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Tragedia greca
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L’America come la Grecia, Washington come Atene: non è solo il remake (o forse si?) del pensiero teocon di Washington come paladina della tradizione democratica occidentale sul modello di ciò che Atene fu per l’antichità (e su cui in realtà vi sarebbe molto da discutere e da obiettare!). E’ il rischio, anzi la previsione che non uno qualsiasi, ma Ben Shlomo Bernanke, nome di sicura appartenenza etnico-religiosa, capo della Federal Riserve ed indicato dal settimanale statunitense Time come «Uomo dell’anno», ha delineato per l’economia USA: rischio default e innesco di una spirale capace di trascinare con sé l’economia mondiale in un vortice dissolutivo globale. Quando?

«It’s not something that is 10 years away. It affects the markets currently». Insomma subito, entro dicembre. (Bernanke delivers blunt warning on U.S. debt)

Non è che lo abbia sussurrato in una riunione segreta di qualche lobby finanziaria, lo ha detto chiaro e tondo davanti al Congresso americano una decina di giorni fa! Qualche mese ancora e la sostenibilità del debito pubblico americano potrebbe essere messa in discussione.

Questo per il motivo molto semplice che secondo il ministero del Tesoro degli Stati Uniti 2.000 miliardi di debito giungono a scadenza nel corso dei prossimi 12 mesi e dovranno essere rifinanziati entro questo termine.

Inoltre il debito di 2.000 miliardi di dollari riguarda solo il debito USA allo stato attuale, ma l’Ufficio di Gestione e Bilancio prevede un deficit di bilancio di 1.560 miliardi di dollari per il 2010, che porta il fabbisogno finanziario complessivo nell’ordine di 3.560 miliardi. E sono soldi da trovare a breve, cioè subito. E’ una cifra stratosferica, una voragine senza fondo, pari a circa un quarto dell’intero PIL 2010 USA, stimato in 14.265 miliardi di dollari per il 2010.

Come si è arrivati a tanto in un Paese che vantava il primato nell’economia mondiale?

Semplice, col sistema basato appunto sul modello debito-dollaro. Negli ultimi anni il debito americano è letteralmente esploso. Qui occorre chiarirsi per non cadere nella Babele dei dati.

Se si parla di debito totale aggregato (comprensivo quindi non solo del debito pubblico, ma anche di famiglie imprese, banche, società finanziarie, amministrazioni pubbliche centrali e periferiche) il debito, a fronte di un PIL (prodotto interno lordo) pari a 14.264, ammonterebbe addirittura a 51.864 miliadi di dollari, con un rapporto pari a circa il 350% e secondo una stima recentissima di altri economisti quali John Williams - la cifra oggi è ben maggiore, circa 75.000 miliardi di dollari, ben oltre cinque volte il PIL americano (www.beearly.com/pdfFiles/Maymin31122009.pdf).

Ma non è di questo debito totale aggregato che stiamo parlando.

Secondo una stima fornita da Bloomberg nel 2007 il debito pubblico USA era 10.600 miliardi di dollari a fronte di un PIL dello stesso anno pari a 13.811 miliardi di dollari. Il  debito pubblico del 2007 ammontava perciò al 76,75% del PIL. Certo il dato è molto alto, ma corrisponde alla regola base del capitalismo di pagare i debiti di oggi con i debiti di domani. Peccato che con quello che è successo dal 2008 i debiti di oggi si pagano coi debiti di dopodomani o del fine settimana.

Con il piano Paulson e dopo il salvataggio di Fannie Mae e di Freddie Mac (ma senza AIG), infatti,  la percentuale di debito sul PIL è salita al 118,02%. Ma, se  sono veri i dati Bloomberg relativi a 7.740 miliardi di dollari di salvataggi, arriviamo ad un totale di circa 23.300 miliardi di dollari di debito pubblico e ad un rapporto pari al 169 % circa del PIL. A Novembre 2008 poi la somma sarebbe salita addirittura a 8.549 miliardi di dollari, portando il debito diretto o indiretto ad un totale di circa 24.400 - 25.400, tutti soldi che pesano sul contribuente americano.
I differenti dati presenti sul sito del ministero del Tesoro USA (8.680 miliardi di dollari per il 1 gennaio 2007, 10.661 miliardi di dollari per il 30 novembre 2008 e 12.311 miliardi di dollari per la fine del 2009) si riferiscono solo al debito federale e non terrebbero conto ad esempio del debito - circa 5/6 mila miliardi di dollari – di Fannie Mae e di Freddie Mac, ora equiparabili di fatto a società parastatali, in quanto il loro capitale è controllato al 79,9 % da un ente pubblico, la Federal Housing Finance Agency, che le gestisce in regime di pubblica conservatoria.

Quindi, se sono reali i dati sopra espressi, è bastato il biennio 2008-2009 per far crescere il debito pubblico USA diretto o indiretto del 100 % del Pil, per giungere poi fino al 176,9 % - 184,2 %, con una tendenza di crescita media annua pari a 1.500  miliardi di euro. Da queste percentuali è escluso per di più il debito garantito dalle polizze assicurative rilasciate da AIG, anch’essa statalizzata e gli impegni di spesa per la Sanità (Medicaid e Medicare) e Pensioni (Social Security).

Il dibattito proprio di questi giorni al Senato USA mette in  evidenza la difficoltà di definire per davvero a quanto ammonta il debito americano (Bernanke delivers blunt warning on U.S. debt). Tuttavia per capirsi - a titolo di paragone - gli accordi di Maastricht impegnano gli Stati europei membri dell’Unione Europea a ridurre il proprio debito pubblico, affinché non superi il 60 % del PIL del Paese. Sempre a titolo di paragone l’Italia, uno dei paesi UE con il maggiore debito pubblico, nel 2007 ha visto il proprio debito pubblico assestarsi al 104 %, mentre nel 2010 sarà «solo» del 120% (contro il 190% stimato per gli USA), di cui, però, solo 1/6 di esso deve essere rifinanziato ogni anno.

Per finanziare il debito a breve occorre assumere quantità sempre maggiore di debiti a tassi di interesse sempre più bassi e quindi rinnovare i prestiti quando giungono a scadenza.

Il «sistema a debito» funziona finchè i creditori mantengono l’affidamento che il credito sia rimborsato. Ma quando i creditori cominciano a dubitare e iniziano davvero a pretendere il rimborso o a non finanziare più l’indebitamento, è allora che cominciano i guai. I tassi di interesse cominciano a salire drammaticamente, perché, per prestare ancora soldi, il potenziale finanziatore/creditore deve avere almeno la lusinga di una remunerazione maggiore. Ma con l’innalzamento dei costi di finanziamento, cioè dei tassi di interesse da pagare sul debito, la spirale si allarga e la festa è finita. Il fallimento è prossimo.

In base a quali elementi uno Stato è a rischio default?

Ci sono tre metodologie possibili di stima:

La prima è costituita dalla vecchia regola generale, in base a cui si riteneva che l’insolvenza fosse conclamata nel caso in cui un Paese non fosse in grado di garantire il pagamento di tre mesi di importazioni.

Secondo una più recente teoria, da più parti richiamata in questo periodo e dedotta da articolo accademico di  due noti economisti, Alan Greenspan (ex presidente della FED e predecessore di Bernake) e Pablo Guidotti (professore Università Torquato Di Tella, Buenos Aires), il momento ed il livello in cui diviene manifesta l’insolvenza sul debito pubblico di un Paese può essere espresso in una formula precisa. Quella che è stata ribattezzata come regola di Greenspan-Guidotti prevede che un Paese, per evitare l’insolvenza, debba detenere riserve convertibili almeno pari al 100% delle scadenze di debito che maturano a breve.

Se dunque gli USA hanno un debito a breve di 3.500 miliardi di dollari, dovrebbero possedere altrettante riserve convertibili. Invece pare ne abbiano appena 500 miliardi, di cui 300 in oro, 58 in riserve petrolifere e 136 di riserve valutarie.

Dove li prendono gli USA 3.000 miliardi di dollari a breve, per evitare il default?
Bisognerebbe sapere a chi è in mano il debito americano ed a quanto in realtà ammonta. Le cifre sono diversissime ed una stima seria è molto difficile.

Ed è qui che viene buona la terza regola utilizzata per misurare la potenziale insolvenza di uno Stato: secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale, i Paesi il cui debito pubblico è detenuto per oltre il 60% da stranieri non residenti, incorrono in un alto rischio di crisi valutaria ed insolvenza o moratoria sul debito pubblico.

Nel 2007 gli stranieri possedevano il 44% del debito pubblico USA, che essendo però cresciuto a dismisura è prossimo ormai a raggiungere e superare (per qualcuno invece è già stata superata) la fatidica soglia del 60%.

Così ci si domanda: dove saranno reperiti i fondi per finanziare il debito a breve?

All’interno? Impossibile.

Il totale del risparmio nazionale negli Stati Uniti è stimato in circa 600 miliardi all’anno. Anche nell’irrealistica ipotesi in cui venissero tutti investiti in titoli del Tesoro degli Stati Uniti, mancherebbero 1.650 miliardi dollari a breve per raggiungere il 60% di 3.500 miliardi di dollari di fabbisogno. Insomma occorre comunque puntare tutto sul debito estero, ma è qui che la situazione si complica. Vediamo perché.

In una stima della prima parte del 2009 il debito complessivo USA all’estero ammontava a 3.382,4 miliardi di dollari, finanziato così (i numeri esprimono i miliardi di dollari):

Cina 776,4 
Giappone 711,8
Gran Bretagna 214,0
Paesi esportatori petrolio 191,0
Banche caraibiche 189,7
Brasile 139,8
Federazione Russa 119,9
Lussemburgo 104,2
Hong Kong 99,8
Taiwan 77
Svizzera 71, 6
Germania 53,9
Irlanda 46,3
Singapore 40,0
India 39, 3
Corea del Sud 36,3
Thailandia 29,7
Messico 29,5
Novegia 28,7
Turchia 27,5
Francia 26,0
Canada 19,0
Paesi Bassi, 18,9
Israele 18,8
Egitto 17,3
Italia 16, 8
Svezia 16,5
Belgio 15,7
Cile 14,3
Colombia 11,8
Malaysia 11,7
Filippine 11,6
Altri 157,6


Come si vede era la Cina che manteneva per il 25% il debito americano e su questo il governo USA ha fatto conto nelle proprie politiche fin qui adottate, per fronteggiare la crisi.

Ma le scelte americane hanno deluso e irritato Pechino, che, già nel marzo del 2009 con il premier cinese Wen Jiabao, non aveva nascosto i propri timori: «Abbiamo prestato un’enorme quantità di denaro agli USA, per cui siamo preoccupati della solidità dei nostri asset. E se devo essere sincero, nutro qualche timore».

Risultato: nei primi 11 mesi del 2009 la Cina ha acquistato solo il 4,6% dei nuovi Titoli di Stato emessi dal governo americano nel 2009. Molto, molto meno rispetto al 20,2% del 2008 e al record del 47,4% nel 2006 e con un dato significativo: il totale dei Tresury acquistati dalla Cina alla fine di novembre è stato inferiore a quello di luglio.

Era dal 2001 che Pechino non mostrava un calo di interesse per i Bond USA nel corso di un semestre. Il calo è stato compensato in parte da Hong Kong, che si è fatta carico di più del 5% del maggiore indebitamento americano e in parte dal Giappone, che se ne è assunto una maggior quota pari quasi al 10%.

In tal modo le partecipazioni cinesi al debito americano sono comunque aumentate fino a 789,6 miliardi dollari, lasciando Pechino sempre come il maggior detentore straniero di titoli del Tesoro, seguito dal Giappone con 757 miliardi dollari e dalla Gran Bretagna con 278 miliardi di dollari.

Ma a dicembre la Cina ha fatto un «affronto» agli USA: ha venduto negli ultimi 2 mesi dell’anno 43,5 miliardi di dollari di attività, cioè di titoli americani e replicato la manovra a febbraio, immettendone sul mercato altri 34 miliardi, facendo così divenire il Giappone il più grande detentore del debito pubblico USA (Cina: perde lo scettro del debito Usa ma non e' un disimpegno).

La Cina, a fronte della riduzione dell’ammontare di BOT americani in percentuale rispetto alle proprie riserve, ha intenzione infatti di aumentare le riserve auree. Ma non può farlo tutto d’un colpo e quindi non potrà comperare le 191,3 tonnellate d’oro che il FMI ha posto in vendita e che, secondo molte voci, la Cina era interessata ad acquistare. Ciò infatti determinerebbe un forte ed improvviso rialzo del prezzo del metallo giallo, che renderebbe molto più oneroso l’obiettivo cinese di tentare di allentare la propria dipendenza dall’area dollaro. Il crollo improvviso dell’economia americana la esporrebbe per prima all’insolvenza USA.

Tuttavia la tendenza è quella, la linfa cinese diminuirà, ma la Cina vorrebbe abbandonare lentamente l’America ed è per questo che l’America potrebbe decidere di «suicidarsi». La rivelazione di Bernanke potrebbe avere questa logica: minacciare la Cina di dichiarare l’insolvenza e ripudiare il debito nel caso questa decida di sganciarsi dall’America.

Perché è chiaro che se i cinesi non comprano più i titoli USA e iniziano a vendere quelli che detengono anche a valori leggermente più favorevoli di quelli offerti dal Tesoro USA, sono in grado di bloccare ogni ulteriore emissione di titoli di credito pubblico americani. Chi comprerebbe titoli dagli americani se sul mercato spuntassero titoli americani per 750 miliardi di dollari venduti leggermente sottocosto dai cinesi? Ma se nessuno compra più T Bond dagli USA, come fanno questi a sostenere il proprio debito?

Per ora la cifra di titoli americani ceduta è stata pari, nella manovra dichiarata a febbraio, a circa il 5% del totale dei crediti posseduti dalla Bank of China, ma è un segnale: di fronte al ripetersi della crisi, la Cina dice no ad ulteriori piani Paulson o simili, a politiche economiche e monetarie che non taglino le unghie agli speculatori.

Il grande creditore cinese sospetta che il grande debitore USA voglia approfittare della crisi e, continuando a lasciare mano libera agli speculatori, tenti in questo modo di polverizzare la sua emergente potenza e ricchezza con il vecchio trucco di avvinghiare il partner nel proprio gioco mortale. Impedendo così alla Cina di divincolarsi, l’America minaccia di trasferirle il contagio della propria insolvenza.

Consapevoli di ciò sin dalla prima metà del 2009 i cinesi avevano messo in evidenza l’impossibilità di mantenere il dollaro quale moneta unica per gli scambi internazionali, auspicando la nascita di una moneta virtuale basata su un paniere delle principali monete e raccogliendo il consenso degli altri tre Paesi del BRIC (Brasile, Russia, India) e poco dopo anche della Francia.

Intanto la decisione di Obama di accollare allo Stato le sofferenze bancarie ha avuto l’effetto certo di far esplodere il debito pubblico americano, senza davvero allontanare - ma forse solo dilazionare - lo spettro di una grande recessione e di milioni di disoccupati. L’altro dato certo è invece che attraverso il meccanismo del pagamento in dollari sul mercato mondiale (a cominciare da quello petrolifero) i costi dell’operazione legata al piano Paulson è stato scaricato sui detentori dei titoli del Tesoro USA (come la Cina appunto), anche a causa del deprezzamento della valuta americana e del conseguente valore dei titoli.

La Cina prima della crisi ha accumulano riserve di dollari  per far fronte ai pagamenti internazionali e come assicurazione contro il rischio di repentini deflussi di capitali speculativi, ma certo anche a fini di competitività, cioè per impedire l’apprezzamento della propria valuta rispetto al dollaro e favorire così le proprie esportazioni, pagate a loro volta dagli importatori alla Cina in dollari, moneta unica per gli scambi internazionali.

Questo ruolo del dollaro, però, fa sì che piuttosto che detenere i biglietti verdi infruttiferi nei propri forzieri, i detentori (tra cui la Cina) abbiano preferito investirli proprio in titoli del debito USA. Ma ora che la montagna del debito estero diventa troppo grande, il deprezzamento del dollaro ne riduce il valore, a tutto vantaggio degli USA e con grave danno degli investitori stranieri.

Di qui l’intendimento cinese e di altri di uscire dal ricatto del sistema debito-dollaro e creare una nuova moneta virtuale per gli scambi internazionali. Gli USA, ovviamente, cercano di difendere la propria posizione di privilegio e per fare ciò uno degli strumenti è quello di rassicurare la Cina con un dollaro forte.

Il recente scenario speculativo promosso contro l’Euro dal Soros Fund Management (lo stesso che guidò l’attacco contro la lira e le altre monete europee nel 1992), finalizzato a riportare artificiosamente entro il 2010 la parità tra dollaro ed Euro, potrebbe avere – con il sostegno del governo USA ed inglese, nonché della finanza british-israel cui Soros appartiene – lo scopo di diminuire l’appeal che l’Euro esercita verso vaste aree del pianeta e ritardare l’adozione del paniere di monete in luogo di quella del dollaro come moneta unica per gli scambi internazionali (www.corteconti.it/Cittadini-/Rassegna-S/febbraio2010).

La stessa crisi greca e quella agitata riguardo ai «PIGS europei» potrebbe delineare uno scenario tipico da «muoia Sansone con tutti i Filistei».

Come ha riportato il quotidiano La Stampa  a proposito della Grecia «ci sono forze anonime e tremende che puntano al crollo di questo Paese, nonché a trascinare l’Euro nella spirale, proprio allo scopo di intascare le cedole lucrando sulla crisi della moneta europea.

Afferma un trader della City londinese: «In questi giorni abbiamo visto molto attivi sul debito greco molti hedge fund ma anche grandi banche, americane ed europee», con l’apparente paradosso che  le banche che vanno all’attacco della Grecia sono le stesse che gli hanno prestato i soldi solo pochi mesi addietro. Un modo per moltiplicare rapidamente i propri guadagni.

Un altro esempio di come agisca la speculazione l’abbiamo con la Spagna. I titoli di Stato spagnoli a dieci anni, tra il primo febbraio e il 4 febbraio, sono passati da 99.79 a 98,99, con un guadagno per chi ha venduto di 80 centesimi per ogni singolo titolo. Una grande banca che avesse comprato 100 milioni di euro di titoli spagnoli, in soli tre giorni, vendendo gli stessi titoli avrebbe guadagnato 800mila euro!» (Sono pronte le raffiche di credit default swap contro l'euro).

Il fatto – come si vede – è che nessuno ha imposto il cambiamento delle regole del gioco della finanza speculativa, che hanno portato allo scoppio della bolla immobiliare. Oggi oltre che sugli Stati il nuovo oggetto di speculazione sono le commodities: rame, litio, piombo, zinco, soia, cacao, materie prime in genere sono aumentati in proporzioni spettacolari nel giro di una manciata di mesi, per non parlare dell’oro che nell’ultimo anno e mezzo è cresciuto del 150%!

Si aggiunga che a causa dell’enorme immissione di liquidità il mercato finanziario è iperalimentato da una eccessiva disponibilità di capitali da investire, ma questo non corrisponde a nessun dato di economia reale.

Ciò spiegherebbe anche il ritardo nel manifestarsi del fenomeno inflattivo: è la stagnazione, la mancanza cioè di domanda, che tiene bassi i prezzi, perché la liquidità non è finita nelle tasche dei consumatori (che debbono continuare a ricorrere al debito per soddisfare la domanda di beni), ma degli speculatori.

E questo spiegherebbe anche perché nonostante tutto aumentino le Borse: investire in industrie quotate significa – analogamente alle commodities – investire in beni, cioè in capannoni, macchinari, strutture e merci, insomma investire nell’economia reale, l’unica in grado di imporre la propria concreta forza contro la volatilità dell’economia speculativa. La realtà e semplice: tutti aspettano il botto e chi può si procura beni reali, ricchezza palpabile. Se accadrà, quando accadrà, gli USA potrebbero dover affrontare una crisi sociale come quella dell’Argentina nel 2001.

Ma l’America non è l’Argentina. Chi glielo va a raccontare agli americani che questa non è una crisi di sovrapproduzione, ma di sovra-consumo? Che la debbono smettere di volere ogni cosa e di pagarsela col debito? Che debbono cambiare stile di vita? Che l’‘American Way of life’ non va da nessuna parte e che ‘The american Dream’ si è trasformato in incubo globale? Chi glielo dice a quel popolo di nevrotici e obesi che debbono diventare più austeri, più magri, più sobri: in una parola più poveri?

Le sirene del populismo cominceranno a tuonare, a invocare il ritorno allo Spirito della Frontiera, al Destino manifesto, all’esportazione della democrazia, ai diritti civili: nasceranno mille Tea party, poi i Whisky party, infine i Winchester party. Sorgeranno mille Sarah Palin, la dinastia Bush tornerà in qualche modo a farsi viva e l’AIPAC e il PNAC a dettare la linea. Per l’occasione da noi – vedrete – anche Ferrara tornerà in televisione, la Bonino andrà benissimo a tutti e il senatore Guzzanti ritroverà il vecchio smalto.

C’è il vantaggio che i «musi gialli» cinesi hanno già caratteristiche razziali che li rendono simili ai pellerossa e sono un perfetto amalgama dei vecchi tradizionali nemici dietro cui l’America si è ricompattata in questi anni: gli analoghi musi gialli giapponesi, quelli comunisti e viet-cong, l’Armata Rossa dell’impero comunista sovietico, la spietatezza della Wehrmacht. E poi sono tanti, troppi, al pari delle orde mussulmane dilaganti come un incubo nelle visioni apocalittiche dei cristiano-sionisti.

Risolvere i problemi in un colpo solo potrebbe apparire come una tentazione irresistibile e un’opportunità provvidenziale. Come ? C’è un solo settore dove l’America mantiene a tutt’oggi un indubbia indiscussa supremazia, quello militare.

La brusca rottura fra Cina e USA sulla questione di Google, l’improvvisa decisione americana di dar corso ad una fornitura di armi a Taiwan, la decisione di Obama di ricevere il Dalai Lama,
l’ostilità di Pechino ad ipotesi di intervento armato contro l’Iran, le polemiche sulla decisione di Pechino di non rivalutare la sua moneta possono essere le prime note del revival di una vecchia canzone americana e i primi passi di una nuova frontiera da conquistare…
… e ovviamente un modo per fare sì che i riluttanti, obesi, panciafichisti americani prendano più seriamente in considerazione l’idea di attaccare l’Iran.

Pechino è al secondo posto dopo gli Stati Uniti per consumo mondiale di energia, pari a 7,4 milioni di barili al giorno. La Cina importa il 36% del suo fabbisogno energetico, di cui un terzo proviene proprio dall’Iran. Qualche anno fa Pechino e Teheran hanno firmato un maxiaccordo energetico in base al quale l’ente petrolifero di Stato cinese SINOPEC è diventato azionista nei giacimenti iraniani di Yadavaran, da cui si prevede debbano essere estratti fino a 300 mila barili al giorno.
Pechino ha investito cento milioni di dollari in tecnologia in cambio della garanzia di ricevere, dal 2009 e per un quarto di secolo, dieci milioni di tonnellate di gas naturale liquefatto l’anno.

Colpire l’Iran significherebbe colpire la fame di energia di cui la Cina abbisogna. Sarebbe come, in uno scenario bellico, colpire le industrie del nemico. Nessuno adesso in America pensa di dover morire per Teheran, perché nessun uomo sazio fa la guerra. Ma se la crisi avanzasse…

… beh, allora potrebbe accadere che il richiamo – fin qui inascoltato – di Israele a farsi carico di questa nuova missione «di civiltà», cioè distruggere l’Iran, potrebbe coniugarsi col malessere
dell’«America del profondo» ed entrare nell’agenda di Washington: Gerusalemme, in cambio dell’immunità, potrebbe ricevere l’agognato via libera per bombardare con atomiche tattiche l’Iran e incendiare il mondo mussulmano da Teheran fin dentro le province della Cina.

Il profeta Obama, che già si è inchinato a «chi comanda in America» e ha regalato loro nuova immensa liquidità per i loro sporchi giochi speculativi e di potere, lo dovrà fare di nuovo. Bernanke, nome di sicura appartenenza etnico-religiosa, ha parlato e ha parlato pubblicamente. Ha parlato alla Cina e ha parlato all’America. Chi doveva intendere, intenderà, a Pechino, come a Washington. Soprattutto a Washington. O il «Winchester party» troverà una pallottola anche per il fronte interno. Quando?

«It’s not something that is 10 years away. It affects currently».

Domenico Savino


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