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Il Chamberlain abbronzato
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Il presidente Obama sta per incontrare Benjamin Netanyahu, il capo del governo israeliano (il 18 maggio); e tutti gli analisti (da Walt e Mearsheimer fino, incredibile, al New York Times) gli  raccomandano di «essere duro con Israele». Di far capire al suo interlocutore che gli otto anni di servilismo del suo predecessore George Bush sono finiti, che gli USA non sosterranno più il regime sionista in tutte le sue follie feroci.

Effettivamente, qualche vocalismo in questo senso è venuto, ma non direttamente da Obama. E’ stato mandato alla sbaraglio il vicepresidente Joen Biden, che è stato mandato alla conferenza dell’AIPAC (the Lobby) a invocare di farla finita con gli insediamenti illegali in Giudea, di smantellare i posti di blocco, di consentire più «libertà di movimento» ai palestinesi almeno in Cisgiordania, dove non domina Hamas ma il povero, pieghevole Abu Mazen (1).

Immaginate lo spavento degli israeliani. Continuano, come sempre, a spopolare Gerusalemme degli abitanti palestinesi che vi abitano da secoli, con i soliti trucchi: rifiuto da parte delle autorità di dare permessi di restauro per poi sequestrare l’immobile quando va in rovina, continui tentativi di sequestro di case «abbandonate» (basta che un palestinese stia via qualche mese per vedersi considerare la casa abbandonata), l’arrivo di false agenzie «islamiche» che offrono denaro per acquistare la vecchia casa - denaro fornito in abbondanza dalla diaspora e dai fanatici cristianisti americani. E quando i trucchi non bastano, si passa alla semplice violenza: casa abbattuta «per lavori» o per altri pretesti.

In questo modo, 60 mila palestinesi di Gerusalemme stanno per vedere la loro casa distrutta. Israele sta costruendo una metropolitana che deve passare per forza sotto una moschea, che sarà demolita.

Quanto ai posti di blocco, solo in Cisgiordania ce ne sono oltre 600, il cui unico scopo è rendere difficile la vita ai palestinesi. Del resto, 11 mila palestinesi sono stati incarcerati, con il pretesto delle «continue tensioni» provocate dall’ampiamento inarrestabile delle «colonie ebraiche» - favorite dal governo con sussidi che rendono l’abitare lì praticamente gratis - onde lasciare spazio ai nuovi figli di Sion.

Il nuovo governo razzista sta cominciando, come aveva promesso Lieberman, a revocare la cittadinanza ai suoi cittadini arabi; le prime vittime sono quattro esponenti dell’OLP che, dopo essere stati all’estero, hanno chiesto di tornare attraverso la Giordania. Il ministro dell’Interno giudaico Eli Yishai ha risposto: appena entrate nel Paese vi arrestiamo per azioni contrarie alla sicurezza dello Stato (2).

E a Gaza? Quattro mesi dopo il massacro giudaico, che ha lasciato 3.800 edifici distrutti e 34 mila famiglie senzatetto, 15 ospedali e 41 ambulatori inagibili, 282 scuole devastate, Israele continua a non far passare dai suoi valichi il cemento, il vetro, il materiale da costruzione necessario per riparare i danni. I 4,5 miliardi di dollari che la comunità internazionale ha destinato alla ricostruzione di Gaza restano nelle banche. La risoluzione 1.860 delle Nazioni Unite (l’ennesima) che chiede ad Israele di lasciar passare senza ostacoli gli aiuti umanitari viene, come al solito, sputacchiata dalla razza superiore.

«Per Israele», ha detto persino il segretario Ban Ki-moon, è venuto il momento di cambiare fondamentalmente le sue direttive politiche a questo riguardo, come ha ripetutamente promesso di fare ma non ha ancora fatto. I palestinesi continuano a soffrire inaccettabili azioni unilaterali a Gerusalemme Est e in quel che resta della Cisgiordania: case demolite, insediamenti ebraici intensificati, la violenza dei coloni e la restrizione oppressiva dei movimenti». Il Papa non è arrivato a tanta audacia, ma anche lui ha invocato il diritto ad una terra per i palestinesi (3).

Abdullah di Giordania, a nome di tutti gli Stati islamici del mondo, ha promesso una «soluzione a 57 Stati»: dal Marocco sull’Atlantico all’Indonesia sul Pacifico, Siria e Iran compresi, tutti si impegnano a fare pace con Israele, a riconoscerla e a stabilire con il Reich normali relazioni anche commerciali, se Israele accede a un credibile piano di pace per i palestinesi.

Una proposta generosa, ha commentato Noam Chomsky: «Israele può avere sicurezza, normalizzazione dei rapporti e l’integrazione nella regione. Ma chiaramente preferisce l’espasione illegale, il conflitto, e il continuo uso della violenza».

Infatti lo Stato ebraico non ha nemmeno risposto. Abdullah di Giordania ha detto che se non si arriva alla pace, «fra 12-18 mesi ci sarà una nuova guerra in Medio Oriente»: esattamente  ciò che Israele vuole. E’ un obbligo religioso. Non lo dice Ezechiele (32, 18-32)? «La spada vi è data; trascinate l’Egitto con tutte le sue moltitudini!... Poiché io spargerò il  terrore di te sulla terra dei viventi».

Quindi, si sa già benissimo che cosa Netanyahu risponderà ad Obama. Non comincerà nessuna discussione sulla «soluzione a due Stati» coi palestinesi se prima non vedrà progressi decisivi riguardo al programma nucleare iraniano; e per progressi decisivi, intende che Obama impedisca a Teheran di avere la bomba atomica. Ovviamente le due cose non hanno alcuna relazione tra loro; è solo il modo di continuare a negare ai palestinesi diritti minimi, e di continuare a rubare la loro terra.

Alla comunità ebraica americana è stato ordinato di piegare Obama. Lo ha spiegato molto bene il Jerusalem Post, a firma del columnist  Isi Leibler, rivolgendosi direttamente all’AIPAC (4): «La nuova politica di Obama, di impegnarsi con Stati criminali e cercare di cambiare il comportamento di tiranni con la persuasione, ricorda sinistramente le politiche di ‘appeasement’ in Europa negli anni ‘30. Non è un caso che la repubblica Ceca sia la più decisa sostenitrice, in Europa, di Israele (sic)».

«Sono tempi di sfida per l’ebraismo americano», continua  Leibler: «Il suo sostegno è vitale per resistere a coloro che si illudono che i problemi col mondo islamico possono essere superati sacrificando Israele, e trasformandoci in una nuova Cecoslovacchia. Gli ebrei americani mancarono di alzare la voce in difesa dei loro fratelli nei giorni bui della seconda guerra mondiale, perchè furono intimiditi da un presidente americano popolare (Roosevelt ieri, Obama oggi, ndr). Abbiamo ogni ragione di credere che la maggioranza assoluta degli ebrei americani di oggi non si lasceranno intimidire, ora che Israele è in pericolo».

E’ una chiamata, quasi incredibile per arroganza e improntitudine, alla mobilitazione dura della lobby. Ma la metafora del 1939 è giusta. Basta solo rovesciarla.

Nei tardi anni ‘30, il premier britannico Neville Chamberlain passò alla storia come l’illuso che si illuse di poter guadagnare la pace con ampie concessioni al Terzo Reich (Patto di  Monaco), per essere disilluso quando Hitler occupò i Sudeti, di fatto nullificando lo Stato artificiale della Cecoslovacchia. Oggi, Obama si prepara a passare alla storia come il Chamberlain negro del 21 secolo, cedendo al Quarto Reich, che vuole sempre di più.

Le prove della riduzione a Chamberlain del presidente abbronzato diventano ogni giorno più evidenti. Nonostante l’ampia maggioranza nel Congresso, nonostante i suggerimenti autorevoli a mostrare un po’ di spina dorsale verso il  Reich israeliano, e nonostante perfino l’appoggio della parte meno irrazionale dell’ebraismo USA, Obama si rimangia giorno dopo giorno il suo impegno (a parole) di cambiare le politiche degli 8 anni di Bush e Cheney.

Qualche settimana Obama fa ha tolto il segreto a quattro memorandum del Dipartimento della Giustizia di Bush, che facevano qualche luce sul «programma di interrogatori intensificati della CIA» (torture dei prigionieri musulmani) e portavano alla conclusione che le torture erano state autorizzate dalla Casa Bianca; poi si è preso paura del clamore suscitato, e ha fatto ricadere il segreto. Anzi, capitolando davanti alle minacce dei repubblicani sconfitti, e dell’apparato militare coinvolto nei delitti, ha vietato la diffusione di una quarantina di foto che mostrano agenti USA mentre torturano detenuti in Iraq e Afghanistan. E poichè le stesse foto sono in mano al governo britannico, a cui l’Alta Corte inglese ha ingiunto di pubblicarle, Obama è giunto a minacciare Londra di interrompere la condivisione dei dati d’intelligence tra USA e Regno Unito, tradizionale nei rapporti verso il fedelissimo alleato (5).

Obama aveva promesso di chiudere il carcere di Guantanamo e di liberare i prigionieri lì rinchiusi da sette anni, «enemy combatants» su cui non è stata elevata alcuna accusa, fra cui 17 cinesi uiguri (musulmani) arrestati chissà dove e chissà perchè, e che lo stesso governo USA ha dichiarato di nessun pericolo per la sicurezza nazionale. Ma il congresso si è opposto, e Obama ha ceduto. E ha richiuso il coperchio sui prigionieri, la cui liberazione avrebbe diffuso altri particolari compromettenti per la (precedente) amministrazione Bush.



Ecco le foto che Obama non vuol farci vedere. Le ha pubblicate il Sidney Morning Herald:


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Rientra certamente in questa  copertura anche la morte improvvisa, in un carcere libico, del prigioniero Ibn al-Shaik al-Libi (6). Questo pover’uomo è una delle vittime delle «extraordinary renditions» attuate da Bush-Cheney - centinaia di catturati in Iraq e Afghanistan spediti in vari paesi, dalla Siria alla Romania, per esservi torturati - ma con una qualità in più: la sua confessione, strappata sotto tortura in Egitto, costituì la «prova» della complicità fra Al Qaeda e Saddam Hussein, che diede a Bush la scusa per invadere l’Iraq. La liberazione di Al-Libi, nel nuovo clima obamaniano, sembrava inevitabile. Ma quest’uomo tornato in libertà avrebbe potuto raccontare troppe cose incresciose per la passata amministrazione. Sicchè si è pensato bene di eliminarlo.

Se l’eliminazione sia avvenuta con il consenso di Obama o no, è certo che essa rappresenta la continuazione della politica di Bush nel «nuovo clima». E’ chiaro che Obama sta coprendo la passata amministrazione. Quel poco che si è saputo già basterebbe a giustificare la nomina di uno «special prosecutor» per mettere sotto inchiesta Bush e Cheney per le loro sordide azioni. Obama non lo fa, anzi cerca disperatamente di chiudere tutte le scatole dell’orrore che si sono per un attimo aperte.

Come mai? Solo con la denuncia aperta del «dark side», il «lato oscuro» della presidenza Bush (l’espressione è di Cheney) Obama può conquistare la sua libertà d’azione come presidente alternativo, attuare il suo programma di «soft power», di cui lo accreditano i suoi elettori, e passare alla storia come il presidente della palingenesi morale del Paese. Forse, il suo carattere non è abbastanza forte per mostrare tanto coraggio. Sicuramente, subisce ricatti e minacce dietro le quinte, che non possiamo conoscere.

Ad una commissione di verità e riconciliazione si oppongono potenti ambienti militari e dell’intelligence, che sotto Bush si sono sporcati le mani di sangue; essi si avvalgono anche dell’appoggio di quasi tutti i democratici al Congresso, terrorizzati dalla verità perchè hanno dato l’assenso alle menzogne e atrocità del governo repubblicano, macchiandosi di complicità gravissime. La lobby ebraica che ha istigato le guerre ed atrocità di Bush è, ovviamente, dalla loro parte. Inoltre, dev’esserci in Obama la paura di aprire uno sporco vaso di Pandora di rivelazioni tanto spaventose e incontrollabili, che non risparmierebbero nessuno (men che meno i democratici, dalla Pelosi ad Hillary Clinton, che hanno firmato tutte le iniziative del governo Bush), e potrebbero arrivare fino alla rivelazione dell’indicibile: i veri autori del mega-attentato dell’11 settembre, l’inizio e il pretesto della «lunga guerra al terrorismo globale».

E’ una rivelazione che l’America non si può permettere. Annullerebbe definitivamente quel poco di credibilità internazionale che resta agli Stati Uniti; scoprirebbe le sporche complicità di importanti alleati, oltrechè del Partito Democratico, quello stesso di Obama; spaccherebbe il Paese e l’opinione pubblica americana, perchè la maggior parte degli americani non sarebbe disposta ad accettare l’orribile verità sulla sua patria, il presunto «Impero del Bene». Scoprire che la messianica «Città luminosa sulla collina» ha il suo diabolico Nemico non fuori, nel mondo selvaggio, ma all’interno, è una visione che l’americano non può sopportare, perchè gli rifletterebbe la sua stessa immagine, non quella mitica e gratificante che gli proietta Hollywood.

Infine, la verità trascinerebbe nel discredito finale i media della cosiddetta più grande democrazia del mondo, che hanno diffuso le enormi menzogne e coperto i delitti del potere. Insomma, una bancarotta morale epocale, in aggiunta alla bancarotta finanziaria, che renderebbe il Paese ingovernabile.

Infine, bisogna ricordare quel che ha rivelato di recente Seymour Hersh: nell’apparato del governo Obama, Cheney ha lasciato una rete di funzionari che rispondono a lui solo, lo informano di tutto, e che continuano la politica di Bush sotto il nuovo presidente nero.

Obama pare dunque costretto a recitare la parte del Chamberlain del 21mo secolo, cedendo non solo a Netanyahu, ma alle forze interne di cui è ostaggio. Probabilmente, non può fare altro.

Dick Cheney lo sa benissimo, tanto che non manca di apparire in tutti i talk show televisivi - lui che per otto anni non ha parlato se non con qualche ringhio, e per lo più ha abitato in un sotterraneo corazzato anti-atomico sotto un edifico della US Navy a Washington - a giustificare con arroganza la sua politica, torture comprese («Queste tecniche di interrogatorio hanno salvato centinaia di migliaia di vite americane») e a sostenere sinistramente che Obama, smantellando l’apparato di sicurezza, sarà il colpevole del prossimo mega-attentato musulmano: una chiara minaccia, visto che parla il gestore dei mega-attentati.

Persino la rivista Time si chiede: «Come mai Cheney è diventato così chiacchierino di colpo?» (7). La probabile risposta è: perchè si sente sicuro, perchè è ancora lui a tirare i fili del teatrino delle marionette di Obama.

obama_chamberlain.jpgUna conferma: come abbiamo riferito giorni fa, il ministro Gates (che è rimasto ministro del Pentagono sotto Obama), ha sollevato dall’incarico il generale-capo in Afghanistan, McKiernan, uomo di Bush, probabile colpevole dei massacri indiscriminati di civili nella guerra. Ma l’ha sostituito con il generale . Ossia con l’uomo che, durante l’amministrazione Bush e fino all’agosto 2008, è stato a capo del Joint Special Operations Command (JSCO), il super-corpo speciale (unisce tutti i commandos, dalla Delta Forces ai Navy’s Seals) istituito da Cheney per operazioni sporche e segrete in Paesi esteri.

«Il JSOC», ha detto Hersh, «è una rete di assassinio in mano all’esecutivo... Non rispondono a nessuno, tranne che direttamente all’ufficio di Cheney quando era vicepresidente... e la cosa continua. Il congresso non ha alcun potere di controllo su questo corpo» (8).

L’uomo di fiducia di Cheney per gli assassinii e le esecuzioni e le torture è stato promosso da Obama a tentare «un nuovo approccio» in Afghanistan. Insomma, Obama è nelle mani di gente così. Evvidentemente non è in grado di liberarsene. Potrebbe passare alla storia come l’uomo che chiude l’era criminale Bush-Cheney con un grande processo e un lavacro di verità liberatore. Non lo fa o non lo può fare. Così, passerà alla storia come il presidente che ha pagato per tutte le colpe di Bush: prende lui su di sè l’impopolarità della crisi economica più grave della storia americana, della probabile sconfitta in Afghanistan, dell’impantanamento in Iraq; continua la politica aggressiva di Bush verso la Russia (non è stato capace di impedire le manovre congiunte Georgia-NATO); assisterà alla perdita di potere imperiale americano. E dovrà cedere di nuovo e sempre alle volontà del Quarto Reich, come Chamberlain cedette al Terzo.

Dopo Chamberlain, gli inglesi scelsero Churchill. Gli americani non sono stati capaci di tanto.




1) Kaveh Afrasiabi, «Crisis of confidence in Us-Israel ties», Asia Times, 13 maggio 2009.
2) «Israel begins revoking Arabs' citizenship», YNet.news, 5 maggio 2009. Frattanto, il glorioso Tsahal sta esaminando la posizione di alcuni suoi eroici soldati; durante l’invasione di Gaza, hanno costretto un abitante a bere la propria urina, l’hanno picchiato e derubato. Da Haaretz: «The latest complaint was submitted by Omar al-Qanoa to the IDF military advocate general by the Gaza-based Palestinian Center for Human Rights. It states that Qanoa, from the Atatara neighborhood of Gaza City, was detained by the IDF on January 4, along with family members. They were released the following day, but he was transported, bound and blindfolded, to another location, where he was kept for two more days. During that time, he said soldiers denied him water, beat and kicked him, and on three occasions forced him to drink urine. He says soldiers also stole his cell phone as well as $1,000 and NIS 2,500 in cash. He also said he was forced to tell an individual presented as a foreign journalist that he was being treated well».
3) Ai prigionieri cristiani di Gaza, Israele aveva promesso alcuni lasciapassare per andare a vedere il Papa a Gerusalemme. Sono stati chiesti 250 permessi. Una lista di nomi quasi tutti depennati: ne sono rimasti 93. Quando i 93 si sono presentati al valico di Erezt, dopo lunghissima attesa, i giudei ne hanno rimandato indietro oltre la metà. Solo 43 sono riusciti a passare. Sono contenti lo stesso, hanno salutato il Papa.
4) Isi Leibler, «Candidly speaking: Obama, Netanyahu, and American Jews», Jerusalem Post, 11 maggio 2009.
5) Lake, «Obama threatens to limit U.S. intel with Brits», Washington Times, 12 maggio 2009.
William Fisher, «Congress Resists Guantánamo Releases», Interpress Service, 12 maggio 2009.
Bill Va Aukenm, «Obama bows to Republican right and military on torture photos», WSW, 14 maggio 2009.
6) Andy Worthington, «The Death of Rendition Victim Ibn al-Shaykh al-Libi», Future of Freedom Foundation, 11 maggio 2009.
7) Michael Duffy, «Dick Cheney: Why So Chatty All of a Sudden?», Time, 14 maggio 2009.
8) Muriel Kane, «Did newly announced top Afghan general run Cheney's assassination wing?»,
Raw Story, 11 maggio 2009. Da un articolo di Newsweek del giugno 2006: «JSOC is part of what Vice President Dick Cheney was referring to when he said America would have to ‘work the dark side’ after 9/11».


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