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Europei
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Il 18 maggio 1565, quando fu vista avvicinarsi la grande flotta turca con 40 mila uomini, fra cui 6.500 giannizzeri (la truppa d’elite) armati dei più moderni archibugi tedeschi, a Malta erano presenti settecento cavalieri. Il gran maestro Jean de la Valette, che era entrato nell’Ordine a 20 anni ed ora ne aveva 61, aveva fatto in tempo a diramare per tutta Europa la convocazione generale: tutti i cavalieri di San Giovanni che fossero nelle corti europee o nei possedimenti dell’ordine, dovevano tornare a Malta per sostenere l’assedio. Don Garcia de Toledo, vicerè di Sicilia, aveva portato di persona rifornimenti; suo figlio Federico, un ragazzo, volle restare. Il duca di Toscana mandò 200 preziosi barili di polvere nera. I turchi ne avevano portati 6.500.

difesa_malta_1565_2.jpgI cavalieri erano un corpo internazionale separato per «langues», si rifiutavano di combattere per re e sovrani contro altri cristiani, non davano obbedienza che al Papa, andavano in combattimento indossando le armature di ferro, inutili contro gli archibugi: erano un resto anacronistico delle Crociate, in ritardo di 300 anni. Cacciati da Rodi, erano diventati essenzialmente degli ospedalieri, ma esercitavano ancora la pirateria contro navi ottomane. La Valette stesso era stato catturato una ventina d’anni prima da un corsaro di nome Kust Alì ed aveva passato un anno al remo, galeotto di una galea turca, incatenato tra le sue feci, prima di essere riscattato. Aveva riformato l’Ordine, vietando i duelli, il gioco e il vino, ed imponendo gli obblighi religiosi. Lo descrivono «alto, calmo, controllato, di bell’aspetto». Come i suoi cavalieri, era cosciente che Malta era l’avamposto di uomini a perdere. I cavalieri potevano contare, oltre che su di sè, su 4 mila maltesi volontariamente disposti a battersi. Un decimo della forza avversaria.

Mentre le galee turche s’avvicinavano, i settecento cavalieri assistettero alla Messa e si confessarono. La Valette li apostrofò brevemente: «Fratelli, costoro sono nemici della fede e di Cristo. Dio ci chiede la vita, che noi abbiamo già votato al  suo servizio. Beati coloro che per primi consumeranno il sacrificio». Il Pontefice aveva concesso l’indulgenza plenaria a chi fosse morto  combattendo.

La Valette col grosso della forza si asserragliò a Castel Sant’Angelo, il quartier generale, la fortezza che sorge sulla sponda sud del porto grande di Malta; dalla parte settentrionale, sullo sperone, un gruppo minore presidiava forte sant’Elmo, una fortezza non ancora terminata, e presto isolata dal quartier generale. L’avamposto degli avamposti degli uomini perduti.

Ma il primo attacco dei turchi a Sant’Angelo fu uno scacco. Erano stati indotti all’errore da Adrien de la Rivière, un cavaliere che, torturato per ore, aveva eroicamente mentito, prima di morire,  indicando come punto debole il muro di sbarramento, in realtà rafforzato. L’attacco fu respinto da una sortita impetuosa dei cavalieri di «langue» spagnola.

I turchi si concentrarono allora su Sant’Elmo, spina nel fianco che doveva cadere. Lo batterono con artiglierie che avevano portato a braccia a ridosso del forte. Bocche da fuoco che sparavano palle da 27, da 36, anche da 80 chili. A cui si aggiunsero le colubrine del pirata Dragut, ottantenne ma ottimo artigliere, sopraggiunto con le sue galee e 1.500 uomini.

La Valette era riuscito a rafforzare la guarnigione di Sant’Elmo con  65 cavalieri e 200 maltesi, che attraversarono il porto grande di notte e poi si arrampicarono fino alla fortezza. I difensori subirono un cannoneggiamento che si calcolò in 6 mila palle di cannone, in media, al giorno. E si sparava anche di notte. Le fortificazioni furono completamente diroccate, i difensori resistevano fra le macerie.

Il 3 giugno i cannoni tacquero, e la fanteria ottomana si riversò in massa all’attacco del forte; contavano di impadronirsi del terrapieno di primo sbarramento (il rivellino), non ancora finito, e trasportare lì i cannoni per tirare sul forte a bruciapelo. Sui bastioni, furono affrontati da cavalieri in armatura totale, spada a due mani, e da un lancio di fuoco greco. Nell’attacco respinto, i turchi  lasciarono sul terreno duemila guerrieri; dieci cavalieri persero la vita con settanta armigeri cristiani.


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Gli attacchi furono reiterati il 7 giugno e poi il 10, stavolta di notte: a Sant’Elmo altri 30 morirono, e fra i turchi, 1500. La Valette riuscì a far giungere 200 uomini freschi a Sant’Elmo: il giorno dopo,  i turchi si trovarono davanti una guarnigione rinnovata.

Ma nel quartier generale si tenne consiglio la notte del 7: se abbandonare il forte isolato, o tenerlo perdendo uno ad uno i cavalieri (che volevano trasferirsi là in massa).

La Valette tenne a freno le teste calde, ma diramò l’ordine: ogni posizione di Malta difendibile doveva essere tenuta fino all’ultimo uomo. Bisognava guadagnar tempo; la imprevista resistenza dell’isola aveva esaltato e stupito l’Europa; si preparavano soccorsi che avrebbero rotto l’assedio... 42 cavalieri (fra cui due inglesi, banditi da un editto di EnricoVIII perchè gli avevano rifiutato il giuramento di fedeltà) erano già riusciti a forzare il blocco navale turco, aggiungendosi agli assediati.

Il 14 giugno, un messo turco con bandiera bianca offrì un salvacondotto agli assediati di Sant’Elmo,  se avessero abbandonato il forte. I cavalieri più giovani volevano - per risposta - fare una sortita dal forte ormai indifendibile e, in corazza e spadone, morire tutti. Il loro portavoce era Vitellino Vitelleschi, italiano.

«Le leggi dell’onore», gli disse La Valette, «non sono salvaguardate col gettare la vita a proprio giudizio. Dovere del soldato è obbedire. Dite ai vostri compagni di stare ai loro posti».

Il 16 giugno, i turchi sferrarono un nuovo attacco; con 4 mila archibugieri appostati che tiravano su chiunque si sporgesse dalle macerie, e coprivano la torma che avanzava urlando con le scimitarre e frecce. I cavalieri persero 150 uomini, i turchi altri mille. La notte, raggiunsero l’avamposto 30 cavalieri e 300 volontari, per lo più maltesi. Al gruppo si associarono due ebrei, civili, contagiati d’entusiasmo  dalla resistenza dei cristiani. Il 18, Dragut, uno dei migliori tattici dell’armata assediante, fu colpito da una granata cristiana, e morì dopo giorni d’agonia: fece in tempo a sentire però che Sant’Elmo era caduto, il 23 giugno.

In 31 giorni di assedio di Sant’Elmo, i turchi avevano perso 8 mila uomini, un quarto della forza totale; pazzi di rabbia, si impadronirono di tutti i cavalieri - feriti, sopravvissuti ed anche cadaveri - e a ciascuno strapparono il cuore, spiccarono la testa e, sui petti spogliati dalle corazze, incisero una croce. Poi legarono ogni cadavere a una croce di legno che mandarono a galleggiare nel porto, a raggiungere Castel Sant’Angelo.

Era la crudeltà turca, pensata per indebolire il morale del nemico.

La Valette rispose mandando a raccogliere tutti i turchi che erano stati fatti prigionieri nei giorni precedenti, li fece decapitare, e fece sparare le loro teste su San’Elmo ormai occupata dai nemici.

Passarono i giorni, fra continui attacchi a Sant’Angelo, i turchi avanzavano metro per metro; fra loro cominciavano a scarseggiare i viveri, e a serpeggiare malattie. Anche i Cavalieri temettero epidemie (nei loro ospedali, aperti a malati poveri di qualunque fede, ebrei compresi, mantenevano una igiene del tutto insolita per l’epoca; servivano i malati in piatti d’argento, di cui forse avevano intuito le qualità auto-sterilizzanti).

Si arrivò così al 7 agosto, quando i turchi sferrarono l’attacco che appariva decisivo.

difesa_malta_1565.jpgIl vecchio La Valette indossò come gli altri cavalieri l’armatura totale per prendere parte al contrattacco. Ai cavalieri che lo imploravano di non mettere a rischio la sua vita perchè serviva il suo comando, rispose: «So di certo che se io e i miei cadiamo, voi continuerete a combattere per onore dell’Ordine e amore di nostra santa Chiesa». E uscì con gli altri, brandendo la spada a due mani.

La morte non lo volle. Irregolari maltesi a cavallo, partiti al galoppo dalla Medina, fecero un’incursione a sorpresa nell’accampamento turco, che spaventò e disorganizzò gli attaccanti. 

L’impeto dei turchi, minacciati dalla fame e dalle malattie, venne meno: la loro base a terra s’era mostrata insicura. La seconda settimana di settembre del resto, dopo mesi di di esitazione, giunsero agli assediati i sospirati soccorsi. L’armatore Gianandrea Doria guidò le sessanta galee del vicerè di Sicilia verso Malta; il vicerè, don Garcia de Toledo, riuscì a far sbarcare nella baia di Mellieha  9.600 armati napoletani, siciliani, e spagnoli, i migliori fanti del tempo.

Ma non dovettero combattere. L’inverno, quando il Mediterraneo diventa mal navigabile, era vicino: i turchi si affrettarono a imbarcarsi per non essere bloccati dal cattivo tempo. Il 12 settembre 1565, presero il mare verso Costantinopoli, dove Solimano li attendeva corrucciato.

Nei quattro mesi di assedio e di assalti avevano perso 31 mila uomini su 40 mila. Dei 700 cavalieri di Malta, ne erano morti 250, e tutti gli altri - molti vecchi d’età - erano invalidi per le mutilazioni e le ferite. Durissimo il sacrificio della popolazione maltese: degli isolani maschi atti alle armi, calcolati all’inizio in novemila, ne erano rimasti vivi 600.

In tutta l’Europa cattolica si cantò il Te Deum; ma anche Elisabetta, la «regina vergine», antipapista, ordinò che si celebrasse in tutte le chiese anglicane la liberazione di Malta.

Il pontefice offrì a La Valette il cappello di cardinale; egli rifiutò, scegliendo di restare per il resto della sua vita a Malta a ricostruire e rafforzare le fortificazioni, usando a questo scopo le ricche  donazioni piovute sull’Ordine da tutte le corti ammirate. La cittadella inespugnabile che costruì a nord del porto grande fu chiamata in suo onore La Valletta. Il Gran Maestro morì il 21 agosto 1568 per  una causa singolare e significativa: un’insolazione presa durante la caccia al falcone sotto il sole di Malta.

Solimano si diede a preparare una nuova flotta di 200 galeee, pensando alla rivincita. Da Madrid, l’imperatore Filippo nominò al comando della flotta il fratellastro, il biondo quindicenne don Giovanni d’Austria, figlio illegittimo di Carlo V: il gentiluomo ardito e cortese, che avrebbe vinto quella flotta turca a Lepanto, il 7 ottobre 1571 (1).

Ma erano stati i cavalieri, detti da allora di Malta, a spezzare il mito della invincibilità turca.

Chissà perchè nessuno ha pensato, nell’Europa d’oggi, di trarre un film da questa storia. La sceneggiatura è già pronta. Chissà perchè.




1) Quel giorno a Lepanto don Giovanni non aveva ancora 24 anni, ed era al comando di 300 navi della Lega Santa. Mentre lanciava la sua ammiraglia «Real» contro l’ammiraglia turca, sotto i fischi delle archibugiate, fu visto «danzare una ‘gagliarda’ sulla piattaforma dei cannoni, al suono dei pifferi, per giovanile ardore». A fine giornata erano morti 50 mila cristiani, ed altrettanti turchi.   Partecipò alla giornata, come soldato semplice agli ordini di Diego da Urbino, un altro ventenne, Miguel De Cervantes: comandò una scialuppa che arrembò e prese all’arma bianca una galea turca, passando sulla coperta per una passerella coi suoi uomini. Ne ebbe due dita amputate e due ferite al petto, di quelle, come farà dire al suo Don Chisciotte, che «sono le stelle che ti guidano, attraverso l’onore, ai cieli».


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