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Siria: audacia russa, cecità occidentale
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Dopo lo F-4 SuperPhantom abbattuto dalla contraerea siriana il 22 giugno, un altro aereo turco (di soccorso) è stato preso di mira: così dice il governo di Ankara, con l’aggiunta: l’azione «non resterà impunita». La situazione si arroventa di nuovo, dopoche sembrava essersi placata. Con strani ondeggiamenti da parte del governo Erdogan. Da una parte, la proclamata decisione di invocare gli articoli della NATO che obbligano i membri dell’alleanza a entrare in guerra accanto all’alleato colpito; dall’altra qualche ammissione che sì, l’aereo abbattuto era entrato nella spazio aereo siriano, però «per sbaglio», e «solo per cinque minuti».

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Con curiosa insistenza si ripete che l’F-4 era un aereo da ricognizione. Invece è un caccia-bombardiere supersonico, vecchio sì, ma rammodernato nell’avionica dagli israeliani.

Ciò che non si dice, e che non troverete sui nostri media, è che l’aereo turco stava partecipando ad una delle più grandi manovre militari congiunte tenute dagli americani e dai suoi alleati musulmani nell’area, Arabia Saudita e Turchia, Giordania e persino Pakistan, francesi, italiani, eccetera. Si parla di 12 mila uomini di 19 Paesi, navi e aerei trutti a ridossso della Siria . La colossale esercitazione si chiama qualcosa come «Leone all’Erta», ma ha un nome arabo, «El-Assad el-Mutaahib», tanto per mandare un messaggio al dittatore di Damasco, che si chiama Bashar Al-Assad. La parte che riguarda i turchi si chiama Anatolian Eagle 2012/2 (una Anatolian Eagle 2012/1 è già avvenuta a marzo: queste manovre si susseguono senza sosta) e, come si legge nel comunicato ufficiale del Pentagono, il suo scopo è il seguente:

«Condurre tutta una serie di missioni aeree comprese l’interdizione (sottinteso di sorvolo, ossia la «no fly zone»), l’attacco, la superiorità aerea, la soppressione della difesa aerea, il ponte aereo, il rifornimento in volo, la ricognizione» . Un programma completo di invasione – naturalmente umanitaria.

Ecco, il F-4 turco ben fornito di elettronica rasentava lo spazio aereo siriano «in ricognizione».


Interessante anche il comunicato della US Air Force, che non troverete sul Corriere della Sera, e che spiega il gioco di guerra: «La Forza Blu, che comprendono gli Usa, l’Italia, gli Emirati, la Spagna, la Turchia e la NATO, perfezioneranno le capacità delle loro forze allargate contro la Forza Rossa di F-16, F-4 e F-5 guidati da piloti turchi». (L’Avion Turc Abattu En Syrie Ses Deux Pilotes UneTentative Avortée De Pénétrer La Défense Aérienne Syrienne)

Farà piacere ai patrioti sapere che anche le nostre forze aeree partecipano a questo programma di intimidazione; e che siamo i «Blu», il che nelle manovre militari è il colore dei Buoni.

«Una provocazione capace di scatenare una guerra», così su RiaNovosti ha detto Leonid Ivashov, il noto presidente dell’Accademia dei problemi geopolitici a Mosca: «Hanno utilizzato la stessa tattica in Libia e in Yugoslavia (...) Se il governo turco non cede alle pressioni americane, questo incidente sarà risolto per via pacifica. Ma se approfittano di questa provocazione per scavalcare le forze di sicurezza dell’Onu ed attaccare, la guerra sarà inevitabile».

Che non si tratti di una valutazione privata di Ivashov (generale dell’epoca sovietica, nello Stato Maggiore), lo ha confermato il ministro della Difesa russo Sergei Lavrov: «Una replica dello scenario libico in Siria non sarà ammesso, e noi (i russi) lo possiamo garantire». E non ha mostrato alcuna simpatia quando, dopo l’abbattimento, il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu gli ha telefonato a Mosca. Se sperava che da Mosca venisse una censura a Damasco, è rimasto a bocca asciutta.

Tanto più che – come ha subito precisato il sito israeliano DEBKA Files – a centrare il SuperPhantom turco è stato uno dei nuovi sistemi di contraerea fornito dai russi anche per difendere la loro base navale di Tartus (l’abbattimento è avvenuto sopra Latakia, che sta a 90 chilometri dalla base russa). (Newly-supplied Russian Pantsyr-1 anti-air missile used to down Turkish warplane)



Si tratta «dei missili Pantsyr-1, autopropellenti e a medio raggio», ha scritto DEBKA, «un’arma capace di tirar giù un aereo che voli a quota superiore a 12 chilometri, come un missile da crociera. L’unità responsabile dell’agguato (sic) è la 73ma brigata della 26ma Divisione Anti-Aerea dell’esercito siriano...». E poi il sito ebraico aggiunge: «siccome questo sofisticato armamento è stato consegnato al regime di Assad solo da poche settimane, si deve ritenere che l’equipaggio locale non abbia finito l’addestramento e sia ricorso all’assistenza degli istruttori russi per spararlo (...) ultimamente, aviogetti militari turchi compiono missioni quasi quotidiane lungo la costa siriana. Apparentemente, Mosca e Damasco hanno deciso che era tempo di finirla con queste missioni, che fra l’altro spiavano i rifornimenti di armi russe transitanti dalle basi russe di Tarus e Latakia».

Giudiziosa deduzione.

È da mesi – da quando Vladimir Putin è stato rieletto alla presidenza – che Washington (e i suoi servitorelli) tratta il governo russo come se non ne riconoscesse la legittimità, anzi se nemmeno esistesse. La Cia ammette pubblicamente di armare i cosiddetti ribelli in Siria. Hillary Clinton accusa il Cremlino di inviare ad Assad elicotteri da combattimento «per stroncare la rivolta» (mentre in realtà sono consegne di un vecchio contratto). I legittimi interessi della Russia in Siria non vengono riconosciuti. All’interno stesso della Russia, l’ambasciatore americano McFaul (un esperto in rivoluzioni colorate) coltiva ostentati rapporti con la variegata «opposizione» anti-Putin, la quale viene in molti casi finanziata da fondazioni americane collegate ai due partiti, repubblicano e democratico. Da ultimo Londra, obbedendo con zelo alla richiesta americana, ha cancellato l’assicurazione di una nave russa partita dal porto baltico di Kaliningrad sospettata di portare armamenti in Siria.

Una serie di umiliazioni deliberate, inflitte perchè a Washington si calcola che Mosca, potenza in declino, non possa nè voglia rischiare una guerra guerreggiata con l’immane superpotenza.

Eppure il calcolo s’è mostrato ripetutamente sbagliato.

Nel 2008, quando Usa e Israele armarono la Georgia fino ai denti, addestrandone le truppe, e spingendola a riprendersi manu militari le due provincie russofone di Abkazia e Sud-Ossetia, sicuri che Mosca avrebbe subito con la coda fra le gambe; e Mosca invece accettò la sfida con mano pesante, con mezzi aeronavali e di terra imponenti, non limitandosi e difendere le due enclaves ma passando all’offensiva nella Georgia stessa con l’occupazione della città di Gori, e praticamente schiacciando l’esercito israeliano coi suoi «istruttori» israeliani (anche allora l’attaco era stato preeceduto da una grande manovra militare americo-israeliana in Georgia, chiamata Caucasian Milestone: ciò aveva messo sull’avviso i russi, che per questo avevano già posizionato notevoli forze a ridosso della zona).

Un’altra lezione dimenticata fu l’audace colpo di mano russo in piena guerra del Kossovo, mentre la NATO bombardava Belgrado ed entrava con le sue truppe nel Kossovo. Era il giugno 1999, e la vittoria occidentale sembrava completa, quando 200 commandos russi (originariamente stanziati in Bosnia-Erzegovina come Caschi Blu) operarono una penetrazione-lampo ed occuparono di sorpresa l’aeroporto di Pristina (la capitale kossovara), impedendo di fatto l’atterraggio degli aerei logistici americani e occidentali.

Il vostro sottoscritto giornalista era lì, e si ricorda ancora l’aria strafottente, da veterani, dei soldati russi a cavalcioni sui loro vecchi cingolati, e fu impressionato dalla loro – come definirla? – attitudine bellica: sapevano quel che facevano, quel che rischiavano, ed erano pronti ad andare fino in fondo, se ne ricevevano l’ordine. Di fatto, erano circondati dalle forze Nato, assolutamente preponderanti. Ma i nostri soldati, al confronto, sembravano soldatini di piombo: belli, con le loro mimetiche ed automezzi nuovi fiammanti e mai usati, prontissimi ad una grande esercitazione militare; ma quelli a cavalcioni sui vecchi cannoni, non stavano facendo un’esercitazione. Facevano la guerra.

Sappiamo adesso che il comandante supremo americano della Nato, Wesley Clark, fuori di sè (una carriera rovinata...), ordinò di riconquistare l’aeroporto con la forza – ingiungendo l’attacco a 500 teste di cuoio britanniche e francesi; ma allora furono gli inglesi a disobbedire all’ordine, e il generale britannico Mike Jackson disse a Clark: «Non ho intenzione di cominciare la terza guerra mondiale per voi».

Anche quella volta la Russia reagiva ad una umiliazione deliberata: aveva chiesto di partecipare alla operazione di peacekeeping (successiva alla sconfitta serba) in un suo settore indipendente dalla Nato – a garanzia del regime di Belgrado – e ricevuto un oltraggioso rifiuto – dopotutto, la Russia era economicamente un paese in rovina, debole e costretto alla passività, secondo le valutazioni Usa. Invece, col colpo di mano di Pristina, Mosca rovesciò la situazione ed inflisse una umiliazione vergognosa a chi voleva umiliarla.

Temo che gli americani non capiranno mai queste genere di lezioni, per via dell’ineliminabile «angolo cieco» insito nel loro iper-militarismo. Dall’episodio di Pristina, è parso evidente a chi scrive che nelle accademie di Russia le sorprese temerarie, le astuzie audaci, gli stratagemmi sostenuti dal coraggio estremo sono imparati come parte integrante del mestiere delle armi, e vi si apprende «l’arte della guerra» secondo Lao Tsu e secondo Clausewitz, ossia senza mai dimenticare che la guerra deve giungere ad un risultato politico. Insomma tutto ciò di cui manca la dottrina militare americana, e che cerca di sostituire con la forza schiacciante e la superiorità assoluta, la tecnologia avanzata e costosissima, e – da ultimo – la forza bellica non come strumento, bensì come surrogato unico della politica.

L’abbattimento dell’F-4 turco da parte dei siriani (o meglio, dei loro istruttori russi) ha dimostrato che Mosca ha piazzato in Siria un sistema anti-aereo dall’archiettura a maglie mobili, dunque non facilmente localizzabili (ciò ha sorpreso gli occidentali) – e capace di sfidare la loro pretesa supremazia aerea. Ha mostrato che non occorre una forza assoluta per strappare un successo politico. Ha intaccato la presunzione su cui si basa tutta l’aggressività americana nei numerosi teatri in cui opera, di possedere la assoluta dominance del cielo, e certo ha fatto tremare qualche alto burocrate in divisa al Pentagono che pensa alla carriera: «far paura», dopotutto, non è il cuore dell’arte della guerra?

Inoltre, per dirla con Bhadrakumar (che è stato ambasciatore indiano ad Ankara ed oggi è un acutissimo analista), «ha mandato una serie di segnali alla Turchia e ai suoi alleati occidentali»:

«Che il sistema di difesa anti-aerea siriano è efficace e letale», e può infliggere gravi perdite ad una no-fly zone sul modello di quella ttuata in Libia;

«Che la Turchia pagherà un prezzo se intensifica la sua interferenza in Siria; che la superiorità turca ha dei limiti, e che la crisi siriana può far esplodere una crisi bellica regionale». (Syria puts double whammy on Turkey)

Ovviamente questo è il rischio: che il gioco combinato dell’astuzia audace contro la presunzione di superiorità totale occidentale finisca per scatenare anche senza volerlo la «terza guerra mondiale» paventata dal generale britannico che si rifiutò di attaccare i russi a Pristina. Del resto, il sistema di comando occidentale, in questa fase di crisi profondissima dell’impero americano, non è affatto unitario: e se certo Obama non vuole una nuova guerra mentre affronta le elezioni presidenziali, e persino Israele è prudente sulla questione siriana, non mancano forze (Da Wall Street alla lobby petrolifera) a cui invece una crisi «regionale» pare utile – se non altro perchè il prezzo del petrolio cala e, siccome la quotazione del dollaro è agganciata al greggio, è necessario rincararlo. C’è da tremare quando si comprende che ad Obama, queste forze non obbediscono e puntano sul suo successore, un qualunque guerrafondaio repubblicano che prosegua le politiche neocon. È ancor più agghiacciante constatare che gli uni e gli altri poteri americanisti sono mossi da motivazioni futili, senza visione.

Le reti dedicate alla «demolizione soft» della Russsia di Putin sono pienamente all’opera, continuano a mestare per il «regime change» a Mosca, e sono fra quelle che non obbediscono ad Obama (ma chi gli obbedisce, dopotutto, in America?). La loro psicologia è ben illustrata da un articolo di tale Pavel Felgenhauer, un pubblicista russo molto (troppo) esperto di cose militari che ora è passato nella Jamestown Foundation (un think tank americanista molto ostile a Putin) ed ospitato in Asia Times: Internal crisis shapes Putin's foreign policy

In breve, Felgenhauer punta il dito sulla situazione sociale interna alla Russia, che ritiene gravissima ed esplosiva; cita a sostegno della sua tesi un Center for Strategic Studies (CSS) basato a Mosca – creazione di Mikhail Dimitriev, un economista ed ex parlamentare russo oggi anti-Putin, il quale è stato uno dei capi del Carnegie Center di Mosca – un’emanazione della Fondazione Carnegie americana: praticamente, uno dei centri della sovversione anti-russa cita un altro dei suoi centri, e per concludere quanto segue:

Vladimir Putin sta «cercando di compensare i suoi fallimenti politici interni con una politica estera populista» e aggressiva, rendendo la suddetto politica estera «meno realistica e sempre più dottrinaria», anzi «erratica e irrazionale». Senti chi parla, verrebbe da dire. Ma non basta.

«Invece di perseguire pragmaticamente gli interessi nazionali russi di lungo termine,», scrive Felgenhauer, «il Cremlino di Putin tende a sfidare cocciutamente gli Stati Uniti praticamente su ogni questione regionale o globale, sapendo che il pubblico russo approverà. Il Cremlino cerca di raffigurare il movimento pro-democrazia in Russia come una trama occidentale (americana) e parte di un complotto globale anti-Russia (...) È possibile che lo stesso Putin creda a questa narrativa».

È un’accusa comica, dato che è Washington a sfidare cocciutamente il cremlino, e visti comprovati finanziamenti che i «movimenti pro-democracy» ricevono dalle fondazioni Usa. Ancor più comica se si riflette alle «narrative» che le centrali americane, israeliane e neocon hanno fatto digerire all’Occidente: l’11 Settembre come mega-attentato compiuto a New York e Washington da 17 sauditi guidate da un Bin Laden rifugiato in una caverna in Afghanistan, le famose «armi di distruzione di massa» di Saddam Hussein, il pericolo per la sicurezza nazionale rappresentato da «Al Qaeda in Africa», l’attentato «islamico» nel metrò di Londra nel 2005 di cui il Mossad sapeva tutto prima, il rischio mortale che la fantomatica atomica iraniana fa’ correre al mondo intero... e via paranoicamente inventando, per giustificare sovversioni, guerre preventive, assassinii mirati illegali ed invasioni continue da dodici anni.

Ma c’è poco da ridere, perchè l’articolo di Felgenhauer mostra che, negli ambienti da cui è pagato, la diagnosi è sempre quella che gli americani hanno visto smentire tante volte: non solo Putin è un illuso irrazionale (come Ahmadinejad?), e la sua autorità è transitoria, perchè minata dalla vittoriosa opposizione interna; non solo gli occidentali gli possono dare con degnazione dei consigli sugli «interessi nazionali» russi da perseguire; la Russia non conta nulla, il suo arsenale è un vecchiume, la si può mortificare e non riconoscere impunemente.

È questo angolo cieco invincibile ad essere sommamente pericoloso. Magari, il petrolio rincarerà secondo gli auspici. Se ci sarà un dopo.



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