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Vassalli in rivolta nell’impero USA
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«Mai visto niente di simile in trent’anni», ha commentato stranito Ken Calder, direttore degli studi sull’Estremo Oriente alla John Hopkins University, ed esperto di Giappone; «non avevo mai sentito i giapponesi replicare così a diplomatici americani, soprattutto in pubblico».

Il litigio mai prima avvenuto riguarda una nuova base ad Okinawa, che gli americani si sono fatti concedere dal precedente governo giapponese pochi giorni prima che cadesse alle elezioni (1). La nuova base suscita malcontento nella popolazione giapponese: già ottomila Marines spesso ubriachi e con comportamenti da teppisti sono ospiti duri da sopportare per mezzo secolo.

«Sbrigatevi», ha detto rudemente il capo del Pentagono Robert Gates al nuovo governo nipponico di Yukio Hatoyama, la base deve esserci prima della visita di Obama in Giappone, prevista per novembre.

Inaudito, il nuovo governo non s’è fatto trattare da cameriere:

«Non credo che agiremo semplicente accettando quel che gli americani ci dicono», ha replicato il nuovo ministro degli Esteri, Katsuya Okada; «una revisione della questione della base riflette la volontà popolare».

«E’ la prima volta che il Giappone si ribella agli USA dal dopoguerra», ha notato Minoru Morita,  analista politico: «Le relazioni tra i due Stati sono in pericolo». Magari non subito, ma Washington ha scoperto con sgomento che il grande subalterno asiatico non obbedisce più come prima.

A settembre, il neo-governo nipponico aveva annunciato l’intenzione di cessare i rifornimenti alle navi da guerra d’appoggio alle forze della coalizione occidentale in Afghanistan, un servizio che i giapponesi forniscono da otto anni, impegnando le loro navi nell’oceano Indiano. Il come questo annuncio è stato fatto è significativo, dato il sottile galateo nipponico. E’ stato il portavoce, del ministro Gates del Pentagono, Geoff Morrell, a convocare l’ambasciatore nipponico in USA Ichiro Fujisaki per ordinargli che il Giappone proseguisse le missioni di rifornimento alle navi americane nell’Oceano Indiano.

L’indomani, mister Fujisaki ha dichiarato pubbblicamente: le relazioni tra USA e Giappone «non sono in tali termini, che si debba dialogare attraverso dei portavoce». Subito dopo, da Tokio, il governo Hatoyama ha annunciato che non prolungherà la missione di rifornimento oltre la sua scadenza, che è a gennaio.

Robert Gates ha replicato moltiplicando gli sgarbi durante la sua recente visita in Giappone: non ha assistito alla cerimonia di benvenuto al ministero della Difesa di Tokio, ha rifiutato gli inviti a cena ufficiali. E se n’è andato profferendo oscure minacce: Tokio «pagherà le conseguenze» se vorrà rivedere un accordo militare «preparato dagli USA per affrontare la potenza crescente della Cina».

Contrastare la Cina? Ecco un argomento che Gates avrebbe fatto meglio a non evocare.

Il 24 ottobre s’è aperta in Thailandia la riunione dell’ASEAN, associazione dei Paesi del Sud-Est asiatico, più altri invitati ed associati. E’ inviatata la Cina. C’è per il Giappone il nuovo primo ministro Hatoyama. I due grandi creditori di Washington, entrambi allarmati e irritati dalle politiche monetarie del loro comune debitore. E cosa dice Hatoyama in quella sede?

«Ha argomentato – riporta la BBC – che le nazioni (presenti) dovrebbero approfittare della loro più rapida ripresa dalla recessione rispetto all’Occidente. ‘Avrebbe senso per noi nutrire l’aspirazione che l’Asia Orientale si metta alla guida del mondo» (2).

Il primo ministro cinese Wen Jabao è stato subito d’accordo. Anzi, come se tutto fosse preparato in anticipo, ha tirato fuori un «piano in sei punti» per i leader dell’ASEAN, per costituire «una zona di libero scambio fra ASEAN e Cina»; una associazione tipo UE, da «attivare» subito «rendendo pubbliche le leggi e regolamentazioni nell’area di libero scambio e addestrando professionalmente le risorse umane che devono assistere le imprese a far uso delle politiche preferenziali».

Per poi concludere: «I dazi su quasi tutti i beni scambiati fra Cina e ASEAN saranno eliminati entro il 2010».

Insomma già tutto sembra pronto per fare quel che l’Europa non ha voluto essere: non abbiamo la «Fortezza Europa», ma la Cina sta facendo la «Fortezza Asia». I Paesi dell’ASEAN del resto (mezzo miliardo di abitanti) sono già satelliti economici della potenza produttiva cinese. E’ ovvio che il Giappone finirà per gravitare attorno a questo nucleo; già molto del suo export ha come destinazione Cina ed Asean. Di qui a un’allenza politica il passo non sembra davvero eccessivo, date le parole di Hatoyama sulle «aspirazioni» che l’Asia dovrebbe coltivare come blocco. La volontà americana di stabilire legami formali con l’ASEAN, prospettiva che non piace a diversi membri, è stata lasciata da parte, come cosa ininfluente.

E’ triste essere un impero in crisi. Assistere impotenti alla chiusura di quella pagina storica che si aprì  nel 1945, con le bombe di Hiroshima e Nagasaki, e vedere che – mentre l’impero vecchio agisce come forza «destrutturante» che sparge disordine e instabilità in inutili guerre perdenti – la Cina diviene ogni giorno di più la presenza «strutturante» per i vecchi satelliti.

Persino l’altro Paese disfatto nella seconda guerra mondiale dà segni di insubordinazione. In Germania, la Merkel ha appena formato il governo di coalizione con i free democrat, e subito il nuovo ministro degli Esteri, Guido Westerwelle, che è anche il capo dei Free Democrats, ha chiarito che vuol vedere tutte le testate atomiche americane fuori dalla Germania. Quelle testate, gli USA le aveva posizionate sul territorio tedesco a contrastare la minaccia del Patto di Varsavia, che non esiste più.

Imbarazzo della Merkel: il ritiro si farà solo dopo «colloqui coi nostri partner», nella NATO e a Washington. Ma la questione è diventata parte del programma del nuovo governo.

Intanto Erdogan continua a portare la Turchia (pilastro orientale della NATO) su una rotta sempre più lontana dal politicamente corretto imposto da Washington e da Tel Aviv. Va in visita in Iran a parlare con «il mio amico» Ahmadinejad e lo dichiara in un’intervista al Guardian. L’Iran, dice, subisce un trattamento «sleale» dall’Occidente, perchè «quelli che accusano l’Iran di volere la bomba atomica hanno fortissime strutture atomiche», e «non partecipano al trattato di non-proliferazione».

Erdogan si rifiuta dunque alla linea imposta da Israele (e USA in subordine) verso Teheran, cui noi europei continuamo a piegarci, pur sapendola falsa.

Si rende conto che questa posizione mette a rischio le relazioni della Turchia con Washington?, chiede il giornalista. Risposta, sicuramente sarcastica: «Non credo a questa possibilità. La politica americana in quest’area non è dettata da Israele».

Poi Erdogan ha una parola per Israele, che è in sè una bomba: l’alleanza strategica turca con Israele non è in questione, dice. Solo, ad Erdogan non piace il ministro degli Esteri israeliano, il razzista Avigdor Lieberman, perchè «voleva usare una bomba atomica contro Gaza» (3).

Questi segni di frattura nell’impero spiegano l’isterismo che domina la politica israeliana. In tutti questi giorni, mentre alla AIEA si facevano ampi progressi nelle trattative tra Iran e gli occidentali, la propaganda israeliana diffondeva la voce che l’Iran s’era praticamente ritirato dai colloqui, tornando sui suoi passi e rimangiandosi le sue offerte. I giornali italiani hanno riportato fedelmente questa falsità. Invece, l’Iran ha accettato di far raffinare il 75% del suo uranio in Russia e in Francia. Arricchirà in proprio i 300 chili di uranio, che bastano appena a creare 6 chili di materiale fissile per uso militare; siccome una testata nucleare richiede 25-30 chili di materiale altamente arricchito, Teheran accetta di fatto di rinunciare a dotarsi di armamento nucleare.

La cosa dovrebbe tranquillizzare Israele. Invece il ministro della Difesa, Ehud Barak, fa fuoco e fiamme perchè gli occidentali soggetti alla lobby non firmino l’accordo.

«L’Iran riceve la legittimazione ad arricchire l’uranio sul suo territorio», ha dichiarato, «e ciò è contrario alle intese che i negoziatori hanno sui piani reali dell’Iran, dotarsi di una capacità nucleare (militare). I colloqui devono essere brevi, di durata limitata. Raccomandiamo a tutti i partecipanti il principio di non escludere dal tavolo nessuna opzione, sotto nessuna circostanza».

E’ la voce del padrone. Ma secondo Haaretz, «un importante governante dell’Unione Europea ha risposto agli israeliani che essi non sono al corrente dei dettagli degli scambi tra Iran e gli occidentali: voi non capite fino a che punto siete fuori strada. Non sapete nemmeno quanto ignorate  e quanto sta accadendo in Iran», ha detto l’anonimo politico europeo.

Isomma: siete fuori dalla realtà (4).

Ma gli USA, che partecipano ai colloqui della AIEA, hanno in realtà tenuto al corrente gli israeliani giorno per giorno, assicura Haaretz. E’ che gli israeliani non hanno voluto capire, hanno creduto alla loro propaganda, ed ora sono stati colti di sorpresa perchè la nuova intesa con l’Iran sta per essere firmata.

Non è solo sorpresa, è sgomento e rabbia. Il regime sionista sa che, una volta che l’Iran accetta di non produrre bombe atomiche e si mette sotto il controllo internazionale, sarà posta la questione delle testate atomiche israeliane: unico Paese nucleare nell’area, non ha più ragione di mantenere il suo arsenale, visto che la presunta minaccia è stata eliminata. Dopotutto, Obama ha lanciato la speranza di un mondo de-nuclearizzato: è sempre un politicamente corretto sfiatato, ma stavolta si ritorce contro Sion dai denti di ferro. Cosa sarebbe Israele senza armi, senza guerra perpetua?

Per questo, da settimane, Israele ammassa truppe contro il Libano, a provocare  Hezbollah; minaccia di bombardare l’Iran in ogni caso; eccelera freneticamente gli insediamenti dei suoi cosiddetti coloni sulle terre palestinesi. E da settimane, sulla spianata delle moschee, introduce «turisti» ebrei fanatici che protegge con polizia in giubbotto antiproiettile e fucili d’assalto,  provocando i fedeli musulmani, nella speranza di provocare una terza intifada.

I movimenti estremisti del Monte del Tempio e i Fedeli di Eretz Ysrael proclamano che è ora di smontare la moschea di Al-Aqsa e la moschea di Omar e trasferire i sacri edifici alla Mecca, altrimenti «sarà necessario farli saltare». Un numero crescente di rabbini proclama che è tempo per gli ebrei di «ascendere al Monte del Tempio» per riprendere il rito ebraico interrotto, ovviamente cacciandone per sempre gli islamici (5).

E’ chiaro l’aspetto messianico-apoalittico di queste isterie pericolose. Durante gli otto anni di Bush, questi fanatici si sono abituati a vedere il mondo obbedire a tutte le loro pretese: qualcosa che sicuramente hanno interpretato come l’instaurarsi dei tempi messianici, il Regno di Sion realizzato:  Israele suggeritore e manovratore del potere della bestia globale, l’ultima superpotenza rimasta.

Ora, sentono che quel potere vicario è stato dissanguato, e che «hanno poco tempo»; e si agitano per accelerare i tempi.

Tempi pericolosissimi, quelli che viviamo.




1) John Pomfret, «U.S. pressures Japan on military package - Washington concerned as new leaders in Tokyo look to redefine alliance», Washington Post, 23 ottobre 2009.
2) Stephen Webster, «Asia plans to ‘lead the world’ by 2015 with EU-like bloc of nations», AFP, 24 ottobre 2009.
3) Robert Tait, « ‘Iran is our friend’, says Turkish PM Recep Tayyip Erdogan», Guardian, 26 ottobre 2009.
4) Barak Ravit, «EU official: Israel out of the loop on Iran talks», Haaretz, 23 ottobre 2009.
5) Gil Ronen, «Rabbis Convene, Call for Ascent to Temple Mount», Arutz Sheva, 25 ottobre 2009. Si veda anche Jay Gary, «The Temple time bomb», http://jaygary.com/templebomb.shtml. «At a special conference Sunday night at Heichal Shlomo in Jerusalem, Zionist rabbis are calling for Jewish ascent to the Temple Mount and for an end to the use of the Temple Mount as a platform for Muslim incitement. The rabbis participating in the conference include Rabbi Dov Lior, Rabbi Yuval Cherlow, Rabbi Elyakim Levanon, Rabbi Yaakov Madan and Kotel Rabbi Shmuel Rabinovich. Also participating are Knesset Members Uri Ariel, Aryeh Eldad and Michael Ben-Ari of the National Union, MK Uri Orbach (Jewish Home) and Kadima’s Otniel Schneller. Jerusalem Deputy Mayor David Hadari and Moshe Feiglin are also among the scheduled speakers».


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