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Ora è globale anche la fame
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Il 28 marzo l’Egitto ha vietato l’esportazione di riso per sei mesi. Motivo: in quel solo giorno, i prezzi internazionali del riso sono saliti del 30%. Il governo egiziano ha deciso di provvedere prima ai bisogni interni, e tentare di limitare i rincari (1). Ciò perché i rincari degli alimentari di base hanno già provocato disordini in Marocco, Senegal, Mauritania, Guinea e Yemen, e la protesta può assumere una piega politica.

Nelle Filippine la polizia è stata mandata a fare irruzioni a sorpresa nei magazzini dei grossisti (per lo più commercianti cinesi, detestati dalla popolazione), perchè ci sono sospetti di accaparramenti di riso. In Corea del Sud, dopo il rincaro improvviso del «ramen» (uno spaghettino precotto istantaneo a base di grano) le donne di casa hanno preso d’assalto i supermercati svuotando gli scaffali.

Il blocco dell’export egiziano trasferisce il problema a Paesi come la Turchia, la Siria, la Giordania, che si fornivano di riso dal Cairo, ed ora, per dar da mangiare ai loro cittadini, devono comprare sul mercato mondiale rincarato.

Il Vietnam, secondo esportatore mondiale di riso dopo la Thailandia, ha preso le stesse misure del Cairo: ordine agli addetti di non firmare più alcun contratto di export per quest’anno, riduzione delle vendite all’estero del 25%. In Argentina il governo di Cristina Fernandez ha aumentato le imposte sull’export di cereali, nel doppio tentativo di ridurre l’uscita di materie prime alimentari e di redistribuire i vantaggi degli alti prezzi globali che ora vanno ai soli agricoltori; suscitando violente proteste fra questi.

Anche India e Cambogia stanno scoraggiando la vendita all’estero di cereali, in favore del consumo interno; l’India ha visto rincari notevoli degli alimentari più semplici, quelli consumati dai poveri, nell’ultimo anno e mezzo. Sicchè anche l’India, che aveva raggiunto l’autosufficienza alimentare negli anni ‘70, ha cominciato a importare notevoli quantità di grani, fagioli, lenticchie e piselli nella speranza di contrastare i rincari interni; con ciò contribuendo ai rincari mondiali.
 
In questo momento le riserve mondiali di riso - l’alimento-base dell’Asia - ammontano a 72 milioni di tonnellate, ossia solo il 17% del consumo annuo globale. Riserve così basse favoriscono la speculazione, che s’è buttata sulle materie prime dopo che il collasso USA ha chiuso quel «mercato finanziario»: ogni cattiva notizia per i poverissimi (come il blocco dell’export egiziano e vietnamita) provoca rincari eccessivi, e dunque profitti speculativi per i ricchi che agiscono sul mercato dei futures, ossia  quei derivati con cui s’impegnano a vendere o comprare una partita di riso ad una certa data a un prezzo prefissato, in attesa degli inevitabili rialzi.

Il World Food Program, l’ente ONU che fornisce razioni a 73 milioni fra i poverissimi del mondo, ha difficoltà a continuare il suo programma alimentare: ha chiesto d’urgenza 500 milioni di dollari, altrimenti dovrà ridurre il numero di quelli che nutre, perché i suoi costi sono aumentati, da giugno,  del 55%. Data la recessione mondiale provocata dal collasso finanziario americano, è improbabile che riceva fondi straordinari dai donatori internazionali.

Le autorità locali USA sono già impegnate nella distribuzione di «food stamps», buoni-pasto con cui i poveri possono comprare cibo nei supermarket, a 28 milioni di americani che hanno perso il lavoro, la casa, o che non ce la fanno più a mettere insieme il pranzo con la cena per via dei rincari generalizzati. Sicché incombe una vera e propria carestia su una quarantina di Paesi, fra i 121 in cui la FAO assiste o segnala parti di popolazione «vulnerabili».


La graduatoria della FAO è basata su precisi parametri, quali quanto un Paese dipende da cibo importato, quanto è l’inflazione, quanto del reddito ogni famiglia spende per l’alimentazione (il 77% in Burundi contro il 10-15% in USA ed Europa), e quanto è grande la popolazione urbana; nelle megalopoli dei Paesi miseri si annida, più che nelle campagne, la fame. L’Afghanistan ha chiesto aiuti d’emergenza per i suoi poveri inurbati; in Centroamerica, anche a Città del Messico, la situazione è grave (2).
 
Il motivo primario dei rincari viene addebitato al rincaro del greggio, che aumenta i costi di produzione e di trasporto dei grani e di tutti i prodotti agricoli. In più, l’Australia ha un cattivo raccolto per via della siccità, la Cina ha sofferto 45 giorni di gelate che hanno bruciato molte colture, il Sud-Est asiatico è stato colpito da varie affezioni agricole. Il consumo di carne in Cina è cresciuto del 150% dagli anni ‘80: ora milioni di cinesi possono pagarsi il pollo, il maiale e il manzo. Ma l’allevamento più intenso consuma più mais ed altre granaglie per la nutrizione degli animali, sottraendole al «mercato» globale, e al consumo dei più poveri.

John Powell, vicedirettore del Worl Food Program (che ha sede a Roma, la FAO), accusa anche la decisione americana ed europea di destinare i grani alla produzione di bio-carburante. Il 16% della terra agricola americana, dove si producevano soya e frumento, oggi è dedicata alla coltivazione di mais per bio-etanolo.

«Per la prima volta nella storia vediamo una chiara correlazione tra il prezzo dei carburanti e il prezzo del cibo», dice Powell. «Se la produzione di granaglie aumentasse per miracolo del 20%», spiega, «non saremmo sicuri di avere più cibo per i nostri assistiti. Parte di quelle granaglie andrebbe per il bio-etanolo, e non sappiamo quanta parte: le granaglie andrebbero dove i prezzi sono migliori».

Il Financial Times (3) deplora lo sforzo di Egitto e Vietnam di trattenere il cibo a casa (è «protezionismo», sia pure a rovescio). Da custode del dogma liberista, accusa della situazione i troppi sussidi che Paesi come l’Egitto, ed altri sottosviluppati, hanno concesso ai loro agricoltori «poco efficienti», e gli alti dazi che pongono sulle importazioni «quando i prezzi mondiali sono bassi, per impedire che gli agricoltori locali siano schiacciati dalla concorrenza».

Accusa anche i governi che, ora che i prezzi sono alti, penalizzano i contadini vietando l’export, per favorire la propria plebe urbana esasperata dai rincari, le cui rivolte sono politicamente pericolose. Insomma, è tutta colpa degli interventi pubblicI e delle troppe regole;  non c’è ancora abbastanza liberismo globale.

Naturalmente il giornale del padronato globale evita di ricordare le promesse con cui raccomandò il liberismo globale: inutile produrre cereali in casa, quando si possono comprare sui mercati globali ai prezzi più competitivi; l’apertura dei mercati avrebbe garantito a tutti l’abbondanza a basso costo.

Avviene invece il contrario, e la causa delle cause è la globalizzazione: che ci ha dato lo sviluppo troppo rapido della gigantesca Cina, che ha squilibrato tutti i «mercati»; l’interdipendenza eccessiva dovuta alla liberalizzazione degli scambi; il dilagare della crisi americana in tutto il pianeta, per mancanza di compartimenti stagni nazionali in economie aperte a tutti i venti; la finanziarizzazione dei prodotti agricoli; fino alla cessata protezione dell'’agricoltura - dettata dall’ideologia - che ha fatto passare l’Europa dal surplus alla penuria, nella convinzione che era «conveniente» servirsi dai granai del pianeta.

Ora i trasporti rincarano, conviene l’autarchia e il consumo interno. E i Paesi produttori di grani hanno già cominciato.
 



1) Peter Goodspeed, «Food crisis being felt around the world», National Post, 1 aprile 2008.
2) Edmund Sanders, «A perfect storm of hunger», Los Angeles Times, 1 aprile 2008.
3) Alan Beattie, «Struggle to keep food supplies at home», Financial Times, 1 aprile 2008.
 


 
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