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Ancora sull’eucarestia
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Spero di non annoiare, ma devo alcune risposte alle cordiali osservazioni di alcuni lettori sul «perchè si va in chiesa».

Uno di loro dice:

«Direttore, perché non va a sentire la Messa di San Pio V?, magari vicino a casa sua ci potrebbe essere un centro di Messa dove si celebra con l’antico rito in latino. La differenza, fra la nuova Messa e l’antica Messa di sempre, è quella che passa fra l’acqua ragia ed il Marsala».

Lo so, e capisco chi fa chilometri per assistere alla Messa di San Pio V. Ma personalmente, mi regolo così: vado vicino a casa, preferibilmente alla chiesa parrocchiale, anche se c’è il «nuovo ordine». Il motivo essenziale è questo: credo che avvenga la transustaziazione quando un sacerdote, validamente ordinato, ossia che ha ricevuto il sacramento dell’ordine, pronuncia la formula sacramentale (ossia ripete le parole di Cristo nell’ultima cena). Qualunque cosa creda quel particolare sacerdote, o persino se non crede affatto.

Perchè ci credo? Perchè sono convinto che la parola di Cristo a Pietro - tu sei Roccia, e su questa roccia fonderò la mia Chiesa - si riferisca in modo radicale, essenziale, a questa garanzia: che la Eucarestia sarà sempre valida. Pietro, qui, è il capostipite delle ordinazioni sacerdotali, ogni ordinazione regolare discende dalla promessa - o meglio, dalla garanzia - fatta a Pietro. Ogni sacerdote, anche se personalmente indegno o miscredente, ha questo mandato come delegato di Pietro. Sicchè la Presenza Reale non verrà mai meno, finchè sia rispettata l’ordinazione, la formula, e la materia (pane rigorosamente di frumento, e vino d’uva).

Finchè c’è questo, posso sopportare una brutta Messa, come nella mia vita di inviato ho sopportato cattivi alberghi. Nè voglio dare alla mia insoddisfazione per la Messa «nuova» il senso di una ribellione; faccio conto di andare a una festa dove il cibo è cattivo e pure mal servito, ma sono sicuro che c’è Lui. E in Italia, per giunta, il cibo non è pessimo come in Olanda; la moda delle chitarre e delle batterie mi pare alquanto superata. E i preti sono persino meglio di quanto ci si possa aspettare da quarant’anni di post-Concilio. Per lo più, credono alla transustanziazione, che è l’essenziale. Ma anche se non ci credessero, ripeto, la loro ordinazione che li rende i sacrificatori, e la formula che ripetono senza variazioni, basta a fare il miracolo. Per il resto, vale il detto: «Perdona loro, non sanno quello che fanno».

Si può replicare che quella a cui credo è una magia: ebbene sì, se vogliamo. La magia è la forma ultima, degradata, del «sacrum» (ma ciò non vuol dire che non sia efficace, purtroppo...). Il problema della Chiesa gerarchica è che ha preso il «sacrum» per un residuo magico, e per vergogna, l’ha buttato via (o messo in sordina). Per cercare di far dimenticare questo aspetto arcaico, scandaloso nella modernità.

Ma la Chiesa ha nella sua tradizione la stessa credenza: la formula consacrante, pronunciata da un ordinato, «agisce», come diceva una volta, «ex opere operato», ossia di per sè. E’ magia? Se è così,  Gesù stesso l’ha autorizzata, istituendo l’eucarestia.

Secondo me, bisogna recuperare il brivido di questa strepitosa, scandalosa, ineliminabile «arcaicità» della fede cattolica. E’ la più arcaica delle religioni, tant’è vero che ha ancora come centro un sacrificio umano, e il sacrificio dell’innocente. Da mangiare, per ottenere la salvezza.

Vi fa orrore? E’ bene: questo è il centro della nostra fede, sangue stillante dalla croce, un corpo piagato coperto di mosche, che è morto per noi. Ossia al posto nostro.

C’è questa corporeità, nella Presenza Reale, che non si può far finta di non vedere. Perchè lo dice Gesù: «La mia carne è vero cibo». Disgusta? Così ha da essere. Anche gli Apostoli erano disgustati.

Perciò non è esatta l’osservazione di un altro gentile lettore:

«Mi sembra che Gesú abbia detto che, ovunque tre o quattro persone si incontrino nel suo nome, egli sarebbe stato presente. Correggetemi se sbaglio. Quindi non dovrebbe Egli essere giá presente nell’assemblea dei fedeli?».

Infatti, la «Institutio Generalis Missalis Romani», promulgata da Paolo VI il 3 aprile ‘69, che definisce la Messa come «santa assemblea», fa riferimento proprio a Matteo (18,20): «Dove si trovano due o tre radunati nel mio nome, io mi trovo in mezzo a loro». Ma il fatto inaudito, mai avvenuto prima per una costituzione, è che questa dizione fu corretta da Paolo VI pochi mesi dopo (maggio 1970), con una formula che conferma la dottrina di sempre: Cristo «realmente presente» e «sostanzialmente e continuamente sotto le specie eucaristiche». Sembra che il Papa l’avesse firmata senza leggerla, fidandosi dei collaboratori; in ogni caso, lo Spirito l’ha assistito (ecco la garanzia di Pietro).

E’ vero che dove due o tre sono radunati nel Suo nome, Lui è tra quelli. Ma in modo «spirituale», che è molto diverso dal modo sacramentale. Se i primi discepoli già non si contentarono di «riunirsi in suo nome», ma fin dall’inizio consacrarono il pane e il vino, vorrà pur dire qualcosa, o no?

Fidiamoci della Tradizione; molta Chiesa gerarchica d’oggi scambia la Tradizione per vecchiume, e questo è un altro dei suoi gravi problemi: l’idea - illuministica - che il passato è solo oscurità e superstizione, rompe con quel che facevano i primi discepoli, ossia i testimoni oculari della resurrezione e ascensione di Cristo. Con che diritto?

Oltretutto, i novatori post-conciliari, quelli che si contentano di credere che due o tre si riuniscano perchè  Cristo sia fra loro, accusano la Chiesa antica di «spiritualismo» eccessivo: ma sono loro gli «spiritualisti», e lo mostrano proprio citando quel passo di Matteo per svalutare la consacrazione formale, sacra (o magica). Non è quel passo di Matteo che fonda l’eucarestia. E’ il passo dove Gesù consacra pane e vino e lo distribuisce, ordinando di farlo quando non ci sarà più.

Ancora una volta, è la corporeità, la materialità del cattolicesimo che deve essere salvaguardata.

Dietro quel pane consacrato c’è il corpo, il sangue (e l’anima e la divinità) dell’uomo corporeo che fu Cristo, anzi chè è corpo anche ora, «in cielo». Quel che ci promette la fede, è la resurrezione «dei corpi». Corpi bellissimi, di cui i nostri corpi attuali sono solo «il seme», che deve marcire in terra per risorgere; ma sempre «corpi», l’uomo non è solo spirito, ma «corpo-e-anima», e questa unità è la nostra integrità.

Poi, quegli stessi spiritualisti post-conciliari magari esagerano dal lato opposto, facendo della Messa una «cena», e in certi periodi e in certi posti si credette di interpretare lo spirito del Concilio facendo un cenone, dove i fedeli portavano torte e arrosti, e stavano insieme allegramente, «spezzando» poi il pane insieme (in USA, Diocesi di Seattle, si usa un budino, fatto di «uova, latte, margarina, lievito e miele»): ovviamente lì nessuna formula può consacrare un tal budino. La materia consacrabile è, rigorosamente, pane di frumento e vino d’uva. Nemmeno il riso - benchè sia il cibo di due terzi dell’umanità - va bene. Anche questa è «corporeità». Ed è «sacrum»: non c’è un motivo, è la volontà di Cristo.

Bisogna imparare il «rigore» della religione, ossia che non si può fare quello che si vuole, quando è in gioco il «sacrum» - e la liturgia era essenzialmente una scuola di rigorosa bellezza, che preparava all’irruzione del sacrum, fino a intridersi di sacralità.

Ciò vale per il precetto domenicale, sotto pena di peccato. Come ho già detto, un vescovo francese  post-conciliare scrisse: «Non ci si mette in regola con Dio sottomettendosi a un’obbligazione». Ma che vuol dire? Nella pratica, è il permesso andare a Messa non la domenica, ma «quando ci va», quando «sentiamo» di farlo. Naturalmente succede che parecchi «non sentono» mai il bisogno...

Il bello (o il triste) è che questa asserzione nasceva da una buona intenzione: non crediate, cristiani, di aver fatto tutto quel che serve perchè andate a Messa ogni domenica. Non crediate di esservi messi in regola, questo lo facevano i Farisei (e gli ebrei d’oggi, che si sentono in regola quando non mangiano il formaggio insieme alla carne).

E’ verissimo. Il punto è che per crescere in qualunque aspetto della vita, bisogna cominciare a «sottomettersi a un’obbligazione». Se volete diventare Mozart, dovete cominciare imparando a leggere il pentagramma, ed esercitarvi per ore a fare le scale al piano. Insomma fare una quantità di esercizi noiosi. Ma se non li fate, non diventerete mai Mozart. Non è mai nato un Mozart, senza fare le scale.

Nella scienza suprema - la santità - è esattamente lo stesso. Del resto sarebbe strano, disse Simone Weil, che ogni perfezione umana richieda un metodo, e la perfezione soprannaturale non avesse bisogno di alcun metodo. Anche qui si comincia sottomettendosi ad un’obbligazione; aridamente magari, ma per mostrare a Dio che vogliamo fare la Sua volontà, cominciamo ad obbedire al precetto domenicale. Poi, come nella musica, dal rigore iniziale sboccerà la bellezza.

La bellezza artistica non è infatti che questo: il rigore diventato, a forza di esercizi, scioltezza, eleganza, virtuosismo, creatività. «Virtù» infatti significa semplicemente «buona abitudine», e le buone abitudini si imparano (i vizi sono cattive abitudini).

Rigore e bellezza sono la stessa cosa: nella scienza suprema, la salvezza eterna, si comincia col rigore per acquistare le virtù, ossia l’elegante, sciolto, creativo esercizio della carità, della fede, della speranza, o della castità, come lo seppero «eseguire» i grandi Santi che ammiriamo, Francesco, Tommaso d’Aquino, padre Pio. I nostri virtuosi nell’arte che sola conta.

Certo, il rischio è che tanti credano di mettersi in regola perchè vanno a Messa la domenica. E’ un rischio umano; e non lo diminuisce certo il consiglio episcopale francese di «non» andare a Messa. In ogni caso, chi va a Messa solo per aderire a un precetto, tiene almeno la porta aperta all’azione di Dio. All’imperscrutabile potenza della Presenza Reale.

Ed è semplicemente orrendo, dunque, quando il Messale francese di quegli anni ‘60 faceva pregare per «quei credenti che sono tentati di accomodarsi nelle loro certezze». Anche questo orrore nasce da un’intenzione in qualche modo buona: accomodarsi non è cristiano, è borghese o farisaico.

Però, la frase vescovile francese contiene un equivoco fatale: si confondono (o non si distinguono) le certezze della fede, da quelle della morale. Un cristiano deve essere fortemente ancorato nelle certezze della sua fede; deve scacciare e vincere i dubbi su Cristo, sulla sua Presenza Reale, sui dogmi. Non deve accomodarsi sulle sue «certezze» morali, personali. Non deve dire: beh, io vado a Messa, dunque sono a posto, se poi  non vince se stesso ogni giorno.

Ed anche di questo sono maestri gli apostoli.

L’Ultima Cena, che troppo superficialmente lo «spirito del Concilio» riduce a un convivio festivo, dove i convenuti celebravano la vicendevole fraternità, fu invece - come dice splendidamente Amerio - un evento tragico. Che cena era quella? Gesù, che di lì a poco avrebbe sudato sangue nell’orto degli olivi, non fa che parlare della propria morte imminente, preannuncia il proprio supplizio. Dice anche: «Uno di voi mi tradirà».

Terribile. Piomba lo spavento «tra i discepoli incerti della loro fedeltà al Maestro». Perchè «nessuno dei discepoli è certo di non tradire, e domanda al Maestro: sono forse io? Questa tragica incertezza del proprio volere», dice Amerio, «si vede colta colta stupendamente nell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci».

Questo è il punto: la fede è sicura in Gesù, ma tuttavia «nessuno dei discepoli è certo di non tradire».

Non equivochiamo: una cosa è il dubbio sulla fede (che non va coltivato), un’altra il dubbio su di noi, che è umiltà, ossia realismo. Ci si deve saldare nella fede delle promesse di Cristo, ma restiamo tragicamente incerti del nostro volere morale. E’ la nostra natura spezzata, a cui solo il Cibo, il Corpo Reale, può dare la forza e la salute.

Per questo non sono d’accordo con il lettore che dice:

«Meglio una Messa al mese vetus ordo, anche se si devono fare 100 chilometri, che 100 novus ordo sotto casa!»

No, una Messa al mese no. Il fatto che sia brutta non è una scusa per saltarla. Almeno per me, perchè non sono ancora Mozart. Ben lungi. Io sto ancora facendo le scale, e stono ancora parecchio.



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