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Il ritorno di Annibale
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La recente lettura di una vecchia biografìa del leggendario Annibale suggerisce un singolare parallelo con il presente (1).

Caos da fine di un’epoca, caduta di muri e ideologie, tecnica ed economia disumane sono realtà con cui misurarsi all’inizio di un nuovo millennio. La loro comune matrice, discesa dal calo di tensione spirituale, risiede in gran parte nell’oblio della politica.

Intendiamoci: morta questa non scompaiono i suoi rappresentanti, ma a qualificarli rimane solo la forma. La sostanza, ormai, è banale ratifica di decisioni maturate altrove, nei circoli finanziari, apolidi per loro natura. Oggi la politica è schiava dell’economia, con tutto ciò che consegue in termini di freno alla civilizzazione, squilibri demografici, disordine morale e materiale.

Questo segna il successo di una visione della vita e del mondo che nei secoli è stata mitigata, quasi trattenuta dall’arte di governo. Ogni grande impero, dal romano al britannico, dall’austro-ungarico al moderno - piaccia o no - americano, ha avuto origine da una sola presunzione: incarnare il migliore sistema politico-istituzionale esistente.

L’economia sinora ha viaggiato al pari di tale concezione, mai al di sopra. Ma nella storia, il rischio di un capovolgimento si è già manifestato in tempi remoti.

Dietro i futili pretesti che le scatenarono, le guerre puniche furono il primo autentico scontro tra due civiltà fondate su queste differenti filosofie. Da una parte Cartagine, florida ed emancipata colonia fenicia, retta da un’oligarchia mercantile tetragona al più piccolo mutamento sociale, dall’altra l’astro nascente di Roma, forte di leggi e istituzioni uniche al mondo.

Cartagine, il dominio dei mercati. Roma, la grandezza della polis.

Fu anche la sfida tra due caratteri: il fenicio, impenetrabile, calcolatore, duttile e superstizioso contro il romano: severo, inclusivo, legalitario e pratico. Due tipi umani che, con le dovute varianti ed eccezioni, hanno distinto da sempre l’uomo d’affari dall’uomo di Stato.

L’ordine cartaginese, anche se più antico del romano, non fu autentico. La sua cellula sociale, rigida ed esclusiva, non potè essere un modello esportabile. Dalla stessa natura elitaria del governo punico discendeva poi l’idea che le colonie fossero luoghi di sfruttamento e di dipendenza commerciale. La relativa facilità nella formazione di nuovi insediamenti e la propria ricchezza, portarono Cartagine ad estraniarsi dalla guerra. Per il fenicio non era un dovere comunitario, ma una necessità che egli affidava di buon grado ad eserciti mercenari.

E’ facile sin d’ora osservare le analogie con i nostri tempi. Nei progetti dell’impero-mercato mondiale che va delineandosi, il tessuto sociale deve essere quanto mai sfibrato, destrutturato, prono ai gusti e alle false necessità instillate dalle eminenze grigie economiche e monetarie.

I conflitti, lo si vede già, sono ridotti a sanguinosi rigurgiti locali, blanditi con diplomazia e dispiegamenti di quelle moderne truppe mercenarie che sono i contingenti ONU. Nel mercato globale non esiste amor di patria, perché questa è il mondo. Ai popoli è lasciato solo un ménage spinto ai limiti della sopravvivenza. L’intelligenza speculativa è bandita in nome di una cultura specialistica, ipersettoriale, aderente ai consumi. La spiritualità è degradata ad ottusa superstizione, becero supermarket dell’anima.

Questa visione, oggi in itinere, è quanto Cartagine avrebbe prospettato al mondo - ovviamente in forma arcaica - una volta sconfitta Roma. Il loro lungo confronto ha quasi assunto contorni metafisici.

Annibale vi emerge in una fase delicata, quando fortuna ed abilità si sono equamente divise tra i contendenti. Egli non rompe - come si è tentati pensare - la mentalità propria della sua gente, ma la sublima.

Nato in Spagna, versato - caso raro nella propria stirpe - nella guerra, acuto e carismatico, Annibale è naturaliter un dittatore. Cartagine non lo ama, ma su di lui ripone le speranze di vittoria. Condotto ai nostri giorni, somiglia - per spregiudicatezza, rapidità e vastità d’azione, l’ascendente sui fedelissimi, l’indifferenza all’autorità - ad un Soros, il finanziere di punta del liberismo anarcoide.

Conosciamo l’esito del formidabile urto tra le due antiche potenze. Meno note sono le cause della successo finale di Roma.

E’ riduttivo credere - come induce l’autore della biografia - che la sola economia sia generatrice di guerre. Sì tratta di un pensiero tipico dell’educazione liberale, ove anche l’ordine giuridico e civile è monetizzabile. Roma vinse, invece, in ragione del proprio sistema istituzionale: lungi dall’affidarsi al talento contingente di un solo uomo e a smisurate ricchezze, potè contrapporre a Cartagine il potere di Assemblea e Senato e la dedizione dei suoi cittadini-legionari.

A Roma vigeva un ordine atto ad espandersi, a civilizzare popoli diversi e renderli partecipi di obiettivi comuni, superiori alla mera egemonia mercantile. Per questo, quando fu sentenziato «Cartagine è distrutta» non solo gli abitanti dì una (ancora per poco) modesta città sul Tevere tirarono un sospiro di sollievo.

E oggi?

Attendere che la politica corrente generi moderni Fabii o Scipii in grado di riequilibrare gli assetti mondiali è pura utopia. Né, d’altro canto, è consolante vedere l’ultimo grande impero, gli USA, dibattersi in una crisi abilmente dissimulata ma terribilmente viva. Persa la spinta propulsiva, resìduo dello spirito di frontiera, nell’America d’oggi vige la bassa cucina delle lotte fra lobby, l’occulto finanziamento estero quale tampone posto su possibili concorrenti, la logorante pressione dei tanti conflitti sparsi nel mondo e spinte interne disgreganti.

Normale collasso di un impero giunto all’apice, direbbe compiaciuto qualcuno. Ma lo schianto di una potenza mondiale non è mai indolore, soprattutto se è quella nella cui sfera si è cresciuti e prosperati.

L'Europa che timidamente alza la testa dovrebbe rammentarlo: morire per Maastricht o per la Coca Cola è egualmente stupido.




1) J. P. Baker, «Annibale», Edizioni Dall’Oglio



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