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UE, la prigione dei popoli
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Il giornalista greco Grigoriou Panagiotis incontra in un bar di Atene il suo amico Th.: giornalista disoccupato da 377 giorni, Th. non riceve più l’assegno di disoccupazione, spirato dopo il 365mo giorno. Un caffè, euro 1,60 (finiti i tempi della Grecia a buon prezzo) ma conviene perchè il bar è ben riscaldato.

«A casa non accendo il riscaldamento, stiamo qui un paio d’ore, mi rimpannuccio un po’», dice. Il suo progetto per il futuro: «Liquiderò la mia assicurazione sulla vita – saranno al massimo 11 mila euro di m. – li cambio tutti in dollari, conto di camparci un anno».

In realtà, ha dato appuntamento al bar ad una dirigente d’università, amica di sua moglie, Georgia, per farsi dare una mano a trovar lavoro, anche per due mesi. Niente, anche Georgia non riceve più lo stipendio da agosto. Ma racconta una novità del suo ambiente: «Traduttori, docenti, scrittori anche noti si sono messi a coabitare, perchè le spese per mantenere un appartamento – anche di proprietà – diventano impossibili». Dividono le spese, le bollette e il cibo: si realizza il sogno radicalchic delle «coppie di fatto», ma in modo poco gay. Altri si fanno pignorare la casa per non pagare il mutuo. Gli universitari hanno gli stipendi ridotti ad un terzo rispetto a due anni fa. Un terzo dei greci vive ormai in povertà, mancano i medicinali, nelle case il combustibile per riscaldamento, vi sono stati casi di bambini abbandonati negli ospedali perchè i genitori non possono mantenerli. I suicidi in Grecia sono aumentati del 40%, oggi sono due ogni tre giorni. (Grèce: chroniques d’un naufrage imposé, par Grigoriou Panagiotis)

Tutto come in una guerra, o un’occupazione nemica: e infatti lo è. La miseria dei greci non è un fatto naturale, ma il frutto delle imposizioni della «Troika» europea, che di fatto governa oggi a favore dei creditori, dei tedeschi e delle eurocrazie: quelle stesse che hanno ammesso la Grecia nell’euro mentre non avrebbero dovuto, chiudendo gli occhi sui bilanci truccati – e adesso cercano di tenere il povero Paese nell’euro, strangolandolo. Cosa che alla fine non riuscirà: la Grecia fallirà su gran parte del suo debito, e probabilmente dovrà anche uscire dall’euro – in catastrofe anzichè in modo ordinatamente gestito.

Dopo la Grecia sarà in prima linea il Portogallo, poi l’Irlanda, dove sono già in corso impoverimenti estremi e rovine sociali; poi – ancor prima della Spagna – l’Italia, col suo debito ciclopico e ingestibile. La Francia è già sullo scivolo, dopo il downgrade di Standard & Poors.

Ora Berlino pretende che l’Italia riduca il suo debito pubblico dal 120% al 60% del PIL in pochi anni, al ritmo di austerità estreme: così dettano, del resto, le normative europee. Ma Berlino sapeva qual’era il nostro debito, doveva vietarci di entrare nell’euro, agitando le «normative». Ci ha lasciati entrare perchè conveniva ai tedeschi avere il grosso concorrente legato alla moneta forte, e impossibilitato a svalutare; per potergli rubare quote di mercato. Ed ora, tutti gli sforzi sono diretti a scongiurare il fallimento dei Paesi debitori, mantenendoli nello stesso tempo sotto l’euro che li strangola. A prezzi socialmente intenibili.

Ormai una mezza dozzina di Paesi europei si devono porre la domanda più censurata: dove sono finiti i presunti «vantaggi» dell’euro, per i quali abbiamo ceduto la nostra sovranità?

Essenzialmente, i vantaggi si riducevano alla possibilità di indebitarsi a tassi «tedeschi», ossia bassi: in Italia ne hanno profittato i politici d’ogni livello, comunali, regionali, statali, per indebitarci ancora di più; alla Spagna il basso costo dell’indebitamento ha regalato una bolla immobiliare che affonda le sue banche, strapiene di immobili pignorati e invenduti. Magari ci abbiamo guadagnato un pò anche come famiglie, accedendo mutui: per comprare appartamenti che oggi non possiamo vendere a metà del loro valore d’acquisto, perchè le banche non concedono più mutui, e così hanno bloccato il cosiddetto «mercato immobiliare».

In ogni caso, questo vantaggio è scomparso, e per sempre: i «mercati» prezzano il debito italiano 500 punti in più di quello tedesco, il costo del denaro diverge sempre più, e questo spread, questa forbice tra debitori che hanno la stessa moneta, non rientra: e non rientrerà, sarà permanente. Provocando il deterioramento strutturale della nostra economia reale; strutturale, ossia permanente. Senza speranza di rinascita (1).

La cosa dovrebbe essere chiara dopo il degrado di massa che Standard & Poors ha mitragliato contro sei Stati europei, Francia compresa (2). È come un’esecuzione di massa dei tempi di guerra. Con il downgrade passato da A a B, il prezzo del finanziamento pubblico si alza al di là di ogni possibilità di rilancio economico. Non solo l’Italia, ma tutta l’eurozona tranne Germania e satelliti, è stretta nella doppia morsa delle austerità e ipertassazioni dettate dall’UE, e dei «mercati» che ci chiedono di più per prestarci denaro.

In altre parole: siamo in una spirale fatta di downgrading, recessione-depressione, aumento del debito, ulteriore downgrading. Degrado della nostra economia, perdita di mercati e competenze umane e industriali, deterioramento ulteriore della produtttività, fuga di capitali, disoccupazione; dunque, riduzione degli introiti fiscali nonostante l’ipertassazione (per scomparsa dei contribuenti, privati o imprese, diventati disoccupati e falliti) quindi peggioramento del debito e della nostra solvibilità nazionale.

È questo il nostro ineluttabile futuro, sotto l’euro e le «cure» dettate dalle euro-oligarchie. Il nostro scivolamento verso il Terzo Mondo, la perdita di mercati e di qualità della nostra produzione – la sola leva di export che ci consente di importare l’energia di cui necessitiamo. Il destino greco, inverni senza termosifoni e prezzi alle stelle (nei momenti di disordine in Atene, il pane è arrivato a costare 60 euro al chilo) è più vicino di quanto ci vogliano far credere. E può accadere di colpo, senza preavviso.

Abbiamo visto solo l’inizio degli enormi (e iniqui) sacrifici che ci impone Monti (col consenso dei partiti). Tanti sacrifici ci attendono, povertà, disoccupazione diffuse, il degrado dell’economia a livelli sudamericani, e poi, perchè? La degradazione di massa di Standard & Poors rende ineluttabile, alla fine, il nostro default. Monti, l’ex-commissario europeo, secondo la volontà oligarchica di Bruxelles, Francoforte e Berlino, ci mette nella morsa strizza-tasche per farci servire il debito. È quello che si fa in tutta l’Europa del Sud.

«L’arroganza che ci sta distruggendo», ha scritto l’amico Paolo Rebuffo, «consiste nel credere di poter evitare il fallimento dei debitori, anzichè attrezzarsi a governare la bancarotta del sistema».

Un altro degli effetti perversi dell’Unione Europea così si rivela in piena luce: ogni Stato per sè, ridotto ai suoi soli mezzi; probabilmente vedremo default a catena, ma ognuno per conto suo, in situazioni di catastrofe, e divisi davanti ai creditori – che invece sono unitissimi. L’Europa non protegge più nessuno – salvo i banchieri, o i gay.

Siamo stati privati di tutti i mezzi per far fronte alla crisi più grave dal 1929: non possiamo svalutare, nè stampare moneta, nè ripudiare sovranamente il debito, e nemmeno alzare barriere doganali. Non sono ostacoli naturali, sono divieti che l’Europa ci dà, perchè i nostri governi – da venti o trent’anni – li hanno voluti. Li chiamavano «vincoli esterni», e li hanno usati come scusa del loro scarico di responsabilità: «Dobbiamo fare questo, perché l’Europa ce lo chiede»; «Non possiamo fare questo, perchè lo vietano le normative» (3).

Così ci sottomettevano ad una oligarchia da nessuno votata, la quale a sua volta ci ha sottomesso al «Washington Consensus», ossia alla globalizzazione voluta dagli USA, e che gli USA credevano di poter governare da egemoni perpetui: cancellata la «preferenza europea» negli scambi commerciali che pure era all’origine del mercato comune europeo (oggi è diventata un delitto) gli eurocrati hanno disciolto l’Europa nello spazio liberoscambista mondializzato, senza una sola esitazione a mettere i nostri salari in competizione coi salari cinesi, dieci o 20 volte inferiori. Deregulation, privatizzazioni demenziali, libertà assoluta di arbitrio al capitalismo finanziario, sono stati usati come «vincoli esterni» per lanciarli a testa d’ariete – ora lo vediamo – a frantumare i «vincoli interni» delle società civili europee, ossia essenzialmente gli Stati sociali, le solidarietà nazionali da smantellare, perchè frenano la perfetta mondializzazione, e di cui ci si deve oggi sbarazzare per ottemperare ai desideri dei «mercati».

Oggi gli oligarchi, i Van Rompuy, i Mario Draghi, criticano le «agenzie di rating» americane, per aver degradato la valutazione di solvibilità di tanti Paesi europei: ci scoprono «un complotto», un’aggressione «politica» contro gli sforzi dell’Europa per accontentare i creditori... Ma sono stati proprio loro a dare tanto potere alle agenzie di rating straniere. L’intero sistema bancario accetta o non accetta titoli di debito, pubblico o corporate, secondo quanto li valutano Moody’s o Fitch; anche la Banca Centrale Europea, fino a ieri, accettava titoli in garanzia valuandoli secondo il rating delle agenzie. Erano benvenuti, graditi, desiderati, questi altri «vincoli esterni».

Nessun eurocrate, nessun banchiere europeo, centrale o non-centrale, ha fatto mai notare che queste agenzie non erano oracoli celesti, bensì società per azioni private, i cui proprietari sono fondi speculativi ed altre società USA quotate alla Borsa di New York. Moody’s, ad esempio, ha fra i suoi azionisti Warren Buffett (19,1% attraverso il suo fondo speculativo Berkshire Hathaway) più altri gestori finanziari, ossia che di mestiere comprano e vendono titoli pubblici e privati: Capital Research Global Investors (10,30%), Capital World Investors (10,03%) e Fidelity Management & Research (9,61%). Standard & Poor’s è un’emanazione dell’editoriale quotata McGraw Hill, e anche lì gli altri soci sono fondi finanziari, alcuni dei quali già presenti in Moosy’s, come Capital World Investor, e Fidelity Management, oltre a i T. Rowe Price Associates (6,67%) e BlackRock Global Investors (4,39%). La terza agenzia, Fitch, è posseduta al 60% da un finanziere francese, il miliardario Marc Eugene Charles Ladreit de Lacharrière, detto MLL,e dal gruppo americano Hearst.

Non si tratta solo di europeo «conflitto d’interessi» che mina l’autorità di queste agenzie (esse stesse quotate alla Borsa americana) ma di aggiotaggio, o sospetto di aggiotaggio, quando assegnano giudizi su titoli europei. Gli azionisti delle agenzie che danno il voto a imprese e Stati hanno accesso alle loro intenzioni un anticipo: se so che viene abbassato il rating dell’Italia, vendo i titoli italiani prima che la cosa diventi pubblica.

Il ribasso di massa annunciato da S&P – a mercati europei aperti – era palesementre «turbativa dei mercati», e le magistrature europee avrebbero dovrebbero appurare: a vantaggio di chi? Anzi, dovevano già da anni mettere fuorilegge in Europa queste società per l’aggiotaggio.

Macchè. Solo oggi Olli Rehn salta fuori a dire che si tratta di «arbitri interessati» – oggi, anzichè 15 anni fa. Attenzione, quando gli oligarchi cominciano a dire la verità, e a parlare di complotti» contro di loro, allora bisogna cominciare a preoccuparsi (4). Fino a due mesi fa ci dicevano che bisognava inchinarsi a queste agenzie pagando più tasse e sopportando austerità, erano i «vincoli esterni», erano «i giudizi dei mercati»...

Con questi metodi, gli eurocrati hanno distrutto anche la sola possibilità di una «Europa delle patrie», l’hanno disciolta nel mercato globale, l’hanno messa sotto la tutela americana ancor più di quanto fosse (vedi il servilismo con cui seguiamo l’US Army nelle sue avventure belliche di saccheggio, in Asia e in Africa); con ampliamenti sempre più demenziali e ingovernabili, l’Europa a 27, l’Europa con Israele associata, l’Europa con la Turchia, l’Europa senza identità e senza unità di intenti. Un’Europa dove –a guadagnarci sono i fattori mobili (capitale e finanza, grandi multinazionali, mafie) e i perdenti sono i fattori fissi: popoli e territori», scrive Michel Rogalski, economista al CNRS francese. (Démondialisation: le débat interdit?)

Questo fa concludere un altro analista francese, Michel Geoffroy, se l’Unione Europea non sia «la prigione dei popoli». Il termine fu inventato dalla propaganda massonica per diabolizzare sia la Russia zarista, sia l’impero austro-ungarico, grandi entità multinazionali dove le nazioni godevano – almeno a Vienna – grandi autonomie e rappresentanza parlamentare.

Oggi l’Ungheria (una delle nazioni nell’imperial regio governo absburgico) già devastata dal libero flusso di capitali, ha provato sulla sua pelle i limiti dell’autonomia che gli concede la nuova «prigione dei popoli»: minacce e punizioni, ostracismo e chiusura degli aiuti, se prova a rinazionalizzare la sua Banca Centrale. In quell’occasione, gli eurocrati hanno chiarito che l’indipendenza della Banca Centrale è un «valore indisponibile» se si vuol restare in Europa.

Ma non è sempre stato così? I popoli che – appena hanno avuto la possibilità di votare – hanno rifiutato la costituzione europea, se la sono vista accollare comunque, attraverso i loro parlamenti, sotto il nome di Trattato di Lisbona (per noi, c’era Gianfranco Fini).

Quando gli austriaci, col loro libero voto, hanno messo Jorg Haider al governo in una coalizione, le oligarchie europee hanno praticamente messo l’Austria al bando come Stato neo-nazista, uno Stato-lebbroso nel lazzaretto della purificazione (avvenuta con la morte «innaturale» dello stesso Haider).

Quando un Paese vota «male», lo si fa rivotare finchè vota «bene»: è stato il caso dell’Irlanda. Quando il governo greco ha provato a sottoporre a referendum le austerità feroci imposte dall’eurozona, Germania e Francia e oligarchi di Bruxelles.

Ormai la linea è questa: i popoli si sottomettano ai diktat della Merkel, oppure ci si trova puniti, colpiti da costose sanzioni, o anche – è stato proposto senza vergogna – privati dal diritto di voto come Stati, nei futuri trattati europoidi, che vogliono togliere anche le ultime briciole di sovranità.  Ma senza aver il diritto di ritirarsi. Come accade, appunto, a carcerati.

Ora l’eurocrazia s’è tolta la maschera. Ha dismesso le melliflue promesse della sua lingua di legno (tipo «stabilità, crescita, equità») per mostrare il bastone e la grinta autoritaria: regole, austerità, tasse per pagare i creditori... E su tutto, la censura. Il numero dei temi-tabù, che non bisogna discutere sui media, sono sempre di più. Il divieto penale di analizzare l’olocausto s’è espanso a temi economici: divieto di proporre la de-mondializzazione, l’uscita dall’euro, il ripudio sovrano (più volte avvenuto nella storia) il protezionismo... Chi ne parla, se ancora non è incarcerato, è emarginato nelle frange che vivono sui blog, i cospirazionisti, i populisti anti-banchieri, anti-liberisti, un po’ anche antisemiti negazionisti... Fino a quando a dirlo non sarà Van Rompuy, Olli Rehn, o Draghi e Monti. Allora le idee vietate diventano verità. E ci sarà da preoccuparsi, perchè è troppo tardi.

Questi limiti imposti al dibattito, devastano la qualità più vera dell’essere-europei, ossia la libertà di pensare a tutto campo. E ciò riduce la possibilità di trovare soluzioni coraggiose alla crisi che ci travolge.

È vietato discutere l’uscita dalla prigione dei popoli. Così, abbiamo di fronte venti o trent’anni di progressivo impoverimento, strangolamento fiscale e deterioramento economico sotto la cura Monti – per pagare i creditori, ed infine comunque fallire, anzichè mettere in campo l’uscita e il contestuale ripudio del debito: un duro colpo di 16-18 mesi al nostro livello di vita, ma poi la prospettiva di uscire dal deterioramento con la competitività ritrovata, la disoccupazione assorbita e la crescita non frenata dalla enorme macina del debito.

Il già citato Geoffroy vede analogie nella situazione dell’Europa-prigione oggi, e l’America della Secessione di metà ‘800. Dimenticate il motivo propagandistico «Sud schiavista contro Nord anti-schiavista», propaganda dei vincitori. Il vero motivo della secessione fu che gli Stati del Sud non volevano dazii perchè erano importatori netti e privi di industrie, mentre il Nord (che allora era protezionista e industrialista) voleva imporre al Sud le sue tariffe doganali e dunque i suoi prodotti industriali, mentre allo stesso tempo gli negava il diritto di uscire dall’Unione. Così, anche nell’Europa di oggi «un fossato sempre più profondo separa i libero-scambisti da coloro che vogliono proteggere le loro economie, le loro identità e la loro cultura».

Come nell’America di Lincoln i sudisti erano bollati di «ribelli», così le oligarchie transanazionali eurocratiche chiamano «ribelli», o per l’esattezza «populisti» delegittimandoli, gli obiettori a questa Europa, tentati di uscirne, o di scontentare i creditori col default. E contro i «ribelli», l’uso della violenza «giusta» è dietro l’angolo.




1
) Allo stesso modo il nostro Meridione (prospero quando era separato) annesso all’Italia, ha visto deteriorarsi il proprio tessuto economico, e quindi umano, in modo irreversibile. Oggi, il «meridione d’Europa» votato al degrado e alla dipendenza da Berlino siamo noi, spagnoli, greci, portoghesi, e irlandesi.
2) La perdita della AAA alla Francia è stata seguita a mitraglia dal downgrading, da parte delle agenzie di rating, del Fondo Europeo di Stabilità: ciò significa che questo Fondo cosiddetto salva-Stati non potrà più finanziarsi alle condizioni favorevoli di prima per prestare a tassi preferenziali ai Paesi in difficoltà. E la dotazione del Fondo, penosamente messa insieme nelle trattative coi tedeschi, era già notoriamente insufficiente prima.
3) Su questi vincoli esterni un consigliere dell’allora presidente Giscard D’Estaing, Lionel Stoleru, disse la verità in un saggio del 1987 che era un inno al mondialismo: «Questi cosiddetti vincoli esterni siamo noi stessi ad averli voluti, edificati, sviluppati giorno per giorno. Non abbiamo più le mani libere perchè non abbiamo voluto più aver le mani libere... Non ci sono più politiche nazionali, ci sono soltanto dei vincoli nazionali che ci frenano nella ricerca delle nostre ambizioni inetrnazionali», ossia nella globalizzazione.
4) Bisogna dire che anche Standard & Poors s’è messa a dire la verità. Nello spiegare le motivazioni del suo declassamento di metà Europa (un atto di terrorismo finanziario, secondo il Guardian) ha messo sotto accusa l’accordo europeo del 9 dicembre, «fondato unicamente su una comprensione parziale delle cause della crisi», che sono «gli squilibri crescenti e le divergenze di competitività tra nucleo e periferia», e «poggiante unicamente sul pilastro dell’austerità di bilancio». Insomma anche S&P critica la Germania, e nota che mancano misure per il famoso «rilancio». Dettando una vera e propria politica alternativa, per la quale beninteso non abbiamo i mezzi – se la BCE non monetizza. Gli americani vogliono la monetizzazione, è noto.



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