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Proust, clinico dell’ omosessualità
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Un lettore normale si chiede: che amore è questo? E’ chiaro che Marcel (Prust), per quanto dica, non ama Albertine, non vede in lei che un mezzo - unico - per il proprio narcisismo egocentrico. Se l’amasse, andrebbe con lei alla mostra d’arte, con lei andrebbe a visitare l’amico. Che «amore» è questo? Ovviamente, è «amore» omosessuale. E’ noto che, in Albertine, Proust ha ritratto Alfredo Agostinelli (1888-1914), il giovanotto che fece il suo autista. O per essere più precisi: poichè Agostinelli amava i motori, Proust comprò un’auto di cui non sentiva alcun bisogno per fare del ragazzone il suo autista e tenerselo vicino, come un prigioniero (e Albertine è «la prisonnière»). Agostinelli non era omosessuale, aveva scappatelle con donne (come Albertine) suscitando l’ossessiva gelosia di Marcel. Agostinelli cercò di fuggire a questa relazione - prigionia (Albertine diventa «la fugitive»). Agostinelli muore pilotando l’aereo che il ricchissimo Proust gli ha regalato, ancora una volta per possederlo come si possiede una cosa. «Amore» pagato, come poteva fare un ricco invertito parigino del  primo ‘900. Albertine disparue. Benchè Proust sia un bravissimo narratore, non riesce a far apparire quella con Albertine come una passione eterosessuale: come omosex, non ha la minima cognizione di cosa questo sia, di cosa sia costituito, di cosa lo arricchisca. Ciò che ci addita là dove crede si possa situare l’«amore», è il vuoto, la falla cui gli omosessuali si volgono coattivamente, incessantemente, alla ricerca di un compimento che non trovano mai.

Nei tempi della omosessualità «felice» di San Francisco, prima che scoppiasse l’Aids, accadeva che un individuo avesse in un anno oltre 600 rapporti con individui diversi, sconosciuti, con cui magari non aveva prima scambiato una parola (tali incontri avvenivano in locali oscuri, «bathouses»): performances simili non sono perseguite dal più scapestrato e lascivo donnaiolo. Qualche notte di débauche intensa basta a richiedere, nell’eterosessuale, una pausa, l’andare a passeggiare, a pescare, a leggere o a bere con amici, il non pensare al sesso. L’omo è prigioniero di una coazione a ripetere, torna sempre lì, sempre illuso di trovare una soddisfazione che gli sfugge - lo notò anche Moravia a proposito della «insaziabilità» di Pasolini, che non poteva essere trattenuto ad andare, la notte, a cercare un amore losco, come un gatto in calore.

E’ la differenza tra un pasto di cibo reale, nutriente (non si possono mangiare tre chili di caviale) e il «pasto nudo» del tossicomane, che non sazia mai. Una malattia, appunto. Se equivoca senza speranza sull’amore, in compenso Proust descrive con estrema precisione la malattia omosessuale: sintomi, cause, decorso, prognosi. Proust è un insuperabile diagnosta della falsità del mondo che frequenta, sia il salotto dei grandi Guermantes, sia il «piccolo nucleo» dei borghesi Verdurin, che si piccano di «scoprire» artisti, di essere «naturali». Non c’è nessuno che meglio di lui veda - e faccia vedere - la «ciò che un personaggio crede di essere e ciò che è veramente, ciò che esprime suo malgrado», per lo più affettazione, falsità, cattiveria ed egoismo invincibile. Per questo Proust è un grande diagnosta anche della «sua» malattia. In quanto tale, è il più informato e acuto smentitore del «movimento omosessuale», e della propaganda imperante che vuole imporre a tutti, «l’orgoglio gay», e l’anormale come normalità da accettare. Normale? Invariabilmente, Proust presenta «le donne della sua vita» (i suoi uomini) come  persone che non aspettano che d’essere lasciate sole un momento, magari al caffè, per «farsene uno» con il primo che passa: esperienza costante dell’«amore» gay, dove è sconosciuta la nozione che una donna che ama un uomo può non aver voglia di essergli infedele.

Anche le altre «donne» de La Recherche si comportano così. Basta che il loro marito, o il compagno da cui sono mantenute, le perda di vista un secondo, e già si danno da fare nelle toilette di un albergo con un cameriere, o in una cabina di spiaggia con un’amica saffica colta al volo. Sarò ingenuo, ma credo che questo non sia così ossessivamente comune nelle passsioni etero, anche nelle più ignobili. Lo è, invece, tra omosessuali. Nè è da passione fra uomo e donna la meccanica semplicista che Proust ripete continuamente: quando lui ama, l’amata lo sfugge: quando lui diventa indifferente, è lei ad offrirsi.

Ciò invariabilmente, implacabilmente, senza eccezione alcuna. Marcel ama per anni, invano, Gilberte; quando cessa di amarla, Gilberte gli si butta tra le braccia. Proust filosofeggia: forse è precisamente perchè non amiamo, che «le donne» (uomini) sembra ci si offrano; quando le amiamo, la loro «offerta» ci pare insufficiente, derisoria.
Non è possibile che un narratore di così impareggiabile bravura scada in questo schematismo per ingenuità. Ancora una volta, descrive  il «pasto nudo», l’illusorietà della relazione gay e la sua coazione a ripeterla.

Così come tradisce la realtà gay - tristissimamente gay - l’altro clichè proustiano: le «donne della nostra vita» non possono essere che delle prigioniere o delle fuggitive, nell’attesa che ci diventino indifferenti. Un eterosessuale capisce però abbastanza bene questa esperienza, anzi la conosce: un uomo che desidera una donna sessualmente, ma non la ama, prova esattamente gli stessi sentimenti contraddittori. La sua presenza lo annoia, egli la sente come ostacolo ad altri flirts, magari immaginari, o alle occupazioni «da maschi» di cui sente, solo allora, la necessità impellente. Quando lei non c’è il desiderio fisico si fa imperioso, ed egli cerca di nuovo la noiosa. Forse con piena coscienza - l’onestà del genio narratore - Marcel tradisce i modi dell’essere invertito. Le «donne» che gli suscitano un desiderio sessuale brusco allo stato puro, come la cameriera che il narratore abbraccia mentre lo serve a tavola, soffiando sul lume e mettendole (-gli) del denaro in mano, perchè lei (lui) lasci fare. La «jeune Vènitienne à la carnation de fleur», che a Venezia lo soddisfa tanto, al punto che Marcel fa i conti di quanto gli resti delle sue ricchezze per vedere se può portarsela (-lo) a Parigi, come «prisonnière», come - dice - «un Tiziano autentico che si acquista prima di partire». Marcel desidera rivedere Gilberte, che ormai non «ama» più, per utilizzarla come mezzana, in quanto lei (lui) può fargli incontrare delle altre giovani ragazze in fiore.

Mai, in ogni caso, il cosiddetto «amore» di Marcel per l’una o l’altra «donna» si rivolge alle di lei qualità inerenti, al suo essere e carattere obbiettivo: anche Albertine resta una figura poco delineata, un’ombra. Solo cerca, «attraverso l’oggetto», il fatto di aver passione e di ricevere passione dall’ «oggetto». Pagando, magari.

La vita dell’omosessuale viene rivelata, o tradita, in infiniti modi. Il narratore finisce per vedere in tutti dei suoi pari, invertiti o lesbiche: se non lo sono lo diventeranno, in ogni etero si cela un omo che si nasconde per ipocrisia o si ignora per idiozia, persino Saint-Loup si rivela alla fine omosessuale. La vita di società è Sodoma e Gomorra, un formicolare di gente che si finge solo normale, ma non lo è, e finge sempre meno e sempre peggio. Un altro sintomo della patologia è la cattiveria, la méchanceté propria dell’ambiente. Proust descrive infinite feste, salotti, cene, garden-party.

Come ha notato Jean François Revel, queste feste «sono la totale inversione del principio stesso della festa, anti-feste permanenti, che consistono nel riunirsi per dedicarsi all’attività di essere cattivi gli uni con gli altri, ciascuno preoccupato di ottenere piccoli trionfi di crudeltà e d’evitare per sé la crudeltà degli altri». Feste idiote ma pretesamente allegre, dove «ciascuno si rallegra d’essere presente quando un altro viene escluso», dove tutti «passano il tempo a spiarsi nella speranza di assistere all’umiliazione di uno tra loro»: descrizione in cui un gay, nel suo foro interiore dove si dice le cose che non confessa, riconoscerà non tanto i caratteri del «bel mondo», ma del «suo» mondo. Marcel definisce con precisione clinica la mancanza, la falla primaria dell’omosessuale, ben nota agli psichiatri: egli non conosce l’amicizia tra uomini, che tanto arricchisce il mondo maschile eterosessuale. L’amicizia di cacciatori e di soldati, il cameratismo di palestra o di accampamento. Marcel dice di avere un «grande amico», il marchese di Saint-Loup: ma racconta che dopo tre ore di conversazione con lui, «il narratore esausto ha la sensazione di aver sprecato a caso, senza scopo e senza gioia, la forza delle idee che doveva tenere in riserva per la sua opera» letteraria. E’ ciò che nessun eterosessuale prova con un amico, ma può benissimo provare dopo «tre ore di conversazione» (magari, peggio, intellettuale) con una signora che, alla fine, non gli si concede. Nello spogliatoio di una palestra di pugili o calciatori, un omo prova l’imbarazzo e le voglie che un etero prova a trovarsi in uno spogliatoio femminile.

La cosa è così nota agli psicologi, che alcuni tentato una terapia dell’omosessualità rieducando, addestrando il paziente - se consenziente - all’amicizia fra maschi. Nauralmente il «gay pride» non ammetterà mai questa insufficienza, causa profonda e forse primaria della loro turba. Ma Proust la confessa senza esitare: parla di «quelle simpatie tra uomini che, quando non hanno l’attrazione fisica come base, sono le sole che siano del tutto misteriose». E’ un mistero per gli omo come si possa stare con un uomo senza «l’attrazione fisica come base». Che dirgli? Di che si parla? Come a noi succede spesso con una donna, specie se bella. Marcel descrive la causa profonda e determinante dell’omosessualità. o meglio, la rivela tradendosi.
Abbiamo visto come le «donne» sono tutte infedeli pronte a tradire, fondamentalmente poche di buono e incoercibili.

Solo due donne fanno eccezione nella Recherche: la madre e la nonna di Marcel. Donne? Quelle due sono piuttosto sante, anime fuori della vita, astri di bontà che ogni sera rimboccano le lenzuola a un Marcel ormai tanto cresciuto da tenersi in casa Albertine (Agostinelli): insomma le amanti celestiali e coccolanti, soffocanti, infinitamente permissive, che per l’omosessuale nessun’altra donna potrà essere. Pasolini provava gli stessi sentimenti per sua madre, cui fece fare la parte della Madonna nel Vangelo filmico. Di fronte a quelle due angeliche (ma tremende) presenze, i soli personaggi non satireggiati nel romanzo, colpisce un’assenza: quella del padre. Ciò è tanto più strano e anomalo se si pensa che il papà di Proust era un personaggio notevole, un carattere interessante e uno scienziato, giustamente celebre al suo tempo.

Il professor Adrien Proust, accademico medico, cattedratico di Igiene alla Facoltà di Medicina di Parigi, grand commis, è l’uomo a cui si deve una Convenzione di Parigi che regolò con metodi moderni il sistema delle quarantene bloccando in tutta Europa - prima della scoperta degli antibiotici - le epidemie ricorrenti, provenienti dall’Asia, come peste e colera.

A questo personaggio, di cui ci piacerebbe sapere di più (com’era in famiglia, cosa diceva, come educava il figlio) Marcel dedica, in tutta la sua opera sterminata, solo fugaci accenni casuali. Nel romanzo, il professor Adrien non parla mai, non dice nulla, non appare. A meno che non sia tratteggiata una satira feroce di questo padre assente - o azzerato - nella figura del dottor Cottard, geniale come scienziato ma grossolano come uomo, gaffeur di sentimenti volgari e mediocri, o in Bloch, l’amico ebraicamente arrivista, narcisista, maldicente  e snob. Un sintomo dei più chiari e fatali della malattia omosessuale.

E dopo la diagnosi, il decorso. Perchè essendo l’omosessualità una turba, essa ha un decorso. come l’alcolismo o la tossicodipendenza, essa provoca con gli anni un degrado sensibile della personalità, una distorsione sempre più visibile del comportamento. La figura-chiave qui è il barone de Charlus, vera figura centrale del romanzo, in cui Proust ha messo tanto di sè: Charlus è il solo, fra i nobili vacui e altezzosi dei «déjueners en ville», a comprendere davvero l’arte, ad averne bisogno, e ad esprimere un giudizio indipendente dalla sua classe: per esempio quando scoppia la grande guerra, Charlus è anti-interventista, si dispiace ad alta voce di non poter più mandare l’annuale lettera di auguri di compleanno a suo cugino Francesco Giuseppe, si fa emarginare dai salotti come «disfattista». E’ un personaggio, coi suoi tic e le sue crudeltà, è un essere reale, degno e positivo. Quando il giovane Marcel lo incontra per la prima volta, Charlus è un burbero militaresco, che veste accuratamente «da maschio» nei colori e nel taglio, cristiano reazionario, spregiatore ad alta voce dei «pederasti».

Alla fine della sua lunga storia, è un vecchio che si tinge, che occhieggia i ragazzini, che vediamo entrare, col rossetto e le ciglia dipinte, in un losco «hotel particulier» a farsi frustare, incatenato, da un sodomizzatore sadico. La sua maschera virile s’è sfatta, il vecchio invertito non riesce più a reggerla.

Ma «Marcel» aveva capito in anticipo, in un tratto sintomatico di Charlus, che descrive da diagnosta impareggiabile: «Mi accorsi allora che i suoi occhi, che non si fissavano mai sull’interlocutore, si volgevano perpetuamente in ogni direzione, come quelli di certi animali spaventati, o di certi mercanti senza permesso che, mentre pronunciano i loro imbonimenti ed esibiscono la loro mercanzia illecita, scrutano - ma senza girare la testa - i differenti punti dell’orizzonte da cui potrebbe arrivare la polizia». Oggi che l’outing-out è di moda, anzi esaltato come «sincerità» e liberazione, può darsi che questo guardare attorno sia un tratto più raro. Ma non è detto. Il senatore americano apostolo dei «valori familiari» e colto con le brache calate in un cesso a fare avances ad un giovane che si è rivelato un poliziotto, avrà avuto lo stesso sguardo?

In ogni caso, il suo vizio l’ha perduto. E’ per via del decorso. Con gli anni, la maschera si disfa, i freni interiori si allentano, l’invertito non riesce più a dissimularsi.

Maurizio Blondet

(articolo pubblicato su EFEFDIEFFE.com il 10 settembre 2007)



 

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