccelsa manifestazione d’amore all’uomo; la Croce, ignominioso strumento di morte, supplizio degli schiavi, è pilastro della salvezza di chi ad essa si rivolge adorante e fiducioso: il Dio che salva, l’unico vero Dio, si annienta su una croce (ben inteso: l’umanità di Cristo non la sua Divinità).

Nel cristianesimo accade spesso - ed è logico che sia così - che anche la simbologia esistente ed utilizzata per significare e figurare il Mistero, sia coincidente con le figure archetipali presenti nel profondo dell’animo umano e pertanto diffuse quasi universalmente in tutte le credenze; fa parte di un sostrato oggettivo della psicologia umana ed in quanto tale costituisce una sorta di una evidenza su cui le antiche intuizioni religiose, parziali, si vestono, alla luce di Cristo, del loro pieno ed autentico significato; nessuna meraviglia, quindi, se la divina Croce sia un simbolo anteriore al Cristianesimo stesso, simbolo di luce e della medesima Divinità, di quella solare in particolare.

Ma l’idea della croce richiama anche un’altra antica simbologia: quella dell’albero. La stessa Sacra Scrittura si avvale di questo simbolo ed attesta (in Genesi e in Apocalisse, per esempio) l’esistenza dell’Albero della conoscenza del bene e del male e dell’Albero della Vita. L’immagine del Figlio dell’uomo innalzato, che rimanda alla Croce, richiama anche la vicenda di Numeri, dove Mosè, per salvare il popolo dal veleno dei serpenti, innalzò, su ordine divino, il serpente nel deserto, chiara figura della vittoria sul peccato, attraverso il danno del peccato: chiunque guarderà il Trafitto, a causa dei peccati, sarà salvo. Guardare a Gesù è molto di più che volgere lo sguardo: è adorazione estatica dell’amore di Dio per l’uomo; è riconoscimento del proprio nulla e della propria cattiveria; è ribaltamento della logica vincente del mondo, per sposare la logica di Dio, l’unica vera e che merita; adesione amorosa a Dio che salva.

L’Albero nelle rappresentazioni religiose è un po’ il segno visibile e sintetico dell’universo esistente: questo archetipo rappresenta la stessa vita che si rigenera e muta; affonda le proprie radice al centro del mondo ed incarna la presenza divina. L’albero è allegoria del creato vivente e che dispensa la vita; le sue foglie sono terapeutiche e danno l’immortalità. In pressoché tutte le tradizioni religiose l’immagine dell’albero ricorre di continuo, proprio a svelare l’intuizione profonda dell’uomo, il quale comprende la propria dipendenza assoluta dall’esistente (ne riceve infatti la vita), che assume vesti trascendenti ed affonda le proprie radici in Dio stesso.

Genesi non ignora queste verità; le fa proprie per annunciare in pienezza il mistero della Rivelazione. L’albero della conoscenza del bene e del male del quale non è lecito mangiare i frutti è il segno evidente del limite umano. Nel giardino di Eden vi sono due alberi fondamentali; ma di quello della vita non si dice molto; il divieto sembra riguardare solo l’albero della conoscenza del bene e del male, ma se così è quando Dio dà il comando all’uomo, diversamente appare nella risposta di Eva al serpente; infatti Ella dirà (in Genesi 3,3) di non poter mangiare dell’albero che si trova in mezzo al giardino; tuttavia l’unico albero che è in mezzo al giardino in Genesi 2,8 è l’albero della Vita, non quello della conoscenza del bene e del male, che non è meglio localizzato.

Cosa potrebbe significare? L’albero della vita resta accessibile per l’uomo soltanto quando questi cerca il Bene; non è possibile una conciliazione degli opposti, una superiore unità nell’indistinto; ciò non è prerogativa umana, ma divina. In Dio tutto è Luce ed il male non ha propria consistenza ontologica: esso è soltanto frutto di un’assenza di bene dovuto; carenza, che non può esistere in Dio; in Lui ogni possibilità esistente possiede un archetipo perfettissimo ed eterno, che non cambia mai: Dio è l’eterno esistente, l’infinita possibilità di essere tutto ciò che è perfetto, al di là della contingenza del Creato, trascendenza purissima. Tuttavia, tale carenza di bene, è vera ed efficace per la creatura singola, ed in certo senso lo è pure per il creato, il quale cerca, nelle doglie del parto, compensazione al disordine, generando un nuovo e diverso ordine. L’uomo che travalica la conoscenza del male, ossia che sperimenta sensibilmente il peccato, resta chiuso alla Vita, che al centro del giardino, andava assaporata attraverso una ricerca, uno sforzo, un’adesione al sommo Bene. La tentazione del serpente, che ha anche di per sé una valenza iniziatica, era il banco di prova della libertà dell’uomo; la sua determinazione nel seguire solo Dio, riconoscendolo unico Signore e creatore.

Non sono completamente errate le letture del passo in questione che vogliano collegare l’albero della vita all’esperienza intima dello spirito umano, che deve rigenerarsi e scoprirsi in tutto il suo splendore, se da esse si toglie l’indebita ingerenza monista, normalmente presente in descrizioni di tal genere. Che l’albero possa rappresentare lo stesso sistema nervoso centrale, i cherubini gli schemi mentali che impediscano di accedere alla vera consapevolezza (cioè la propria natura divina), pur possedendo alcune verità, non può essere invece sostenuto (come anche accade) senza un’indebita forzatura del testo e del contesto.

La kabbalah non ignora affatto tali interpretazioni. L’albero sefirotico in tre pilastri raffigura la manifestazione della luce increata; il percorso dell’iniziato, passando attraverso un processo di consacrazione conoscitiva, giunge a sviluppare i singoli sphiroth, attributi divini, che svelano l’immanifesto ed al contempo aiutano l’adepto (in una visione sincretista) nell’«apertura dei propri chakras», al superamento del dualismo apparente (maschio e femmina nelle colonne laterali portanti), per pervenire all’unione mistica nell’indistinto divino. In questa prospettiva, anche la menorah è simbolo di questo avanzamento: le luci del candelabro ebraico, segno della Presenza Divina nell’Antico Testamento, sono distorte a fini esoterici ed incarnano proprio i significati mutuati dall’albero della vita cabalistico.

La simbologia cristiana non perde, ma recupera queste parziali verità, dandole il loro pieno significato; osserviamo un’immagine che è dato rinvenire ancora in qualche chiesa (un tempo molto di più): sull’altare le tre candele a destra e le tre candele a sinistra della santa Croce, che sovrasta nel mezzo. E’ Gesù a raggiungere la piena conciliazione degli opposti, a portar a compimento in sé le diverse polarità del creato; è in Cristo che non ci sono più differenze di stirpe o di razza o di origine o di sesso; in Lui si riconcilano cieli e terra. In Lui, con la croce, che rimanda all’Eucaristia, lì posta nel Tabernacolo, che si ottiene la piena consapevolezza della conoscenza e l’effusione della vera vita; l’apertura di ogni «chakra», di ogni capacità e facoltà umana, di ogni potenzialità che dischiude al Divino; un Divino, però, donato per amore e non consustanziale, come pretenderebbero le deformazioni esoteriche e cabalistiche.

Ecco, dunque che l’albero che sparisce agli occhi dell’uomo, in Genesi, torna nell’Apocalisse, con il giardino, passando per il giardino nei pressi del sepolcro, dove deposero Gesù. La resurrezione, che segue la morte, è vittoria evidente di questa divinizzazione dell’uomo, in Cristo Gesù.

«Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: ‘Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno’. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui» (Giovanni 7, 37-39).

Stefano Maria Chiari



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