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Ma le Regioni non saranno abolite perché strumento della globalizzazione
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Prendendo spunto dall’ottimo articolo del nostro direttore Blondet su «La Regione criminogena», vorrei intervenire per evidenziare alcune dinamiche storiche relative al rapporto tra Stato centrale ed autonomie locali.

Attualmente non solo le Regioni sono previste dalla Costituzione del 1948 ma anche le Province ed i Comuni. Ora però si da il caso, storico, che mentre le Regioni sono state attuate solo nel 1970, i Comuni invece esistono dal medioevo (tenuti a bada, fin che ha potuto, da un Barbarossa, in questi giorni calunniato da quel vero e proprio falso storico che è il film di Renzo Martinelli) e le Province almeno dal XIX secolo in quanto furono di invenzione «napoleonica», ossia corrispondevano alla visione centralista dello Stato.

Prima della istituzione delle Regioni, erano le Province, e le Prefetture, sul territorio a trasmettere e far eseguire le direttive che provenivano dal centro, ossia da Roma, ed a controllare che i Comuni vi si adeguassero. In materia di appalti pubblici, ad esempio, erano le Giunte Provinciali Amministrative ad esercitare il controllo preventivo di legittimità sugli atti dei Comuni ed addirittura affinché un Comune potesse effettuare, anziché una procedura aperta, ossia un’asta pubblica, una trattativa privata, per quanto di modesto valore, era necessaria la preventiva autorizzazione della predetta Giunta Provinciale Amministrativa.

Il controllo esercitato prima dell’istituzione delle Regioni non era solo di legittimità ma anche di merito, ovvero sindacava non solo il rispetto formale della legge ma anche le motivazioni concrete che muovevano l’ente locale verso una certa decisione. Poi, con le Regioni, il controllo, sempre più di sola legittimità e, in nome dell’autonomia degli enti locali, non anche di merito, passò ai Comitati regionali di Controllo (Co.re.Co.).

Le maglie per l’illecito si allargarono considerevolmente. Il controllo dei Co.re.Co fu a sua volta prima, con la Legge numero 142/1990, circoscritto ai soli atti fondamentali dell’ente controllato (bilanci, piante organiche, piani urbanistici, etc.) e poi definitivamente abolito con la Riforma del Titolo V della Costituzione del 1999, voluta dal centrosinistra e portata a compimento dal centrodestra, che è stata la prima pietra, alla quale altre stanno seguendo ed altre seguiranno, del famigerato «federalismo».

Attualmente, soppressi i Co.re.Co., non esiste alcun organo di controllo preventivo di legittimità sugli atti di Province e Comuni e, contestualmente aboliti anche i Commissari di Governo, neanche sugli atti delle Regioni. Il controllo, ora però, in nome della filosofia «aziendalista», che tanto piace a Brunetta, solo di «gestione», è rimesso a nuclei interni di valutazione, deputati a valutare in meri termini di costi/benefici le risultanze dell’azione amministrativa (senza che si valuti come tali risultati siano stati ottenuti, ossia se in modo legittimo o contra legem: del resto, in un’ottica da azienda privata, presa a modello anche per la Pubblica Amministrazione, non ha prevalente interesse la legittimità quanto piuttosto il raggiungimento degli obiettivi al minor costo possibile). Inutile dire che i componenti dei nuclei di valutazione sono scelti dai politici di turno (vedremo se con Brunetta entreranno in funzione i centri esterni di valutazione e come ne saranno scelti i componenti).

Tutto questo è nient’altro che il prodotto della tendenza storica verso la destrutturazione dello Stato nazionale, in atto ormai da decenni, ed alla quale ha contribuito pure l’Unione Europea attraverso l’azione transfrontaliera e transnazionale dei finanziamenti europei, che sono assegnati a progetti che investono nella realizzazione realtà territoriali diverse e site in Stati diversi.

E’ l’applicazione amministrativa della monnettiana «Europa delle Regioni» contro cui De Gaulle lottò strenuamente ma inutilmente in nome dell’«Europa delle Patrie». Pur avendo in antipatia questa tendenza e ritenendola un male, lo scrivente è perfettamente consapevole che essa è, al momento, purtroppo inarrestabile perché fa parte del più vasto processo di globalizzazione. Ciò significa che le Regioni sono funzionali al «glocalismo» (globale + locale vs nazionale) e perciò non saranno mai abolite, come auspicava nel suo articolo Blondet. Anzi esse saranno rafforzate perché il «glocalismo», a sua volta, è il rovesciamento/contraffazione del sistema comunitario dei corpi intermedi dell’antica Cristianità: una contraffazione storicamente sviluppatasi prima, nel XVIII secolo, ponendo la nazione contro la Cristianità ed oggi la comunità territoriale locale contro la nazione, secondo l’itinerario di un unico e lineare processo storico-filosofico inteso a permettere il passaggio dall’universalismo «trascendente» romano-cristiano medioevale al nuovo universalismo «orizzontale» ed umanitario del mondialismo.

Del resto, abolire le Regioni significherebbe dover ripristinare il potere centralista dello Stato come una volta attuato attraverso le Province, e le Prefetture. Invece, come è noto, si vuole l’abolizione delle stesse Province per accentuare il processo di regionalizzazione e di «glocalizzazione».

Oltretutto vi sarebbero difficoltà immense alla restaurazione del previgente sistema centralista: vi immaginate, in un mondo che letteralmente corre sulla rete globale di internet e che ormai non conosce purtroppo più frontiere di alcun genere, un sistema amministrativo fondato su una gerarchia di controlli amministrativi, sia di legittimità che di merito, da parte di un ente di livello superiore su ogni singolo atto degli enti di livello inferiore? Ossia lo stesso sistema centralista previgente alle Regioni?

Ne risulterebbe una Pubblica Amministrazione ancor più lenta e farraginosa di quella di oggi. Una Pubblica Amministrazione che andava benissimo un secolo fa, quando tutta la società era meno dinamica perché sostenuta socialmente da legami comunitari profondi e tradizionali. Nelle società pre-moderne ed in quelle della prima modernità industriale anche la mobilità sociale seguiva il ritmo naturale del passaggio generazionale laddove oggi, nelle società post-moderne e «cibernetiche», essa è invece diventata, con la flessibilizzazione dei rapporti sociali, da quelli di lavoro a quelli di famiglia, un vero e proprio incontrollabile turbine.

Una Pubblica Amministrazione per livelli gerarchici non potrebbe più efficacemente sussistere nella società di oggi, individualista, flessibile, solipsista, cinica, contrattualista, iperliberista, che vive del mito dell’efficienza aziendale e che di contro, però, produce disadattamento spirituale, sociale e generazionale, gioventù dedita al bullismo, famiglie sfasciate, mancanza di legami comunitari, solitudine da suicidio, ricerca di rifugio psichico ed esistenziale nelle sette neo-spiritualiste, etc.

Persino il principio di sussidiarietà ha assunto oggi un diverso significato concettuale non intendendosi più per tale la sussidiarietà verticale, ossia quella per livelli gerarchici, ma la sussidiarietà orizzontale, a «rete», paritetica e contrattualista che pertanto è la negazione stessa di qualsiasi ipotesi di gerarchia.

E’ lo stesso problema sollevato da Tremonti con riferimento alla nobiltà valoriale e sociale del «posto fisso»: i suoi detrattori, e non a caso tra i primi il suo collega di governo Brunetta (esponente della peggiore specie di liberalismo ossia quello lib-lab: fabianesimo anglomassonico!), gli hanno obiettato che la sua è nostalgia di una società che non c’è più, quella del secolo scorso basata sul lavoro dipendente e salariato nonché sulla tendenziale staticità sociale. Insomma Tremonti è un nostalgico, colbertiano (dirigista e protezionista), dello Stato nazionale, che, purtroppo, non c’è più e perciò non può più difendere i suoi cittadini dalle mene dei poteri forti finanziari transnazionali che la fanno da padroni globali. E si badi che lo scrivente dice questo da estimatore del Tremonti-pensiero sia perché l’attuale ministro dell’Economia è l’unico a parlare chiaro, da intellettuale, contro la globalizzazione, sia perché sono filosoficamente con lui e mi rammarico, anche pensando al futuro dei nostri figli, che quella società nazionale non ci sia più.

D’altra parte so bene che i detrattori di Tremonti non hanno purtroppo tutti i torti. Ciononostante non mi astengo affatto dal gridare il mio «viva Tremonti, abbasso Brunetta» dove i due sono presi come gli esponenti di modi antitetici di concepire la vita e la convivenza sociale: antidarwiniano e tendenzialmente cattolico-nazionale nel caso di Tremonti, darwiniano e, al di là di ogni sua buona intenzione circa la meritocrazia nella Pubblica Amministrazione, mascherato con una buona dose di ipocrita filantropia massonica nel caso di Brunetta.

Luigi Copertino
      


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