>> Login Sostenitori :              | 
header-1

RSS 2.0
menu-1
La «dissolutezza» di Roma
Stampa
  Text size


La storia che la cenere del  Vesuvio ha fissato è ancipite. Può raccontarci gli ultimi istanti di una signora dell’alta società che cercava scampo coi suoi monili e con il suo amante (non era raro che le matrone si offrissero ai gladiatori, i divi dell’epoca); oppure è la fine di un attendente, forse di un centurione, che scortava verso le navi la figlia o la moglie del suo generale. Può essere una storia di dissolutezza, o lealtà e abnegazione. E in ogni caso, il vero significato dell’una o dell’altra versione - questa Rashomon romana - ci sfuggirà sempre. Perché è straordinario quante cose sappiamo di Roma antica - al punto di poterne ricostruire la storia quasi giorno per giorno, gli usi e i costumi fin nei particolari - e tuttavia equivocare il senso profondo di certi atti e manifestazioni di quelle vite, perché nascevano da una mentalità per noi inafferrabile.

Conosciamo migliaia di tombe e sarcofaghi romani, e non finisce di stupire la loro natura «pubblica», e quasi pubblicitaria: nulla dicono sulla morte e l’aldilà, tutte cercano di destare l’attenzione, talora la pietà, più spesso il divertimento del passante - in concorrenza con le altre, tutte poste lungo il bordo delle grandi strade - con grani di saggezza popolare o epigrammi di spirito; per lo più mostrano la professione e lo status del defunto, le cariche ottenute (anche provinciali ed esigue), o esibiscono la fedeltà di servi e liberti che si sono tassati per fare la tomba al padrone o alla padrona: testimonianza di vite tutte proiettate all’esterno, senza privatezza, assorbite nei loro rapporti sociali. Anche sulla sessualità romana, supposta allegramente libera e «senza problemi», occorre intendersi. Se Ovidio scrive poesie alla lucerna, testimone dei suoi amori con l’amata, è perché a Roma era considerato estremamente audace fare l’amore con la luce accesa, e ancor più era proibito farlo di giorno. Il sesso era rigorosamente riservato alla notte e al buio, sicchè le poesie erotiche di Ovidio suonavano non solo maliziose, ma trasgressive in modo dirompente, assolutamente sconvenienti. Persino le prostitute (come mostrano i dipinti erotici dei bordelli di Pompei) non si toglievano mai, nell’atto, la fascia reggiseno.

Così, credo, Marguerite Yourcenar nelle «Memorie di Adriano» è caduta in un equivoco anacronistico, attribuendo al vecchio imperatore una moderna passione omosessuale per Antinoo, il suo giovane favorito. La lussuria omoerotica come inclinazione privata non spiega perché, dopo la scomparsa improvvisa del giovane nelle acque del Nilo, Adriano gli dedicò una città nuova, Antinopoli; e come mai la salace opinione pubblica romana (che aveva pur canzonato, durante i trionfi, la presunta omosessualità di Cesare) non si abbandonò, in questo caso, alle solite battutacce.

Le statue del giovane possono forse suggerirci il motivo: raffigurano Antinoo come Apollo, come un Dioniso adolescente. Non solo Adriano. ma le folle, dovettero vedere in quella bellezza soffusa di malinconia una «epifania», un’irruzione del divino nel nostro mondo, che elevava il tutto nella sfera del sacro, eminentemente pubblica; e la scomparsa improvvisa e misteriosa una «sparizione» divina come quella di Romolo, poi venerato come Quirino. Di qui il culto pubblico ordinato da Adriano. Allo stesso modo, occorre leggere in un certo modo le dissolutezze insaziabili e gli adulteri innumerevoli che Tacito, Sallustio o Velleio Patercolo attribuiscono a grandi dame imperiali, da Giulia a Messalina, e gli eccessi e le crapule di Nerone e Caligola.

Se non altro, perché è Augusto stesso ad esiliare sua figlia Giulia per immoralità, facendo di queste immoralità dettagliato rapporto al Senato; come Claudio fece nei riguardi di Messalina. Già questo dovrebbe dirci che non si trattava di corna o lussurie private. Di che si trattava? Al fondo, di uno scontro ideologico su quale figura dare al nascente impero: se «monarchica» o «repubblicana».

E uno scontro che lacerava le famiglie dominanti della domus e dell’aula (la corte), molto pericoloso per quella nuova istituzione che Augusto stava creando con tutte le prudenze e le incertezze che una simile operazione comportava. Perché ciò che noi chiamiamo «impero romano» e che ci appare nella luce della più alta legittimità, era allora una innovazione altamente illegittima.

Era un potere di fatto, accettato - ma mai del tutto - solo perché tutti erano esausti e dissanguati da decenni di guerra civile. La carica che il capo-fazione Ottaviano, divenuto Augusto, aveva conquistato non aveva nemmeno un nome nell’ordine costituzionale tradizionale, quella «repubblica» della città-stato primigenia. Non lo chiamavano certo «imperator», titolo militare (generale, o generalissimo) che spettava solo al comandante delle legioni in campo.

Lo chiamavano «princeps», qualcosa d’incerto e impreciso, come «il capo». Augusto stesso ne era così cosciente, che cumulava cariche (console, pontifex) sature di «legittimita» nel vecchio ordine; voleva in ogni caso che il suo potere non apparisse come una lacerazione di ordinamenti è vero ormai superati, ma su cui geloso vegliava il testardo conservatorismo romano; specie la classe senatoria, «repubblicana» di nome ma da tempo mutata in oligarchia latifondista e profittatrice dei vasti domini imperiali (1). Già Catilina, il grande sfortunato rivoluzionario, l’aveva proclamato: della repubblica non resta più che il nome. Era lo stesso parere di Cesare, catilinario in gioventù.

Come avrebbe trasformato Cesare la «repubblica» - certo in senso in qualche modo «democratico», essendo Cesare, benchè nobile, esponente dei «populares» - non sappiamo; fu ucciso da «repubblicani» appunto perché contava di cambiarla. Fatto è che Augusto esercitò il principatus (il caporionato, diciamo) ma senza cambiare, o dando l’impressione di non cambiare, le vecchie istituzioni formali. Non solo consultava e rispettava il Senato, ma «restaurava» le prische virtù romano-contadine (ormai azzerate) di frugalità, austerità, morigeratezza, religiosità tradizionale.
Si comportava come un console, e intanto si costruiva attorno una corte, procedeva a darsi un successore.

Ma nella sua stessa famiglia circolava tutto un altro progetto, e un altro ordine di idee. Era l’ideologia «monarchica» dell’impero.  Audace, anti-tradizionale a Roma, necessaria per governare il mondo e le sue culture, questa ideologia aveva un grave inconveniente: era accompagnata, nella mente dei suoi stessi promotori, da tutta una costellazione di concetti e pulsioni allarmanti. Chi pensava (e tramava) «monarchia», pensava necessariamente ad «Asia», «Oriente», «dissolutezza» (contro virtù romana), «eccesso» contro frugalità e moderazione,  potere sovrano «sopra ogni legge»,  e soprattutto «Antonio». Antonio era Marco Antonio, il compagno d’armi e di colpo di Stato di Cesare, di cui Shakespeare ha colto così bene l’astuzia di demagogo senza scrupoli. Era stato Antonio - nudo, il corpo atletico da gladiatore, coperto di ocra rossa come una figura divina - a tendere più volte a Cesare in una giornata memorabile al circo la corona regale, che Cesare respinse perché (dissero i maligni «repubblicani») la folla mancò di incoraggiarlo acclamandolo. Nella guerra civile seguente, era stato Antonio a scegliere risolutamente «l’Oriente» e la sua dissolutezza proverbiale, sotto la forma della sua scandalosa unione con Cleopatra.

Ciò che aveva scandalizzato Roma era stato soprattutto l’evento in cui Antonio e Cleopatra erano apparsi, su un carro trainato da leopardi, finemente coperti d’oro e incoronati di viti: epifanie di Dioniso eArianna trionfanti, re già divini, divinità governanti.

Sconfitto Antonio ad Azio, ne restò l’ideologia e il seme nella stessa corte. Augusto dovette tener d’occhio persino sua sorella Ottavia: era stata moglie di Antonio e ne aveva avuto due figlie, Antonia Maggiore e Antonia Minore. Quando infine si decide a scegliere Tiberio come suo successore (gli altri preferiti erano tutti morti) Augusto lo sposa a Giulia, sua figlia avuta dalla prima moglie Scribonia, che continuava a vivere a corte. Ma basta che Tiberio, colto da una delle sue crisi di cupezza, si ritiri a Capri - difficile personaggio, segnato per la vita dalla palese non preferemza di Augusto - e Giulia si crea attorno una corte «orientale», dedita a bagordi notturni nel foro (pubblici dunque) a una vergognosa licenza, dice Velleio Patercolo, che lei rivendicava ideologicamente: la sua alta condizione le dava «peccandi licentia», diritto a trasgredire.

Sopra le leggi, come una dea o sovrana orientale. Velleio attribuisce a Giulia adulteri con cinque senatori nominati uno per uno, più un numero enorme, inverosimile, di altri senatori e cavalieri. Tutti costoro furono condannati insieme a Giulia; primo fra tutti Iullo Antonio, figlio diretto di Antonio e di una sua moglie, Fulvia. Non certo un caso: gli innumerevoli «adulteri» dovevano essere gli adepti della congiura «monarchica orientale» per cui Giulia fu esiliata.

E non per caso le successive «adultere» e maniache sessuali che Tacito (uomo senatoriale) sferza con la sua scrittura splendidamente arcaica (carica di prisca virtù), le Messaline, le Agrippine, le Poppee, sono tutte o discendenti di Antonio, o coinvolte con suoi discendenti, o influenzate dall’ «Oriente», fosse isiaco, mazdeo o ebraico. Le stranezze e gli eccessi di Nerone vengono da lui stesso giustificati come stile di governo: il governo della «laetitia» (dell’allegria, della smodatezza, del dispotismo orientale) opposto a quello della «tristizia» stoica, virtuosa e repubblicana (per Seneca fu la fine). Caligola vanta la sua discendenza da Antonio (da parte di madre)  più che dalla gente giulio-claudia: allevato in casa di Antonia Maggiore (una vera corte) non c’è da stupire che Caligola dispregiasse apertamente il Senato, fino a far senatore il cavallo. Sputava così sulla «repubblica». Tutti questi eccessi ed arbitrii feroci, tutti questi adulteri ci saranno stati: ma si può intuire che i grandiosi malvagi, pazzi e lussuriosi che li commettevano, nello stesso tempo recitavano una parte di una sacra rappresentazione ideologico-religiosa. Non erano vizi e follie private, ma «rappresentazioni» pubbliche del despota orientale, divino nella dissolutezza.
Mentalità arcaica, difficile da capire.

Ma ci può aiutare a capire perché Tiberio - secondo quanto afferma Tertulliano - potesse davvero provare tanto immediato interesse per il cristianesimo neonato, al punto di cercare di farlo dichiarare «religio licita» nel 35, o perché Seneca potesse davvero aver fatto amicizia con Paolo (a cui Poppea fu nemica), o perché la nobilissima Pomponia Grecina, moglie del generale Aulo Plauzio (nome arcaicamente repubblicano) fu accusata di conversione al Cristo già nel 42, pochi anni dopo la crocifissione in Palestina. E perché il modesto Pietro, a Roma, fosse ascoltato in affollate riunioni di «caesariani», ossia ministri e legati della corte di Cesare Claudio imperatore, e ospite nella casa di un romano che porta il nome nobiliare di Marcello; sicchè i primi cristiani  romani furono membri dell’alta società e non - come credono i laicisti e i propagandistici un certo cattolicesimo - del proletariato e della schiavitù. Nelle virtù dei cristiani, nella loro austerità, castità e semplicità di vita, l’ala stoico-senatoria, o i servitori del nuovo Stato (2) potevano riconoscere qualcosa di «repubblicano», una forza «romana» benefica per un impero moderato, senza gli eccessi dell’Oriente, che non divinizzasse l’imperatore (cosa da cui Tiberio rifuggì con sdegno): l’idea di una monarchia strutturata di virtù romane, portata da uomini di un «oriente» che rigettava la  dissolutezza. Ma di questo scriveremo magari un’altra volta.

Maurizio Blondet

(tratto dall'archivio EFFEDIEFFE.com)



1) Il caso è sempre d’attualità: anche in Italia abbiamo conservatori di una Costituzione che non risponde più alla realtà dei poteri di fatto, né sociale né politica. A difenderla sono coloro che si avvantaggiano di questa divergenza, lucrando privilegi distorti. Oscar Luigi Scalfaro, Ciampi, Napolitano sono questo genere di custodi della «legalità», della norma, del passato.
2) Nella Lettera ai Romani Paolo accenna a fedeli che si riuniscono nella casa di Narcisso, il più influente dei liberti imperiali, praticamente un ministro, e nell’epistola ai Filippesi si parla dei «cristiani che sono nella casa di Cesare», ossia della domus imperiale. Luca dedica il suo Vangelo a un Teofilo che dice «cavaliere», di classe equestre, l’alta borghesia in cui sempre più l’impero reclutava i suoi funzionari di livello. Questa classe, economa e realista, probabilmente non condivideva gli «adulteri» dell’aristocrazia. Quando arriverà al potere supremo coi Flavi, questa borghesia mostrerà uno stile di vita e di governo pratico e senza lussi.


Home  >  Free                                                                                                Back to top

 
Nessun commento per questo articolo

Aggiungi commento


La Dittatura Terapeutica
L’unica ed estrema forma di difesa da questo imminente, sottovalutato, tragico pericolo particolarmente grave per l’Italia, è la presa di coscienza
Contra factum non datur argomentum
George Orwell con geniale e profetico intuito, previde l’oscuramento delle coscienze, il tramonto della civiltà, l’impostura e apostasia dalla verità che viviamo, quando scrisse “nel tempo...
Libreria Ritorno al Reale

EFFEDIEFFESHOP.com
La libreria on-line di EFFEDIEFFE: una selezione di oltre 1300 testi, molti introvabili, in linea con lo spirito editoriale che ci contraddistingue.

Servizi online EFFEDIEFFE.com

Archivio EFFEDIEFFE : Cerca nell'archivio
EFFEDIEFFE tutti i nostri articoli dal
2004 in poi.

Lettere alla redazione : Scrivi a
EFFEDIEFFE.com

Iscriviti alla Newsletter : Resta
aggiornato con gli eventi e le novita'
editorali EFFEDIEFFE

Chi Siamo : Per conoscere la nostra missione, la fede e gli ideali che animano il nostro lavoro.



Redazione : Conoscete tutti i collaboratori EFFEDIEFFE.com

Contatta EFFEDIEFFE : Come
raggiungerci e come contattarci
per telefono e email.

RSS : Rimani aggiornato con i nostri Web feeds

effedieffe Il sito www.effedieffe.com.non è un "prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata", come richiede la legge numero 62 del 7 marzo 2001. Gli aggiornamenti vengono effettuati senza alcuna scadenza fissa e/o periodicità