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Nati per soffrire? Antidolorifico magnifico
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Antidolorifico magnifico.
Una delle ultime canzoni di Jovanotti può stimolare curiose riflessioni su temi sempre attuali: come affrontare il dolore.

«Il dolore è stato definito dall'Associazione Internazionale per lo Studio di Dolore come “un'esperienza spiacevole, sensoriale ed emotiva, associata ad un danno dell'organismo attuale o potenziale”.
Il dolore ti dice che qualcosa sta funzionando male nel tuo corpo o sta per avvenire un danno.
In pratica è una maniera del corpo per inviare un avvertimento al cervello.
Nella pelle ci sono migliaia di cellule che sono recettori per il calore, per il freddo, per la pressione, per il tatto e per il dolore.
Quando c'è un danno al corpo (per esempio dopo una ferita) queste piccole cellule spediscono informazioni, lungo i nervi ed il midollo spinale, al cervello.
Ciò prima produce una situazione d'allarme ma poi, se persiste, procura sofferenza e disagio. I farmaci antidolorifici bloccano o attutiscono queste comunicazioni e riducono il loro effetto sul cervello».
(1)
La definizione riportata risente di sicuro di limiti scientisti, con l’escludere quasi aprioristicamente, tutta una serie di sensazioni di natura spirituale, che hanno invece una valenza ed una pregnanza notevole sulla vita di tutti i giorni.
È la «codificazione medica
».
Ma la questione è un’altra.

L’uomo è nato per soffrire?
No di certo! Al contrario!
È creato per la vita e la felicità, per il sommo Bene, cioè Dio stesso.
Tuttavia il dilemma del male, macigno sul destino dell’uomo, che dietro l’angolo di ogni suo vagare, incontra sofferenza, dolore e contraddizione, affligge l’umanità e la logora nell’esistenza e nei perché di questo conflitto.
Al male, però, nessuno dà una risposta vera, se non il cristianesimo; le pseudo-religioni d’Oriente, ignorando il principio di non contraddizione e la personalità di Dio, non riescono a spiegarlo; devono ingerirlo a forza nel minestrone energetico di forze cosmiche anonime e non meglio definite, fino a spegnerlo nell’illusione (maya) indù o a raggelarlo nell’atarassia buddista del nirvana (che significa appunto freddo), oppiaceo annullamento di ogni desiderio.

La società odierna, in realtà forse inconsciamente, segue questa fuga e disapprovazione del dolore e rincorre questa incapacità di riconoscerlo come esperienza reale da affrontare e vincere con le armi giuste; per questo non vive senza antidolorifici.
E non soltanto nelle canzoni!
Ce n’è uno per ogni esigenza: per i sintomi della febbre e dell’influenza, per i dolori reumatici e per quelli del parto; ci sono antidolorifici per il malessere di vivere, che vanno dal «mercoledì calcistico di coppa» per i malati di calcio, allo yoga, al training autogeno per i radical-chic, per passare alla matriciana in osteria per coloro che non si fanno troppe domande o al fondo di bottiglia per i più soli; fino a perdersi nelle droghe per i disorientati e gli sbandati, e nella sexual addiction (sessodipendenza) per gli infelici cronici.
Mentalità «eutanasica», lontana mille miglia dal senso del sacrificio e dell’abnegazione.

La visone cristiana della vita, al contrario, ci dà una spiegazione credibile e concreta del dolore ed insegna anche il modo di vincerlo e sublimarlo.
Il mistero del dolore e del male ha origine dal peccato.
Il male, conseguenza del peccato, non è una illusione e neppure l’altra faccia di un bene ontologicamente identico; il male costituisce sempre una privazione di un bene; quando una cosa o un essere non vive secondo l’ordine ed il fine ad essa impresso da Dio stesso, quando non si conforma alla volontà divina, ecco prodursi il male: questa non corrispondenza è, appunto, una mancanza di un bene dovuto.

Il creato possiede un ordine concepito dall’Eterno; a tale ordine anche l’uomo deve sottostare.
Non è sottomissione, ma limpida accettazione della verità su stessi.
Il cristianesimo vince il male con il bene, come insegna san Paolo; e lo vince grazie a Cristo.
Lo vince perché Dio è Padre ed ama al punto il mondo da donare il Figlio: ecco il Mistero dell’Incarnazione, il quale suppone in Cristo una discesa totale nelle sfere ultime ed intime del dolore stesso.
Il Verbo, assumendo l’umanità, non lascia fuori nulla; il dolore è conosciuto fino in fondo; fino alla fine, è amato fino all’annientamento; il calice è bevuto integralmente per volontà del Padre.
La croce, supplizio infame di uno schiavo, diviene mezzo di salvezza e liberazione; la sua morte arreca la vita eterna.

Anche i capelli del capo sono contati.
Cristo insegna a vivere il dolore, dandogli il giusto senso e valore; non soltanto!
Ma riuscendo per l’onnipotenza della sua forza a tramutare il male in un bene maggiore; la privazione del bene, in una nuova creazione di un bene più grande di quello sottratto per la cattiveria dell’uomo.
«Ecco, faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5).
Nessun sospiro sofferente e dimenticato in un letto d’ospedale è estraneo al Cuore di Cristo; nessuno è privo di valore che echeggi per l’eternità.

Per avvicinarsi a questa dimensione, il cristiano deve «entrare» nella Persona di Gesù, conoscerlo, amarlo, vivere degli stessi suoi sentimenti; può non trattarsi di cosa semplice, a causa della «complicazione» nella quale solitamente l’uomo è involto, ma certamente a tutti possibile (anche se in modo diverso ad ognuno).
A questo fine, proprio il dolore diviene la porta d’accesso alla vita ed alla felicità.
L’ascesi si presta a questo fine.
È strumentale, mai finalizzata a se stessa, ma utile.
Questo converte ogni momento della giornata in una continua opportunità di vivere felici, sublimando la sofferenza e la tristezza, la contraddizione ed il male, tramutando tutto in gioia.
Del resto, san Paolo ricorda: « siate sempre lieti»!

Forse questo è un imperativo spesso dimenticato dal cristiano distratto, ma che non può non vedersi efficacemente rappresentato nel credente coerente e serio; la felicità del cuore è condizione stabile del cristiano; se essa è assente, qualcosa non va nella vita spirituale.
Come fare, dunque?

Per esempio, iniziando con l’offrire, in ogni circostanza della vita, tutto il dolore vissuto, al Cuore di Gesù; libero da ogni ulteriore preoccupazione, ragionevole o irragionevole, confidando nell’amore del Crocefisso, sguardo fisso alla speranza certa di non essere soli.

Stefano Maria Chiari



1)
da www.salus.it/fid/dolore_paziente.html


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