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La riprovazione d’Israele (1)
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La riprovazione d’Israele secondo le parabole del Vangelo di San Matteo lette alla luce dell’Epistola ai Romani

Il Vangelo di San Matteo

Introduzione

Il lunedì dopo la Domenica delle Palme Gesù andò da Betania (ove si era ritirato) a Gerusalemme. Lungo la strada vide un fico e, non avendovi trovato alcun frutto, lo maledisse. Giunto a Gerusalemme entrò nel Tempio, da cui espulse i venditori che lo profanavano. In questo stesso giorno rese la vista a due pagani che erano ciechi, a sera ritornò a Betania. Il martedì tornando a Gerusalemme e contemplando il fico che si era seccato, istruì gli Apostoli sull’efficacia della preghiera. Successivamente entrato nel Tempio dette luogo alle grandi polemiche con gli scribi e i farisei.

Questa polemica di Gesù con scribi e farisei costituisce un nucleo omogeneo di parabole sulla riprovazione di Israele, che sono commentate da S. Paolo nell’Epistola ai Romani. Di qui l’importanza di contemplare il Vangelo di Matteo alla luce di S. Paolo, commentato da S. Tommaso per far un po’ di chiarezza su un tema, che in questi tempi di confusione e di grande apostasia, non è più presentato ai fedeli come la Tradizione patristica lo ha unanimemente letto.

La parabola del fico secco (Mt., XXI, 18-22) Giuseppe Ricciotti

L’Abate Giuseppe Ricciotti, nella sua celeberrima Vita di Gesù Cristo scrive: “Gesù s’avvicinò ad un albero di fico che stava presso la strada ed era lussureggiante di foglie […], e cercò tra il fogliame se c’erano frutti. Ma frutti non ce ne erano e non potevano esserci, per la semplice ragione che non era la stagione dei fichi […]. L’albero […] [aveva] gettato i primi bocci, i cosiddetti fichi fiori […]. Volendo allora giudicare quell’albero come se fosse stato una persona morale e responsabile, bisognerebbe dire che esso non era colpevole, se non aveva frutti in quella stagione: in realtà Gesù cercava ciò che, regolarmente, non poteva trovare. Con tutto ciò, egli maledisse quell’albero dicendo: ‘Mai più in eterno nessuno mangi da te frutto’! Tutte queste considerazioni ci confermano che Gesù volle compiere un’azione che aveva valore simbolico […]. In questo caso dell’albero il simbolo prendeva argomento dal contrasto tra l’abbondanza del fogliame inutile e la mancanza dei frutti utili, dal quale contrasto era anche giustificata la maledizione all’albero colpevole […]. Il vero colpevole [cui si riferiva l’insegnamento simbolico, ndr] era il popolo eletto, Israele, ricchissimo allora di fogliame farisaico ma ostinatamente privo da lungo tempo di frutti morali, e quindi meritevole della maledizione di sterilità eterna”[1].

Severiano del Pàramo

Padre Severiano del Pàramo nel suo Commento al Vangelo di Matteo (Roma, Città Nuova, 1970) scrive che l’intenzione del Signore era quella di “manifestare, mediante un’azione allegorica, la sorte che sarebbe toccata agli israeliti e a Gerusalemme per la loro incredulità. La raffigurazione del popolo ebreo in un albero fruttifero non è rara nell’Antico Testamento. Come si vede, quest’azione di Gesù, puramente simbolica, cioè senz’altro scopo che quello di rappresentare in maniera percepibile ai sensi la sorte che sarebbe toccata al popolo ebreo, non era un genere sconosciuto  per gli Apostoli. Il fico era per essi una chiara immagine del popolo ebreo, che, nonostante la provvidenza specialissima  con cui Dio lo aveva governato e soprattutto la predicazione e i miracoli di Gesù, non aveva maturato i frutti desiderati, non solo, ma stava affliggendo il cuore misericordioso di Gesù con la sua persistente incredulità: meritava, dunque, la maledizione di Dio. È il mistero della riprovazione del popolo eletto, su cui più tardi San Paolo verserà lacrime amare (cfr. Rom., IX, 1 ss. ; XI, 5 ss.)” (cit., p. 311).

I Padri della Chiesa

< I Padri della Chiesa (il cui consenso unanime nell’interpretazione della Scrittura è regola infallibile della fede) spiegano questa parabola nel seguente modo: le foglie sono “simbolo del culto farisaico, con cerimonie senza frutto di buone opere” (S. Giovanni Crisostomo, In Matth. hom. 68; come anche S. Ilario, In Matth. can. 21): “la vera virtù religiosa che è viva e dà la vita soprannaturale, inaridita in Giudea, passa ai Gentili” (Origene, In Matth. tract. 16). Il fico secco rappresenta “chi ha la fede senza le opere, è albero con frascame senza alcun frutto. Ma Dio gli chiede conto delle opere e dei frutti che avrebbe dovuto portare; e come pena della sua sterilità colpevole lo lascerà inaridire totalmente” (Origene ibidem; cfr. anche S. Agostino, De cons. ev. II, 68).  Tale parabola la si trova anche nel Vangelo di S. Marco (XI, 13-21). Gli stessi Padri ne hanno data la medesima interpretazione, in più vi sono i commenti di Beda il venerabile (super Dimiserunt eis; super Invenerunt pullum alligatum), Teofilatto (In Matth.), S. Ambrogio (super Lucam, lib. 9), S. Girolamo (super Misit duos), tutti concordano nel veder nel fico maledetto Israele che non ha voluto accettare Cristo e portare frutti di opere buone.  Dunque è chiaro che il giudaismo post-biblico, nella divina Rivelazione, è presentato – da Gesù stesso - come un ‘fico infruttuoso’ maledetto che diventa ‘secco’ e viene poi condannato anche al fuoco; di qui l’espressione corrente ‘valere un fico secco’ ossia nulla, perché in fico è un ottimo albero che porta frutti squisiti, ma se sterile e per di più seccato o secco non porta frutti e vale nulla, vale a dire è un fico secco, né più né meno. La parabola dei due figli (Mt., XXI, 28-43)

Un uomo aveva due figli, che impiegava nel coltivare la sua vigna. Un giorno disse al primo: figlio, oggi vai a lavorare nella mia vigna. Quello rispose: sì, vado. Ma non andò affatto. Più tardi il padre dette lo stesso ordine al secondo, che rispose: non voglio. Tuttavia dopo, pentendosi, andò. Gesù allora interroga i farisei: chi dei due fece la volontà del padre? Gli risposero: l’ultimo. Gesù allora applicò la parabola al caso storico dei rapporti tra fariseismo talmudico-rabbinico, paganesimo e il Messia annunciato dall’Antico Testamento:  “In verità vi dico che i pubblicani e le meretrici [pentiti, ndr] vi precederanno nel regno di Dio. Venne, infatti, a voi Giovanni Battista in via di giustizia e non credeste in lui, mentre i pubblicani e le meretrici [pentendosi e convertendosi] credettero in lui; voi al contrario, dopo aver veduto, non vi siete pentiti neppure più tardi, così da credere in lui” (Mt., XXI, 31-32).

Ricciotti

Ricciotti commenta: “Gli inappuntabili scribi e farisei erano adombrati in quel figlio che a parole obbediva ma a fatti era ribelle; al contrario lo scarto della nazione eletta, cioè pubblicani e meretrici, avevano indubbiamente errato ma poi erano rinsaviti accettando la missione di Giovanni il Battista, e così avevano imitato il figlio dapprima ribelle e poi obbediente. Tra i due figli, colui che dopo aver fatto il male cambia di mente e passa a fare il bene è da preferirsi a colui che non si decide mai a fare il bene pur dichiarandosi sempre pronto a farlo”[2].  Questa parabola, sempre secondo il Ricciotti, “era stata una sentenza di riprovazione per coloro che allora si stimavano le guide e i più insigni rappresentanti della nazione eletta”[3].

del Pàramo

Padre Severiano del Pàramo (Commento al Vangelo secondo Matteo, Roma, Città nuova, 1970) scrive: “Il secondo figlio, quello che assicura al padre che farà la sua volontà, ma poi non la fa, simboleggia i prìncipi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei, i quali si vantavano di essere osservanti della Legge, zelanti della gloria di Dio e giusti al suo cospetto, ma non vollero ascoltare il Battista, che Egli aveva inviato, e tanto meno il Messia: per la durezza del loro cuore saranno esclusi dal regno di Dio. Il primo figlio, quello che risponde al padre con un no chiaro e tondo, ma poi riconosce la sua colpa ed esegue gli ordini ricevuti, simboleggia i pubblicani e le meretrici, cioè gli elementi più abbietti della società, che ascoltarono il Battista e, quando si manifestò loro, anche il Messia e non esitarono ad entrare a far parte del suo Regno. In realtà le cose, quando Gesù narrava questa parabola, stavano andando precisamente a questo modo: a mettersi sulle orme di Gesù non erano stati gli ottimati del popolo ebreo, ma gli strati più infimi di esso e i pubblici peccatori, tranne qualche eccezione” (cit., p. 314).

I Padri

I Padri ecclesiastici interpretano così questa parabola: “L’uomo rappresenta Dio che vuole essere amato come padre più che essere temuto come Signore” (S. Giovanni Crisostomo, Super Matth., Op. imperf., hom. 40);  “Il primo figlio, essendo maggiore d’età, rappresenta i Gentili ai quali Dio parlò con la legge naturale” (S. Giovanni Crisostomo, Super Matth., ut supra); il lavoro nella vigna al quale il padre li chiama significa “le opere buone, fare il bene, vivere virtuosamente; ma con l’idolatria e altri vizi i Gentili risposero no a Dio” (S. Girolamo Super Matth., in prologo ad Eusebium e anche S. Giovanni Crisostomo, ut supra). Il pentimento del primo figlio rappresenta “le Genti o i Pagani, che intesero poi la parola di Cristo e si pentirono del loro modo sbagliato di ragionare e di agire e fecero ammende lavorando alla loro santificazione alacremente” (S. Girolamo, ut supra). Il secondo figlio è “Israele” (Crisostomo, ut supra); egli rispose: vado “come risposero i loro padri a Mosè: faremo tutto ciò che il Signore ci comanderà [Esod., XXIV]” (Girolamo, ut supra), ma non andò. “Infatti, poi mentirono a Dio [Sal., XVII]” (Crisostomo, ut supra). Quando i farisei rispondono che il primo figlio ha fatto la volontà del padre “si giudicano da sé, ammettono implicitamente di non obbedire a Dio con i fatti ma solo a parole” (Crisostomo, ut supra). I pubblicani e le meretrici stanno a significare “che non solo i pagani sono migliori di loro [giudei], ma addirittura che tra i pubblici peccatori, i quali si convertiranno, vi saranno di più giusti di loro” (Crisostomo, ut supra). Essi li precederanno “poiché crederanno più prontamente dei giudei e faranno il bene prima di loro” (Rabano Mauro, Super Matth., anche S. Ilario, In Matth., can. 22), ma “da ultimo entrerà nel regno, ossia la Chiesa di Cristo, anche Israele [Rom., XI, 9]” (Origene, In Matth., tract. 19). Poiché lo stesso è già accaduto con Giovanni Battista che venne “mostrando Gesù, come perfezione della Legge, via, verità e vita” (Rabano, ut supra), e “mostrando in sé tali virtù che i peccatori pubblici ne furono commossi e si convertirono” (Crisostomo, ut supra). Ora mentre “i peccatori pubblici credettero e operarono bene, voi farisei non volete ammettere neppure la vostra miseria morale, il che vi preparerebbe alla giustificazione. Gesù dice ai dottori della legge e ai sacerdoti che il popolo semplice è migliore di loro, esso è più vicino al primo figlio, mentre i farisei e gli scribi sono prossimi al secondo, infatti dicunt sed non faciunt” (Crisostomo, ut supra).

La parabola dei vignaiuoli omicidi (Mt., XXI, 33-46)

Ricciotti

Anch’essa secondo Giuseppe Ricciotti è “egualmente di riprovazione, in cui [Gesù] volle riassumere l’intera storia d’Israele confrontata con l’economia prestabilita da Dio riguardo alla salvezza umana. L’insegnamento velato in questa nuova parabola era eguale a quello impartito da Gesù poche ore prima, con l’azione simbolica di maledire e far disseccare l’albero di fico; l’immagine… era già stata impiegata sette secoli prima e per lo stesso scopo dal profeta Isaia (V, 1 ss.). La spiegazione […] aveva ricordato che l’ingrata vigna era la nazione di Israele e il suo padrone era Dio […], il quale però, esacerbato dalla sterilità della vigna, ne avrebbe abbattuto il recinto abbandonandola a devastazione e lasciandovi crescere rovi e spine”. Tale immagine che prediceva, settecento anni prima di Cristo, la riprovazione, maledizione e abbandono d’Israele da parte di Dio (sono termini impiegati nelle Scritture, Is., V, 1 ss. e Mt., X, 2-42), viene ripresa e ampliata nel Vangelo di Matteo testé citato: “c’era un uomo che piantò una vigna […]. Quando si avvicinò il tempo dei frutti, inviò i suoi servi ai vignaiuoli a prendere i suoi frutti, ma i vignaiuoli, presi i suoi servi, ne percossero uno, ne uccisero un altro […]. Alla fine inviò loro il figlio suo […] Ma essi […] presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero […] Dice loro Gesù […] per questo vi dico che sarà tolto a voi il regno di Dio e sarà dato a una nazione che ne tragga i frutti […] ed avendo udito i sommi sacerdoti e i farisei le parabole di lui conobbero che egli parlava di loro”. Ricciotti commenta: “La vigna era Israele, il padrone era Dio, e i servi malmenati o uccisi erano i profeti […]. Ma a questa parte riguardante il passato Gesù aveva aggiunta, a guisa di conclusione, una parte riguardante il futuro ed era quella ove aveva detto che lo stesso figlio […], era stato percosso e ucciso; evidentemente in questo figlio l’oratore aveva adombrato se stesso, e così si era proclamato implicitamente figlio di Dio ed aveva accusato in anticipo i colpevoli del loro futuro delitto”[4].

del Pàramo

Padre Severiano del Pàramo scrive: “Questa parabola è una delle più importanti del Vangelo. Infatti, contiene in sé, in un certo senso, tutta la storia della Chiesa. La figura della vigna indica il popolo d’Israele. […]. Quando il padrone della vigna decide di mandare il suo figlio amatissimo nella supposizione che lo avrebbero rispettato lo uccidono. Ora secondo San Giovanni Crisostomo negli omicidi della parabola Gesù intendeva simboleggiare i sinedriti e il popolo ebreo. […]. La vigna rappresenta il Regno messianico promesso agli ebrei, i fittavoli sono gli Israeliti, specialmente coloro che li ammaestrano e guidano il padrone della vigna è Dio […], il figlio unico è Gesù. […]. Il popolo ebreo inciampò sulla pietra angolare, ossia Cristo, con la conseguenza che il Regno che era destinato agli Israeliti in primo tempo passò ai Gentili” (Commento al Vangelo secondo Matteo, Roma, Città Nuova, 1970, pp. 315-319).

I Padri

I Padri della Chiesa spiegano così: “Questa seconda parabola, serve a dimostrare ancora di più la colpevolezza dei farisei” (Crisostomo, ut supra). Il padrone “è Dio” (Origene, ut supra). La vigna del Signore è “la famiglia d’Israele [Is., V, 2]” (Girolamo, ut supra). Ma “In Isaia la vigna stessa è incolpata di non fruttificare, mentre qui nel Vangelo i coloni sono i colpevoli, poiché nel Profeta la vigna è Israele, mentre in Matteo la vigna è la verità rivelata e contenuta nelle Scritture, il frutto sono le opere buone che i fedeli debbono trarre dalla verità rivelata, sotto la guida dei loro capi: gli scribi e i farisei, ossia i coloni, i quali non fanno il loro dovere. I coloni sono i sacerdoti e i leviti, ora come non giova nulla al colono lavorare la terra se questa non dà frutti, così il sacerdote non fa il suo dovere se non giova al popolo fedele” (Crisostomo, ut supra). Il padrone partì “lasciando agli uomini il tempo e la possibilità di adempiere, col libero arbitrio, la loro santificazione” (Girolamo, ut supra). Quando venne il tempo dei frutti: “la fede e la carità, la morale e il dogma” (Rabano Mauro, ut supra), Dio mandò i suoi servi, “i Profeti dell’Antico Testamento” (Crisostomo, ut supra), ma i coloni li presero e “con la mano vuota di bene fanno il male” (Crisostomo, ut supra), alcuni li picchiarono “come Geremia” (Girolamo, ut supra), altri li uccisero “come Isaia” (ibidem), altri ne lapidarono “come Nabot e Zaccaria” (ibidem). Infine mandò il suo figliuolo “il Verbo incarnato” (Crisostomo, ut supra), pensando: almeno avranno riguardo di lui, perché “veniva non per punirli, ma per salvarli” (Girolamo, ut supra); tuttavia “sapeva che lo avrebbero rigettato” (Crisostomo, ut supra), ma “essi avrebbero dovuto e potuto – con il loro libero arbitrio – accoglierlo ed amarlo” (Crisostomo e Girolamo, ut supra). I coloni, “coloro che avrebbero dovuto e potuto conoscere il Figlio di Dio, avendo la Rivelazione, lo rinnegarono odiandolo” (Origene, ut supra). Infatti dicono ‘costui è l’erede’, quindi “non per ignoranza invincibile e non colpevole, ma per invidia e gelosia, odiandolo, lo crocifissero; e anche coloro che odiano il Vangelo e perseguitano i suoi apostoli tentano per quanto è possibile di dare la morte a Gesù” (Rabano Mauro, ut supra). Qui si vede come già i Padri e poi S. Tommaso d’Aquino facessero la distinzione tra causa efficiente, fisica e reale, della morte di Cristo (i giudei infedeli) e causa morale o finale (tutti gli uomini per i quali Cristo è morto); quindi non è esatto dire che non i giudei ma tutti gli uomini, e specialmente i cristiani, hanno crocifisso Cristo.

Così – dicevano tra sé – ‘avremo la sua eredità’, vale a dire “non volevano perdere il retaggio delle cerimonie estrinseche della Legge antica (perché cedesse il passo a quella nuova), della quale non sarebbero stati più i beneficiari e non avrebbero più potuto trarne lucri e autorità, come invece continuavano a fare” (Crisostomo e Rabano Mauro, ut supra). Lo buttarono fuori “di Gerusalemme, ove fu crocifisso, come straniero alla vigna, ossia scomunicato dalla sua Chiesa dell’Antica Alleanza, che loro mal coltivavano” (Origene, ut supra). Essi dovettero rispondere a Gesù che li interrogava che il padrone li avrebbe giustamente castigati. “Si giudicano da sé, tutti in coscienza sentivano che la pena era giusta, ma - lo dicevano - chi con la bocca soltanto e chi col cuore, chi di buona voglia e chi indispettito” (Crisostomo, ut supra). Anzi aggiunsero addirittura che il padrone ‘avrebbe dato la vigna ad altri coloni’, ossia “la parola di Dio doveva passare da Israele alle Genti”, vale a dire il vecchio patto stipulato tra Dio e i primi coloni è scisso poiché questi ultimi sono stati infedeli, si passa da una vecchia a una nuova alleanza, così che l’Antica Alleanza è stata realmente revocata e ad essa è subentrata una Nuova ed Eterna Alleanza: questo è l’insegnamento moralmente unanime (e quindi infallibilmente vero) dei Padri della Chiesa, allontanarsene significa giudaizzare, ossia apostatare. Gesù, infatti, conclude: ‘vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a gente che lo farà fruttificare’ ossia il regno è “la verità rivelata da Dio nell’Antica Alleanza ad Israele” (Origene, ut supra) e i capi dei sacerdoti e i farisei ‘capirono che parlava di loro’. San Girolamo (ut supra) commenta: “quantunque istupiditi dalla passione dell’invidia e gelosia, sentivano in coscienza che le cose stavano realmente così, ma per ignoranza voluta non lo confessavano pubblicamente”, anzi ‘cercavano di prenderlo’ per ucciderlo ma ‘temevano ancora il popolo’ che poi travieranno, disinformandolo e persuadendolo (col ‘passa-parola’) subdolamente. Gesù specifica che ‘la pietra scartata dagli edificanti diverrà pietra angolare’, ossia Cristo rigettato dai Capi d’Israele diverrà “la pietra di un nuovo edificio: il Nuovo Testamento; essa sarà pietra angolare, ossia unirà in sé due muri o popoli, Israele e i Pagani, che entreranno tutti con pari dignità nella nuova Chiesa cristiana” (Crisostomo, ut supra) e ammonisce: ‘chi inciamperà su di essa si ferirà, e stritolerà colui sul quale cade’; vale a dire “non è la pietra o Cristo che fa cadere, ma chi non credendo in lui si scandalizzerà cadrà per sua colpa. Invece predice la caduta di Gerusalemme e del Tempio, quando afferma che essa stritolerà la città deicida –ricadendo il di lui sangue, ossia la responsabilità della sua morte, su di essa - dopo esserne stato respinto” (Crisostomo, ut supra).  La stessa parabola la si trova anche in Luca (XX, 9-19). Essa è stata commentata anche da s. Agostino (De cons. evang. II, 69), S. Cirillo, S. Beda il Venerabile, Teofilatto (super Cavete a fermento Pharisaeorum e super Quia vero resurgant mortui), Eusebio, S. Basilio e S. Ambrogio (In Lucam lib. 10), S. Gregorio Magno (super Arborem fici habebat quidam, hom. 26), tutti nello stesso senso.

Il banchetto nuziale (Mt., XXII, 1-14)

La parabola dei vignaiuoli omicidi, continua con una seconda parte, quella del banchetto di nozze, che un re ha preparato per  suo figlio.

Ferdinando Prat

L’Abate Ricciotti non ne parla, padre Ferdinando Prat scrive che: “Il banchetto messianico è la cena che Dio celebra in onore del Figlio suo; gli invitati che rispondono all’appello con un rifiuto ingiurioso sono gli ebrei, e quelli che vengono loro sostituiti sono i gentili, chiamati per ultimi e giunti per primi”[5]. Con questa parabola Gesù ha l’intenzione di “mettere in risalto che la riprovazione del popolo ebreo, e la chiamata dei gentili in sua sostituzione, è il castigo della sua incredulità”[6].

del Pàramo

Padre del Pàramo scrive: “Questa parabola è in stretta relazione con le due precedenti e forma con esse una trilogia che ha lo scopo di testimoniare un fatto: la sostituzione dei Gentili agli Ebrei nel Regno messianico; e di insegnare una dottrina: la salvezza è apportata  da Gesù a tutti gli uomini senza eccezioni. Nell’Antico testamento l’Alleanza di Dio col suo popolo è spesso rappresentata con l’immagine di un matrimonio mistico, ossia con un contratto che comporta mutuo amore e reciproca fedeltà. Dio non abbandona se prima non è abbandonato e siccome gli Ebrei, nella maggior parte tranne una piccola reliquia, Lo hanno abbandonato sono stati abbandonati da Lui. […]. Rifiutare un invito di un re ad un banchetto, per giunta nuziale, era considerato allora un’ingiuria gravissima, anzi un atto di insubordinazione, accoglierlo, invece, un doveroso gesto di rispetto e di sottomissione. […]. Il castigo inflitto dal re non si presenta inverosimile, nonostante la sua spietatezza messa a posta in bella vista della sua applicazione concreta al popolo ebreo e soprattutto al castigo che si sarebbe abbattuto su di esso con la distruzione di Gerusalemme. […]. La punizione voluta da re è seguìta da un’altra sua decisione, che a suo modo può considerarsi una rappresaglia contro tutti gli invitati scortesi: che esssi restino esclusi per sempre dal banchetto e che i loro posti vengano occupati da altri, chiunque essi siano, purché accolgano l’invito. […]. La dottrina di questa parabola è la stessa della parabola precedente. Innanzi tutto, nell’una e nell’altra, gli invitati al banchetto sono ebrei che non soltanto non accolgono l’invito, ma giungono ad insultare, a malmenare e persino a uccidere coloro che Dio ha inviato loro a invitarli, precisamente come gli ebrei avevano fatto col Battista e come faranno con Gesù stesso e coi suoi Apostoli. […]. Siccome sarebbe potuto sembrare che tutti gli ebrei senza eccezione fossero da considerare esclusi dal banchetto messianico, Gesù precisa che questa esclusione non è affatto assoluta e universale nei loro confronti. Il senso della sentenza, pertanto, viene ad essere: Molti, infatti, sono i chiamati, cioè tutto il popolo ebreo, che fu ripetutamente invitato dai Profeti, dal Battista e infine da Gesù stesso e dagli Apostoli; ma pochi gli eletti, cioè quei pochi ebrei che risposero alla chiamata. È ciò che insegna San Paolo nella sua Epistola ai Romani (XI, 5 ss.), che sembra un vero e proprio commento a queste parole di Cristo” (Commento al Vangelo secondo Matteo, cit., pp. 319-324).

I Padri

I Padri ecclesiastici commentano così: “Gesù risponde ai farisei, i quali gli domandavano a chi sarebbe stata affidata la vigna, ossia il Regno di Dio “ (S. Giovanni Crisostomo, In Matth. hom. 70), che “il banchetto di nozze rappresenta la Chiesa di Dio sulla terra” (Agostino, De cons. evang. II, 71) e “il Cielo eterno dei beati” (Gregorio Magno, In Evang. hom. 36 vel 38). Il re è “Dio Padre” (Origene, In Evang. tract. 20), il suo figliuolo “è Dio Figlio o Gesù Cristo” (Origene, ut supra). I servi inviati per primi sono “ Mosè e i Profeti dell’Antico Testamento”(s. Girolamo, Comm. In Matth.), i primi invitati “a ben credere ed agire” (Origene, ut supra) sono “il popolo eletto o Israele della Vecchia Alleanza” (S. Giovanni Crisostomo, ut supra). I secondi servi mandati ad invitare al banchetto sono “gli Apostoli della Nuova Alleanza” (S. Girolamo, ut supra), i quali sono mandati “da Dio prima alle pecore sperdute di Israele e solo poi ai Gentili” (S. Giovanni Crisostomo, Super Matth. Op. imperf., hom. 41). Nonostante il “rifiuto d’Israele a partecipare al banchetto ossia alla festa per la Resurrezione di Gesù, Dio rinnova l’invito, ancora una volta, ai giudei” (S. Gregorio Magno, ut supra) ad entrare nella Chiesa di Cristo, e così, “tramite la grazia e i sacramenti, specialmente il banchetto eucaristico” (S. Girolamo, ut supra) “partecipare al Regno dei Cieli” (S. Gregorio Magno e S. Giovanni Crisostomo, ut supra). Ma essi (Israele), rifiutano anche l’invito degli Apostoli, dopo aver rifiutato quello di Mosè e dei Profeti ed aver ucciso il Figlio di Dio. Anzi “alcuni, non solo rifiutano la grazia di Cristo e della Chiesa, ma addirittura feriscono e uccidono gli Apostoli” (S. Girolamo, ut supra e S. Giovanni Crisostomo, ut supra). Ora il re (Dio Padre), udendo ciò, “si sdegnò” (Crisostomo, ut supra) e “inviò le sue milizie, ossia l’esercito di Vespasiano e Tito nel 70 dopo Cristo” (Girolamo, ut supra) e “gli Angeli ministri di Dio, alla fine del mondo” (Gregorio, ut supra), a “disperdere gli omicidi o deicidi, nella Diaspora tra le Genti” (Gregorio, ut supra) e a “distruggere Gerusalemme” (Girolamo, ut supra). Solo “dopo il rifiuto d’Israele” (Crisostomo, ut supra), Dio “manda i suoi Apostoli, usciti da Gerusalemme e dalla Giudea, alle Genti” (Girolamo, ut supra), ed invita “tutti, buoni e cattivi, giusti e peccatori, ad entrare nella Chiesa e poi in Cielo, a condizione di mutar vita e convertirsi a Cristo” (Crisostomo, ut supra). Il banchetto (la Chiesa della Nuova Alleanza di Cristo) si riempì, “ma prima che i commensali si sedessero, ossia entrassero in Cielo definitivamente” (Origene, ut supra), il re (Dio) va ad ispezionare “lo stato di grazia dei commensali, al Giudizio particolare e poi universale” (Crisostomo, ut supra). Ora, uno non aveva “la veste nuziale, ossia la grazia santificante, non avendo mutato vita, con le buone opere” (Gregorio); “aveva le fede ma senza la carità” (Agostino, ut supra). Il re “lo rimprovera, dicendogli: Come non ti vergogni?” (Girolamo, ut supra). Costui “stette zitto, non può scusarsi il peccatore impenitente davanti a Dio giudice” (Girolamo, ut supra). Allora il re disse: Legategli mani e piedi e gettatelo fuori “della luce del banchetto celeste” (Gregorio, ut supra), nelle tenebre “del buio della dannazione eterna” (Gregorio, ut supra).

Quindi, anche dopo il deicidio, Dio invia i suoi Apostoli per prima ad Israele e, solo dopo la sua ostinazione contro la Ciesa nascente, li manda ai Pagani. Tuttavia, se tutti son ‘chiamati’ ad entrare nella Chiesa, non tutti sono ‘eletti’, perché  non rispondono con le buone opere o la carità soprannaturale, che informa e vivifica la fede, alla grazia di Dio. È chiaro che Israele è spodestato del regno di Dio in questa terra e rimpiazzato dai pagani, che si convertiranno in massa a Cristo, non solo con la fede, ma anche con la pratica delle virtù. La teologia della sostituzione è quindi divinamente e formalmente rivelata ed insegnata infallibilmente, dal consenso comune dei Padri della Chiesa.

Nella prossima parte vedremo come S. Tommaso d’Aquino, commentando l’Epistola ai Romani di San Palo (IX, 5 ss. ; XI 1 ss.) spiega la riprovazione di Israele di cui parla il Vangelo di San Matteo ai capitoli XXI e XXII.

d. Curzio Nitoglia

Fine della Prima Parte

(Continua)



[1] G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Milano, Mondadori, 5a ed., 1974, 2° vol., pp. 570-571.

[2] G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Milano, Mondadori, V ed., 1974, 2° vol., p. 573.

[3] Ibidem, p. 574.

[4] Ivi, p. 575.

Cfr. anche P. C. Landucci, Il problema ebraico, in Miti e Realtà, cit., pp. 433-43; Id., La vera carità verso il popolo ebreo, in F. Spadafora, Cristianesimo e giudaismo, Caltanissetta, Krinon, 1987, pp. 112-126.

[5] F. Prat, Gesù Cristo, Firenze, LEF, 1945, 2° vol., p. 234.

[6] S. del Pàramo, Vangelo secondo Matteo, Roma, Città Nuova, 1970, p. 323.


 
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