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“Il Principe Cristiano” di Padre Pedro De Ribadeneyra
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La filosofia sociale tomistica contro il machiavellismo

Pedro de Ribadeneyra e “Il Principe cristiano”

L’Editore Effedieffe di Proceno di Viterbo ha ristampato, nel giugno del 2018, il  capolavoro di padre Pedro de Ribadeneyra intitolato Il Principe cristiano[1], che venne edito in italiano da Cantagalli di Siena nel 1978, esattamente 40 anni or sono.

Pedro Ortiz de Cisneros de Ribadeneyra (1527-1611), gesuita spagnolo nato a Toledo, è stato uno dei primi compagni di S. Ignazio da Loyola e un attivissimo missionario in Spagna e nelle Fiandre. Il suo lavoro più famoso è Il Principe cristiano, edito per la prima volta a Madrid nel 1595.

Egli ricorda in questa sua opera che la vera, tradizionale e buona “ragion di Stato” fa dello Stato l’aiuto della Religione; mentre quella falsa, moderna o machiavellica fa dello Stato la Religione e quasi una Divinità. Inoltre dimostra come, in concreto, lo Stato e il Principe debbano aiutare la Chiesa a far conseguire ai cittadini il bene comune temporale subordinatamente a quello spirituale. Se per Machiavelli le Virtù coincidono con la forza e la furbizia proprie del Principe “volpe e leone”, per Ribadeneyra le vere Virtù sono quelle naturali e soprannaturali o cristiane (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza, Fede, Speranza e Carità).

Il suo libro è un vero trattato di filosofia politica, scritto alla luce dell’insegnamento di Aristotele e di San Tommaso d’Aquino, che affronta soprattutto gli aspetti pratici, concreti e morali di come condurre un governo naturalmente onesto e soprannaturalmente cristiano. In pratica de Ribadeneyra al Principe di Machiavelli oppone il Principe aristotelico/tomista e lo fa in maniera non solo speculativa, ma pratica e spicciola, rendendo affascinante la lettura del suo trattato.

Secondo Machiavelli il Cristianesimo avrebbe reso imbelli e vili i Romani, facendo crollare l’Impero; Ribadeneyra - nel suo libro Il Principe cristiano - lo confuta e dimostra che i Cristiani, per quanto riguarda la loro vita privata, debbono essere umili e mansueti, ma quando debbono difendere la fede e la patria, aiutati dalla grazia soprannaturale, diventano coraggiosissimi e la storia ce lo dimostra ampiamente.

Secondo Ribadeneyra i politici machiavellici hanno un unico desiderio: distruggere il Regno sociale di Cristo e far regnare il Principe egoista, dispotico e tiranno.

Il trattato del gesuita spagnolo è diviso in due parti: la prima indica i rapporti che il Principe deve avere con la religione; la seconda tratta dell’arte politica di guidare la Società.

“In definitiva ci troviamo di fronte ad un trattato di scienza politica cattolica, organizzato attorno alla ritrovata fede della Controriforma e reso appassionante dalla carica polemica del gesuitismo ispanico”[2].

Gli autori scolastici asseriscono che nessun uomo è un buon politico per diritto naturale, ma solo perché ha determinate qualità o virtù. S. Tommaso insegna: “Solo la scienza e la virtù e altre prerogative del genere, rendono una persona idonea ad esercitare l’autorità” (S. Th., II-II, q. 102, a. 1, ad 2um). Il politico, oltre alla scienza, deve avere la virtù, contrariamente a quanto insegnava Machiavelli, perché è impossibile che un uomo senza prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, possa promuovere il bene comune della Società.

Ribadeneyra: il martello del machiavellismo

Nicolò Machiavelli (1469-1527) è il pensatore che ha teorizzato in maniera sistematica l’autonomia della politica dalla morale. Secondo Machiavelli politica e morale non debbono combattersi, ma neppure essere subordinatamente coordinate.

Esse, per Machiavelli, esistono indipendentemente e separatamente l’una dall’altra e debbono ignorarsi senza farsi guerra. Il machiavellismo è una sorta di indifferentismo o agnosticismo politico. Non è lotta contro la morale, ma è il non volersi porre il problema etico e dunque agire in società, ossia politicamente, come se la morale oggettiva non esistesse per il Principe.

La morale agnostica vuol ignorare, non combattere tutto ciò da cui l’uomo possa dipendere e rifiuta di porsi il problema della verità. L’agnosticismo non nega per principio o teoreticamente il Trascendente, come fa l’ateismo militante, ma è indifferente, non se ne cura, anzi afferma che in pratica è meglio non pensarci.

Per il machiavellismo la morale non è cattiva in sé, ha la sua ragion d’essere, ma solo nel campo etico e religioso e non deve assolutamente interferire nel governo dello Stato. Così la politica ha il suo fine unicamente nel campo sociale puramente naturale, facendo astrazione (senza negarle esplicitamente) dalla morale, dalla religione e da Dio.

Machiavelli separa, senza metterli in guerra esplicita (come farà poi Rousseau), l’ordine naturale dall’ordine soprannaturale, la politica dalla morale, l’uomo sociale da Dio. Il machiavellismo è, dunque, naturalismo politico, che tende a umanizzare il divino e a naturalizzare il soprannaturale, pur non negandoli. Luteranesimo (soprannaturalismo esagerato, che disprezza la natura) e machiavellismo (naturalismo radicale, che fa a meno della grazia) sono le due facce opposte di una stessa medaglia.

L’uomo di Stato o il Principe, secondo Machiavelli, dirigendo lo Stato verso il suo fine: la felicità e la sicurezza puramente naturali dei cittadini, deve prendere, in teoria e in pratica, soltanto quei mezzi che risultano migliori per il suo scopo, che è la “ragion di Stato”, indipendentemente dalla legge morale oggettiva e universale anche se non forzatamente contro di essa, ma eventualmente sì, ove esse entrino in contrasto. Secondo il politico fiorentino esiste solo la natura e non la grazia, la quale tuttavia può aiutare i cittadini a vivere nell’obbedienza al Principe, mentre per Lutero solo la grazia può integrare la natura intrinsecamente corrotta e malvagia.

L’errore fondamentale della nuova politica machiavellica consiste nel voler sostituire alla morale oggettiva e naturale gli interessi dello Stato e del Principe. Come Lutero ha introdotto il soggettivismo in religione, Cartesio in filosofia, Machiavelli lo introduce nella politica. Giustamente i tomisti del Cinquecento[3] vedono nel machiavellismo, pur essendo in sé naturalista, la conclusione pratica in campo sociale del soggettivismo nominalista luterano. Lo stesso insegnano Domingo Bañez, S. Roberto Bellarmino e Francisco Suarez[4] assieme al Nostro Pedro de Ribadeneyra[5] e ad Antonio Possevino[6].

Nel De regimine principum (lib. I, cap. 15) di San Tommaso d’Aquino, ripreso e commentato dai tomisti del Cinquecento[7] in funzione antimachiavellica, si spiega che “la Società civile o politica è come una nave, la cui navigazione ha due aspetti: solcare il mare e portare i passeggeri in porto. Ossia la politica e il bene comune o sociale hanno un duplice compito: immanente (navigare) e trascendente (giungere al Cielo)”. La “Civiltà cristiana” ha come fine immediato il benessere comune temporale e sociale dei cittadini, ma il suo Fine ultimo è il Sommo Bene (De regimine principum, lib. I, cap. 16). La politica rappresenta il fine intermedio; perciò va coltivata, ma non bisogna fermarsi ad essa (S. Th., II-II, q. 58, a. 5).

Il bene dell’uomo o il suo Fine ultimo personale e il bene comune sociale e temporale sono ordinati mutuamente tra di loro e, in un certo senso, vengono a coincidere (S. Th., I-II, q. 21, a. 4, ad 3). Il bene sociale, politico o comune non può non ordinarsi, come il fine prossimo a quello ultimo, al bene trascendente ed infinito dell’uomo, che è Dio[8].

L’uomo non può vivere da solo[9], ma ha bisogno di altri esseri umani per formare prima una Società imperfetta (la famiglia) e poi una Società perfetta (lo Stato, che è l’unione di più famiglie e di più villaggi). Naturalmente l’uomo è animale razionale e sociale (ossia intelligente, libero e vivente in società o pòlis). Rifiutare l’elemento politico o sociale dell’uomo è innanzitutto un errore filosofico o antropologico, che ha una falsa concezione metafisica della natura dell’uomo. Infatti se l’uomo in sé è intrinsecamente corrotto, la Società (familiare, sociale e religiosa), che risulta dall’unione di più uomini sotto un’autorità, è anch’essa intrinsecamente malvagia; inoltre anche la Chiesa nel suo aspetto giuridico e gerarchico è perversa come lo è lo Stato.

L’uomo è composto di anima e di corpo. Essendo la sua anima razionale, egli è fatto per vivere a contatto con gli altri, non è un animale solivago, come volevano gli umanisti, i luterani e i nominalisti confutati dai tomisti del Cinquecento. Egli deve avere Dio ‘al di sopra’, gli uomini ‘accanto’ e la terra ‘sotto i piedi’. Ossia deve essere realista (con i piedi per terra), religioso (Dio è il Fine ultimo trasendente) e socievole (vivere assieme agli altri uomini). La famiglia, per esempio, che è una Società imperfetta, suppone il corpo dell’uomo orientato alla generazione, fine primario del matrimonio, ma la generazione deve essere seguìta dall’educazione, che sorpassa la vita animale e corporea in quanto riguarda quella razionale ed è ordinata ultimamente al fine spirituale.

Lo stesso si può dire della Società civile e dello Stato. San Tommaso d’Aquino spiega che “agli animali la natura ha dato i peli, i denti, le corna, la velocità per fuggire. L’uomo, invece, dalla natura non è stato formato con nessuno di questi mezzi già pronti; ma al posto di quelli gli è stata data la ragione, per mezzo della quale può procurarsi tutte queste difese. Però per far ciò non basta il lavoro di un solo uomo, perché il singolo non basta a sé per vivere. Perciò è naturale per l’uomo vivere in Società […] affinché uno aiuti l’altro, e diversi uomini siano occupati nella ricerca di cognizioni diverse”[10].

La Società civile è l’unione morale e stabile di più famiglie e di più villaggi, che tendono al benessere comune temporale subordinato a quello spirituale. Essa nasce dalla necessità per l’uomo di conseguire il fine prossimo e ultimo, che non potrebbe conseguire se vivesse isolato. Per cogliere il fine occorre un mezzo o una strada che conduca ad esso: questa strada è il diritto naturale, che si può definire come il complesso di regole che si devono rispettare perché un uomo sia e resti autenticamente uomo, ossia “animale razionale” (Aristotele) e non “bestia istintiva e peccaminosa in sé” (Lutero).

La politica moderna (ossia il machiavellismo) è segnata, come il luteranesimo, da un grave errore: la separazione o la confusione (giacché ogni eccesso è un difetto e gli estremi, nelle eresie, si toccano) tra natura e Grazia, ragione e Fede, fine prossimo e Fine ultimo dello Stato. Il mondo moderno politicamente, specialmente con Machiavelli, considera solo il piano naturale (peraltro senza rispettarne l’ordine), ignorando quello soprannaturale, mentre con Lutero considera solo quello soprannaturale, che sarebbe dovuto di per sé alla natura, e senza la grazia tutto è peccaminoso.

Gli scolastici spagnoli del Cinquecento alla luce della retta ragione insegnano con Aristotele (Politica, V) e San Tommaso D’Aquino (De regimine principum, lib. I, cap. 14) che l’uomo per natura è socievole o “animale sociale”, fatto per vivere non da solo, ma in Società. Ora se per natura –  creata da Dio – l’uomo è socievole, la Società familiare e civile sono creature e opere di Dio. Quindi anch’esse devono adorarlo e prestargli il culto col quale Egli vuole essere adorato. Perciò la famiglia e lo Stato devono essere sottomesse alla Chiesa che rappresenta Dio in terra. La separazione tra Stato e Chiesa, dunque, è contraria non solo alla divina Rivelazione (Tradizione e Scrittura), ma anche alla sana filosofia e alla retta ragione.

Il libro del Ribadeneyra aiuterà concretamente il lettore a far propri i princìpi della filosofia politica aristotelico/tomistica, della Seconda e Terza Scolastica e a disintossicarsi dal veleno del machiavellismo.

La seconda scolastica del Cinquecento spagnolo

Nel Cinquecento, soprattutto in Spagna,  rifiorì il tomismo e dette nascita alla seconda scolastica grazie ad un grande impegno dell’Ordine dei Domenicani e dei Gesuiti[11].

Il tomismo cinquecentesco dette nuovi contributi ed approfondimenti, alla luce della filosofia e teologia perenne di san Tommaso d’Aquino, specialmente quanto alla dottrina politica ed ecclesiologica per rispondere alle obiezioni (razionaliste) degli umanisti e (esageratamente soprannaturaliste con un conseguente disprezzo della natura) dei luterani, i quali avevano ribaltato la concezione aristotelico/tomistica della politica e quella patristica/scolastica sulla natura della Chiesa di Cristo.

Umanesimo rinascimentale e luteranesimo

Il naturalismo umanistico/rinascimentale e il nominalismo luterano avevano prodotto una dottrina nuova ed erronea sia quanto alla natura della Società civile (filosofia politica), sia quanto alla natura della Società religiosa, ossia la Chiesa (teologia ecclesiologica).

Il nominalismo ritiene che i concetti universali e la natura o essenza reale non hanno nessuna realtà oggettiva fuori della mente  pensante; l’unica realtà extra-mentale è la cosa singolare, l’individuo: “nulla oltre l’individuo” è l’assioma che riassume e definisce il nominalismo.

In breve gli universali logici (nomi) e ontologici (essenze o nature) sono soltanto “pure voci”, senza consistenza ontologica né logica, di cui ci serviamo per indicare gli individui reali, che si assomigliano tra di loro[12].

L’individualismo del nominalismo di Occam († 1349) applicato alla teologia sulla Chiesa produce una dottrina ecclesiologica protestantica e modernistica. La seconda scolastica si trovò, così, a confutare errori di natura politica, teologica (ecclesiologica e sacramentaria) che affondavano le radici in maniera remota già nel donatismo del IV secolo. I tomisti del Cinquecento, tra cui Pedro de Ribadeneyra basandosi sulla dottrina dell’Aquinate, seppero rispondere alle apparentemente “nuove” obiezioni, in realtà vecchie di circa 1000 anni, e apportarono un nuovo arricchimento alla dottrina cattolica riguardo ai Sacramenti, alla Chiesa e alla politica.

Occam, “anticipando un metodo che sarà praticato sistematicamente da Lutero, Calvino, Zwingli ed anche dai più recenti critici delle strutture ecclesiastiche (v. Hans Küng), elimina tutte le acquisizioni dottrinali accumulate dalla Tradizione, per richiamarsi esclusivamente agli insegnamenti delle Lettere di San Paolo e agli altri scritti neotestamentari (Dialogus, I, 1, cc. 1-6). Gli asserti del Nuovo Testamento e la vita della Chiesa primitiva rappresentano per Occam il solo termine di paragone per giudicare di fede e di verità (Dialogus, I, 1, c. 5)” (B. Mondin, Storia della Teologia, Bologna, ESD, 1996, vol. II, p. 493).

Il cardine dell’ecclesiologia occamista è che i fedeli sono il primo soggetto della verità salvifica e non la Chiesa gerarchica (Dialogus, I, 5, 29; ivi, I, 1, 4; Octo quaestiones, VII, 117; Opus nonaginta dierum, c. 6).

Questo principio è la conseguenza logica del soggettivismo individualista di Occam. Come non vi sono nature ed essenze, ma solo individui; così non vi è una Chiesa gerarchica e giuridicamente strutturata, ma vi sono i singoli fedeli e neppure uno Stato. “La Chiesa di Occam ha la sua realtà negli individui credenti che la compongono. Questa teoria ecclesiologica è perfettamente in linea con i princìpi fondamentali della filosofia occamista tutta incentrata sul singolare, sull’individuo e fortemente allergica verso tutto ciò che è comune: l’universale, il necessario. […]. L’esigenza delle varie strutture, inclusa quella del suo Capo visibile, il Papa, viene fortemente ridimensionata” (B. Mondin, cit., p. 494).

In filosofia politica la modernità individualista e soggettivista (G. Occam † 1349, N. Machiavelli † 1527, T. Hobbes † 1679, J. Locke † 1704, J. Jacques Rousseau † 1778) ribalta la dottrina sulla natura socievole dell’uomo e lo presenta come un individuoapolitico” o “asociale” poiché la natura o l’essenza universale e stabile sono inesistenti per la modernità, che è figlia del nominalismo occamista. Quindi l’ordine sociale e politico non è più un dato naturale, ma un qualcosa di artificiale e soggetto a manipolazioni individuali e soggettivistiche umane (v. Hobbes e Rousseau).

Invece secondo Aristotele e la prima, seconda e terza scolastica soltanto nella Società civile o politica e non da solo, individualisticamente o isolatamente, l’uomo perviene alla realizzazione piena e perfetta delle sue potenzialità. Onde l’uomo è “animale socievole per natura[13].

L’anarchia civile

Se - come dicono i luterani - il peccato originale ha veramente distrutto la natura umana, la sua capacità conoscitiva ed il libero arbitrio, allora l’uomo non può conoscere la verità, la natura delle cose e la legge naturale inscritta nel suo intelletto. Inoltre non è più individualmente libero di fronte al vizio, da cui è invincibilmente attratto, e politicamente davanti all’anarchia, dalla quale è immancabilmente vinto.

La politica umana, secondo i luterani, è intrinsecamente perversa, quindi non può erigere un governo, su basi razionali o filosofiche, capace di costruire una Società civile che si uniformi alla legge naturale, la quale non è conoscibile naturalmente. Infatti come la natura dell’individuo è corrotta totalmente, così la Società civile non può edificarsi naturalmente, ma deve essere istituita solo da Dio e soprannaturalmente.

I Dottori scolastici del Cinquecento di fronte all’eresia luterana che rendeva la Chiesa invisibile e puramente spirituale facevano un’analogia 1°) con la Persona divina di Cristo sussistente in due nature: una divina e l’altra umana e 2°) con la Società civile. Quindi confutavano sia l’eresia ecclesiologica protestantica (come i Padri del V secolo avevano confutato l’eresia monofisita, che attribuiva a Gesù una sola natura divina), sia l’errore politico naturalista degli umanisti e di Machiavelli. Infatti come Gesù è vero Dio e vero uomo, come l’uomo è composto di anima e di corpo (se fosse solo anima sarebbe un fantasma, se fosse solo corpo sarebbe un cadavere), così lo Stato ha una natura visibile, giuridica e gerarchica, la Chiesa inoltre ha pure una realtà spirituale, soprannaturale ed invisibile, essa è un “Corpo Mistico”. Certamente il corpo e l’elemento visibile devono essere subordinati a quello spirituale, come il meno perfetto al più perfetto, ma hanno la loro reale sussistenza, che non deve essere negata. Secondo i luterani, invece, ogni potere politico deve essere soprannaturalmente predestinato e fondato direttamente da Dio, la natura umana essendo totalmente corrotta.

San Roberto Bellarmino scriveva: “la vera Chiesa di Cristo non è solo un’entità invisibile composta da anime in grazia, ma è una società giuridica, gerarchica e visibile analogamente al regno di Francia o alla repubblica di Venezia. Certamente la Chiesa ha un fine, un principio e dei mezzi soprannaturali per aiutare i fedeli a conseguire il Paradiso, ma anche i regni temporali debbono essere ordinati ad aiutare la Chiesa alla salvezza delle anime, facendo leggi conformi a quella naturale e divina. Essendo la Chiesa un corpo visibile e assieme mistico deve esser diretta da un capo visibile in terra (Papa) e invisibile in cielo (Cristo)”[14]. Parimenti lo Stato deve avere un capo che possa far leggi conformi a quella naturale per governare i sudditi e garantire loro il benessere comune temporale, subordinatamente a quello spirituale.

Se così non fosse “i piedi potrebbero dire alla testa noi non abbiamo bisogno di te”[15].

La conseguenza logica del luteranesimo teologico è l’anarchia e la rivoluzione cruenta in campo politico. I Dottori del Cinquecento furono lucidi e logici “profeti” dacché di lì a pochi anni scoppiò la guerra dei contadini in Germania, dopo 150 anni circa scoppiarono le due rivoluzioni inglesi e dopo altri cento anni - grosso modo -quella francese, seguìta dopo un secolo da quella bolscevica (1917). Infatti, in logica, a partire da certe premesse non si può non giungere a certe conclusioni.  Il luteranesimo teologico è padre dell’anarchismo, della rivolta e della sovversione in campo politico. “Dietro i sofismi filosofici vengono le eresie teologiche e dopo le eresie è il turno del boja” (Donoso Cortès). Ogni rivoluzione sociale è preceduta da un’eresia e questa da un errore filosofico.

Il baianismo

L’errore luterano è correlativo a quello di Michel de Bay (detto Baio[16]), professore all’Università di Lovanio nella seconda metà del Cinquecento. Egli come Lutero confondeva ordine naturale e soprannaturale. La sua dottrina era ereticale, ma egli si sottomise, a differenza di Lutero, all’autorità della Chiesa. I capisaldi del baianismo sono i seguenti: 1°) la giustizia originale (grazia abituale e doni preternaturali) è propria dell’uomo, quindi dovuta a lui come sua parte naturalmente integrante e non gratuita[17]; 2°) il peccato originale ha devastato completamente  la natura umana, specialmente la ragione e la volontà. Quindi l’uomo è invincibilmente schiavo del male e del peccato. La concupiscenza non è solo una tendenza al male, che se non è assecondata non è peccaminosa in atto, ma è peccato in sé; 3°) l’uomo decaduto non può fare alcun bene neppure naturale, se non gli si ridà la grazia, che è una forza integrante e integrativa della natura, cui dà la capacità di fare atti naturalmente buoni. Dunque senza la grazia l’uomo non può che fare atti naturali intrinsecamente cattivi; 4°) l’uomo o si trova sotto l’impero della grazia ed allora tutte le sue azioni sono buone e degne della vita eterna, oppure si trova sotto il dominio della concupiscenza e quindi tutte le sue azioni sono peccaminose. Le opere naturalmente rette di un pagano sono apparentemente buone, ma realmente peccaminose. Baio, avendo approfondito il tema luterano del pessimismo, è un precursore del giansenismo. San Pio V, nel 1567, condannò 79 proposizioni estratte dagli scritti di Baio (DB 1001-1080). Baio esteriormente si sottomise, ma (da vero precursore dei giansenisti e dei modernisti) rimase interiormente attaccato alle sue opinioni, negando l’infallibilità pontificia. Anche l’immanentismo religioso modernista si ricollega per alcuni versi al baianismo.

Contro anche queste dottrine baianiste si erse la seconda scolastica. Francisco Suarez affermò chiaramente che “è possibile all’uomo, individualmente e socialmente, conoscere e seguire la legge naturale”[18]. Domingo de Soto riaffermò che “la natura umana è rimasta integra, sebbene ferita dal peccato originale”[19]. San Roberto Bellarmino ribadì le medesime dottrine[20].

I Dottori della seconda scolastica videro, dunque, la conclusione politica di tale eresia sulla grazia: la teoria del “Principe santo” e del “trono-vacantismo”, secondo cui ogni potere politico ed ogni vero governante debbono essere fondati sulla santità e la grazia spirituale, senza le quali non sussistono poteri e governanti civili[21]. Anche Suarez insegna che “il potere di far leggi non dipende  dalla fede o dalla moralità del Principe, altrimenti si arriverebbe alla anarchia sovversiva di ogni autorità”[22].

Altre conseguenze sociali del soggettivismo luterano

Un’altra conclusione in campo sociale e politico di questa eresia sulla grazia è quella secondo cui gli ordini di un governante non santo non sono vincolanti e possono essere non obbediti; Vangelo e potere politico sarebbero inevitabilmente in disaccordo poiché il potere politico è intrinsecamente perverso, come la natura umana è distrutta dal peccato originale. Vitoria[23], Soto[24] e Suarez[25] ed anche il domenicano cardinal Tommaso de Vio detto Cajetanus[26], affrontano questi errori e li confutano, facendoli risalire all’Umanesimo riproposto nella seconda metà del XVI secolo da Erasmo da Rotterdam in maniera meno radicale che da Lutero. Secondo tali dottrine la Chiesa e il Trono sarebbero vacanti di autorità umana e ripieni solo di grazia e santità, ma ciò porterebbe all’anarchia sociale e religiosa poiché l’uomo è fatto di anima e di corpo, di intelletto e sensi, non vede la grazia e la santità, che son note solo a Dio, ed ha bisogno di un’autorità visibile cui obbedire per essere governato nelle cose temporali (Stato) e spirituali (Chiesa).

L’anarchia civile, secondo i tomisti del Cinquecento, è figlia della dottrina teologica luterana della Chiesa come comunità dei soli santi; dunque dal luteranesimo nascerebbe immancabilmente la rivoluzione sociale, come realmente avvenne in Inghilterra (1648, 1688) e in Francia (1789).

Lo schiavismo

Lo schiavismo e la colonizzazione selvaggia erano anch’essi una conseguenza di tali dottrine luterane. Il loro ideatore fu Juan Ginés de Sepùlveda (1490-1573)[27], che aveva studiato diritto e lettere antiche in Bologna. Secondo lui gli indigeni delle Americhe, non avendo la fede e la santità, potevano essere ridotti in schiavitù, in quanto senza la grazia non avevano neppure una natura integra e quindi non potevano governare sé stessi poiché più simili alle bestie che agli uomini. Come si vede egli si rifà all’eresia luterana secondo cui qualsiasi vera Società (civile e spirituale) deve essere fondata sulla santità.

Naturalmente  i tomisti del Cinquecento confutarono anche questa dottrina alla luce degli insegnamenti sulla grazia, la giustificazione e la Chiesa come venivano affrontati, proprio allora, dal Concilio di Trento (1545-1563)[28].

Il machiavellismo e de Ribadeneyra

Un altro errore che preoccupava gli scolastici del Cinquecento era il machiavellismo.

Machiavelli (1469-1527) è il pensatore che ha teorizzato in maniera sistematica l’autonomia della politica dalla morale. Secondo Machiavelli politica e morale non debbono combattersi, ma neppure essere subordinatamente coordinate (agnosticismo sociale).

Esse, per Machiavelli, esistono indipendentemente e separatamente l’una dall’altra e debbono ignorarsi senza farsi guerra. Il machiavellismo è una sorta di indifferentismo o agnosticismo politico. Non è la lotta contro la morale, ma è il non volersi porre il problema etico e dunque agire in società, ossia politicamente, come se la morale oggettiva non esistesse per il Principe.

La morale agnostica vuol ignorare e non combattere ogni oggetto da cui l’uomo possa dipendere e rifiuta di porsi il problema della verità. L’agnosticismo non nega per principio o teoreticamente il Trascendente, come fa l’ateismo militante, ma è indifferente, non se ne cura, anzi afferma che in pratica è meglio non pensarci.

Per il machiavellismo la morale non è cattiva in sé, ha la sua ragion d’essere, ma solo nel suo campo etico e religioso e non deve assolutamente interferire nel governo dello Stato. Così la politica ha il suo fine unicamente nel campo sociale puramente naturale, facendo astrazione (senza negarle esplicitamente) dalla morale, dalla religione e da Dio.

Machiavelli separa, senza metterli in guerra esplicita, l’ordine naturale dall’ordine soprannaturale, la politica dalla morale, l’uomo sociale da Dio. Il machiavellismo è, dunque, naturalismo politico, che tende ad umanizzare il divino e a naturalizzare il soprannaturale, pur non negandoli. Luteranesimo (soprannaturalismo esagerato, che disprezza la natura) e machiavellismo (naturalismo radicale, che fa a meno della grazia) sono le due facce opposte di una stessa medaglia.

L’uomo di Stato o il Principe, secondo Machiavelli, dirigendo lo Stato verso il suo fine: la felicità e la sicurezza puramente naturali dei cittadini, deve prendere, in teoria e in pratica, soltanto quei mezzi che risultano migliori per il suo scopo, che è la “ragion di Stato”, indipendentemente dalla legge morale oggettiva e universale anche se non forzatamente contro di essa, ma eventualmente sì, ove esse entrino in contrasto. Secondo il Fiorentino esiste solo la natura e non la grazia, la quale tuttavia può aiutare i cittadini a vivere nell’obbedienza al Principe, mentre per Lutero solo la grazia può integrare la natura intrinsecamente corrotta e malvagia.

L’errore fondamentale della nuova politica machiavellica consiste nel voler sostituire alla morale oggettiva e naturale e alle regole oggettive di essa gli interessi dello Stato e del Principe. Come Lutero ha introdotto il soggettivismo in religione, Cartesio in filosofia, Machiavelli lo introduce nella politica. Giustamente i tomisti del Cinquecento[29] vedono nel machiavellismo, pur essendo in sé naturalista, la conclusione pratica in campo sociale del soggettivismo nominalista luterano. Lo stesso insegnano Domingo Bañez, Roberto Bellarmino e Francisco Suarez[30] assieme a Pedro de Ribadeneyra[31] e ad Antonio Possevino[32].

Nel De regimine principum (lib. I, cap. 15) di san Tommaso, ripreso e commentato dai tomisti del Cinquecento[33] in funzione antimachiavellica, si spiega che “la Società civile o politica è come una nave, la cui navigazione ha due aspetti: solcare il mare e portare i passeggeri in porto. Ossia la politica e il bene comune o sociale hanno un duplice compito: immanente (navigare) e trascendente (giungere al Cielo)”. La “Civiltà cristiana” ha come fine immediato il benessere comune temporale e sociale dei cittadini, ma il suo Fine ultimo è il Sommo Bene (De regimine principum, lib. I, cap. 16). La politica rappresenta il fine intermedio; perciò va coltivata, ma non bisogna fermarsi ad essa (S. Th., II-II, q. 58, a. 5).

Il bene dell’uomo o il suo Fine ultimo personale e il bene comune sociale e temporale sono ordinati mutuamente tra di loro e, in un certo senso, vengono a coincidere (S. Th., I-II, q. 21, a. 4, ad 3). Il bene sociale, politico o comune non può non ordinarsi come il fine prossimo a quello ultimo, al bene trascendente ed infinito dell’uomo, che è Dio[34].

L’uomo non può vivere da solo[35], ma ha bisogno di altri esseri umani per formare prima una società imperfetta (la famiglia) e poi una Società perfetta (lo Stato, che è l’unione di più famiglie e di più villaggi). Naturalmente l’uomo è animale razionale e sociale (ossia intelligente, libero e vivente in società o pòlis). Rifiutare l’elemento politico o sociale dell’uomo è innanzitutto un errore filosofico o antropologico, che ha una falsa concezione metafisica della natura dell’uomo. Infatti se l’uomo in sé è intrinsecamente corrotto, la Società (familiare, sociale e religiosa), che risulta dall’unione di più uomini sotto un’autorità, è anch’essa intrinsecamente malvagia; inoltre anche la Chiesa nel suo aspetto giuridico e gerarchico è perversa come lo è lo Stato.

L’uomo è composto di anima e di corpo. Essendo la sua anima razionale, egli è fatto per vivere a contatto con gli altri, non è un animale solìvago, come volevano gli umanisti, i luterani e i nominalisti confutati dai tomisti del Cinquecento. Egli deve avere Dio ‘al di sopra’, gli uomini ‘accanto’ e la terra ‘sotto i piedi’. Ossia deve essere realista (con i piedi per terra), religioso (Dio è il Fine ultimo trascendente) e socievole (vivere “orizzontalmente” assieme agli altri uomini). La famiglia, per esempio, che è una Società imperfetta, suppone il corpo dell’uomo orientato alla generazione, fine primario del matrimonio, ma essa deve essere seguìta dall’educazione, che sorpassa la vita animale e corporea in quanto riguarda quella razionale e ordinata ultimamente al fine spirituale.

Lo stesso si può dire della Società civile e dello Stato. San Tommaso d’Aquino spiega che “agli animali la natura ha dato i peli, i denti, le corna, la velocità per fuggire. L’uomo, invece, dalla natura non è stato formato con nessuno di questi mezzi già pronti; ma al posto di quelli gli è stata data la ragione, per mezzo della quale può procurarsi tutte queste difese. Ma per far ciò non basta il lavoro di un solo uomo, perché il singolo non basta a sé per vivere. Perciò è naturale all’uomo vivere in Società […] affinché uno aiuti l’altro, e diversi uomini siano occupati nella ricerca di cognizioni diverse”[36].

La Società civile è l’unione morale e stabile di più famiglie e più villaggi, che tendono al benessere comune temporale subordinato a quello spirituale. Essa nasce dalla necessità per l’uomo di conseguire il fine prossimo e ultimo, che non potrebbe conseguire se vivesse isolato. Per cogliere il fine occorre una strada che conduca ad esso: questa strada è il diritto naturale, che si può definire come il complesso di regole che si devono rispettare perché un uomo sia e resti autenticamente uomo, ossia “animale razionale” (Aristotele) e non “bestia istintiva e peccaminosa in sé” (Lutero).

La politica moderna (ossia il machiavellismo) è segnata, come il luteranesimo, da un grave errore: la separazione o la confusione (giacché ogni eccesso è un difetto e gli estremi, nelle eresie, si ricongiungono) tra natura e Grazia, ragione e Fede, fine prossimo e Fine ultimo dello Stato. Il mondo moderno politicamente, specialmente con Machiavelli, considera solo il piano naturale (peraltro senza rispettarne l’ordine), ignorando quello soprannaturale, mentre con Lutero considera solo quello soprannaturale, che sarebbe “dovuto” alla natura e non “gratuito”, e senza la grazia tutto è peccaminoso. Luteranesimo e machiavellismo sono le due facce contrapposte di una stessa medaglia.

Gli scolastici spagnoli del Cinquecento alla luce della retta ragione insegnano con Aristotele (Politica, V) e San Tommaso D’Aquino (De regimine principum, lib. I, cap. 14) che l’uomo per natura è socievole o “animale sociale”, fatto per vivere non da solo, “silvestre e solìvago”, ma in Società prima imperfetta, (la famiglia) e poi perfetta (lo Stato). Ora se per natura – che è creata da Dio – l’uomo è socievole, la Società familiare e civile sono creature ed opere di Dio. Quindi anch’esse devono adorarlo e prestargli il culto col quale Egli vuole essere adorato. Perciò la famiglia e lo Stato devono essere sottomesse alla Chiesa che rappresenta Dio in terra. La separazione tra Stato e Chiesa, dunque, non solo è contraria alla divina Rivelazione (Tradizione e Scrittura), ma anche alla sana filosofia e alla retta ragione.

La legge naturale è conoscibile dalla ragione umana

Gli scolastici cinquecenteschi insistono molto sulla dottrina tomistica secondo cui la ragione umana è rimasta integra sebbene ferita (“homo est vulneratus in naturalibus facultatis, spoliatus gratuitis donibus, sed natura mansit integra”). Quindi non solo il singolo uomo può conoscere la natura delle cose e la legge naturale, ma può fondare delle Società imperfette (famiglia) e perfette (Stato) fondate sulla legge naturale e strumenti utili per conseguire il fine temporale subordinatamente a quello spirituale poiché Dio ha creato l’uomo e lo ha sopraelevato all’ordine soprannaturale e quindi non si può disgiungere la natura dalla grazia, anzi, - riprendendo l’Aquinate - “la grazia non distrugge la natura, ma la presuppone e la perfeziona” (S. Th., I, q. 1, a. 8, ad 2).

Insomma il potere politico non necessariamente deve essere infuso soprannaturalmente da Dio per essere legittimo poiché la natura non è intrinsecamente perversa, come vorrebbero i luterani. Quindi la società politica o civile non deve essere instaurata solo direttamente e soprannaturalmente da Dio.  Francisco de Vitoria esclude categoricamente che “la vera e legittima sovranità politica deve essere basata sempre sulla grazia”[37] e accomuna tale dottrina all’eresia proto-luterana di Wyclif e Hus.

Conclusione

Se ci si basa anche solamente sul buon senso o la retta ragione naturale si può facilmente capire quanto sia falso il sistema filosofico naturalistico dell’umanesimo e la dottrina esageratamente soprannaturalistica luterana, che sono i due  opposti errori (per eccesso e per difetto) i quali son distesi come due burroni a destra e a sinistra di una vetta (la retta ragione elevata a filosofia da Aristotele e san Tommaso d’Aquino, secondo cui “la grazia non distrugge la natura, ma la presuppone e la perfeziona”[38]).

Secondo il luteranesimo la natura umana è totalmente corrotta. Quindi l’uomo non ha le capacità raziocinative per conoscere la verità e la natura delle cose, inoltre la volontà è stata talmente erosa che l’uomo ha perso la libertà.

Ma se osserviamo i fatti che riguardano la vita raziocinativa e la libera volontà umana dobbiamo asserire che l’intelletto umano conosce la natura delle cose e che la volontà è libera di fare il bene o il male. Infatti se nego la possibilità di raggiungere la verità o di conoscere la realtà oggettiva che mi circonda non posso avere nessuna certezza e debbo dubitare di tutto, ma nel momento in cui dubito di tutto non dubito della mia affermazione secondo cui bisogna dubitare, la quale contraddittoriamente per me è una certezza. Invece se fossi coerente dovrei dubitare anche che io dubiti. Quindi la certezza di dover dubitare è in contraddizione con lo scetticismo. L’esperienza dei fatti mi fa constatare, per esempio, di sapere con certezza che un “triangolo ha tre angoli e un quadrato quattro e che il triangolo non è un quadrato”. Questo è un fatto è un principio primo per sé evidente che non è possibile negare, si mostra e non si dimostra essendo evidente. Contro il fatto non vale nessuna argomentazione che lo nega[39]. Per quanto riguarda la libertà l’esperienza mi fa constatare che quando voglio un oggetto (un gelato, un libro, una bicicletta…) sono cosciente di non essere necessitato da esso (posso benissimo non volerli o non prenderli o non usarli anche se mi piacciono). Inoltre ho la coscienza e la constato con certezza che, pur se mi piace di più il vino, posso scegliere l’acqua.

La conseguenza socio/politica di questi errori è la negazione della bontà di ogni Società umana (famiglia /Stato) e della natura anche gerarchica della Chiesa. La radice di questo errore va ricercata nel nominalismo individualista secondo il quale non esistono essenze e nature ma solo individui. Ora l’individualismo porta a propugnare la rivolta contro ogni autorità, non solo quella statale, ma anche umana e divina per arrivare all’autonomia assoluta dell’individuo. La sua natura è l’autonomia dell’individuo e la società senza autorità umana e divina. Esso fa dell’individuo l’Assoluto, del mezzo il fine e della creatura il Creatore. Ma l’individualismo nominalista è contraddetto dagli stessi filosofi soggettivisti e idealisti almeno nella vita pratica. Essi quando fanno i filosofi, salgono in cattedra, in teoria propugnano l’idealismo o il soggettivismo individualista della conoscenza e dell’etica, ma in pratica agiscono, e quindi pensano, da realisti.

Conoscere significa apprendere qualcosa come un oggetto il quale sta davanti a me indipendentemente dal mio pensiero (ob-jacet). Non sono io che produco col mio pensiero questo oggetto che giace (jacet) davanti (ob) a me. Ora “l’azione segue l’essere e il modo di agire segue il modo d’essere”. Quindi conosco e agisco in base ad una realtà e a leggi oggettive.

Ogni uomo normale si rende conto che non è il suo pensiero a produrre la realtà e la morale, ma si tratta di una realtà e di una regola morale già costituita in se stessa prima che egli la conosca.

Quindi lo Stato, essendo un insieme di famiglie che si uniscono e formano un villaggio e poi più villaggi formano una Civitas o una Polis, è conforme alla natura umana, la quale è fatta per vivere socialmente in unione con gli altri (famiglia, villaggio e Stato). Infatti l’uomo da solo non riuscirebbe a conseguire il suo fine temporale o naturale, ma ha bisogno della Società.

Per quanto riguarda la Chiesa non basta il buon senso naturale per respingere l’errore luterano, ma occorre la divina Rivelazione per capire qual è la natura della Religione fondata da Cristo. Qualsiasi persona che abbia un minimo di istruzione religiosa (Catechismo e lettura del Vangelo) sa che Gesù paragona la Chiesa ad un “ovile” e ad un “gregge” ben visibile, fatto di pecore, di agnelli e di pastore in carne ed ossa con tanto di recinto (Lc., XII, 32; Gv., X, 1); ad una “città sul monte” fatta di case e ben visibile da tutti (Mt., V, 14); ad un “albero sui cui si posano gli uccelli” fatto di radici, tronco, rami e fronde (Mc., IV, 30) .

Questo errore nell’èra moderna ha conosciuto due rami diversi e contrari, ma che si ricongiungono come le due facce di una stessa medaglia: il naturalismo machiavellico, che non tiene conto dell’aldilà, e il soprannaturalismo luterano, il quale reputa intrinsecamente perverso tutto ciò che è naturale.

La seconda scolastica, come “un nano sulle spalle di un gigante” (S. Tommaso d’Aquino e la prima scolastica), è riuscita a scorgere, a confutare questi errori, che già erano stati avanzati dal donatismo nel IV secolo, e a prevedere le loro conseguenze catastrofiche in maniera filosofico/teologica scientifica (il buon senso eretto a scienza filosofica, innalzato dalla luce della fede a scienza teologica).

Oggi quando gli errori della modernità (XV-XIX secolo) sono giunti al parossismo nichilistico della post-modernità (XX secolo) si può e si deve tornare a San Tommaso come nel Cinquecento la seconda scolastica grazie all’Aquinate poté operare la vera controriforma e restaurare gli individui, la società e la Chiesa.

Dalla restaurazione della metafisica e del realismo della conoscenza dipende anche la restaurazione della morale naturale, della filosofia politica ed economica, le quali ci aiutano ad essere veramente uomini, intelligenti e liberi e ci impediscono di farci travolgere dalla marea montante della sovversione neoliberistica e nichilistica, le quali rendono l’uomo simile al bruto, schiavo e determinato dai suoi istinti più bassi.

d. Curzio Nitoglia



[2] P. De Ribadeneyra, Il principe cristiano, Siena, Cantagalli, 1978, I vol.,  Introduzione a cura di P. Caucci, p. 23.

[3] Cfr. C. Giacon, La seconda scolastica. I grandi commentatori di S. Tommaso, Milano, Bocca, 1944; C. Vasoli, Il pensiero politico della scolastica, in “Storia delle idee politiche, economiche e sociali”, diretta da L. Firpo, Torino, Utet, 1983.

[4] D. Bañez, In IIam-IIae, q. 64, a. 3, concl. 1, Opera, Salamanca, 1584-1612; R. Bellarmino, De jure et justitia, Liegi, 1746-51, dissert. X, a.2, ad 3um; F. Suarez, Defensio fidei, lib. VI, cap IV, §15, Colonia, 1614.

[5] Il Principe cristiano, Siena, Cantagalli, 2 voll., 1978.

[6] A. Possevino, Iudicium… Ioannis Bodini, Philippi Mornaei et Nicolai Machiavelli quibusdam scriptis, Lione, 1594, p. 209.

[7] F. de Vitoria, De potestate civili, p. 177; R. Bellarmino, De membris Ecclesiae, III, p. 10; F. Suarez, De legibus ac de legislatore, I, pp. 165-166.

[8] La dottrina politica tomistica e della seconda e terza scolastica è stata ripresa costantemente dal Magistero della Chiesa a partire da Gregorio XVI nella condanna del cattolicesimo liberale (Enciclica Mirari vos, 1832) sino a Pio XII, che nel - 1941 - scriveva: “Dalla forma data alla Società, a seconda che sia in accordo o no con le Leggi divine, dipende il bene o il male delle anime. Dinanzi a questa considerazione e previsione, come potrebbe essere lecito per la Chiesa […] rimanere spettatrice indifferente davanti ai pericoli a cui vanno incontro i suoi figli, tacere o fingere di non vedere situazioni che […] rendono difficile o praticamente impossibile una condotta di vita cristiana?” (Pio XII, Radiomessaggio La solennità, Pentecoste 1941).

[9] F. de Vitoria, De potestate civili, p. 117; R. Bellarmino, De membris Eccclesiae, III, p. 6 e 9; F. Suarez, De legibus ac de legislatore, I, p. 165; L. Molina, De justitia et de jure libri sex, p. 1075.

[10] De Regimine principum, lib. I, cap. 1.

[11] Anche se quest’ultimi, seguendo Suarez, in metafisica si sono allontanati dal tomismo genuino, negando la distinzione reale di essere ed essenza.

[12] G. Occam, In Ium Sent., 2, 4; In IIum Sent., 5; Quodl., V, 14; In Ium Sent., 2, 8.

[13] Aristotele, Politica, lib. I, 1253a.

[14] De potestate Pape et Concilii, II, pp. 317-318.

[15] F. de Vitoria, De potestate Ecclesiae, p. 132. Già nell’antichità pagana Tito Livio scriveva: “Una volta le membra dell’uomo, constatando che lo stomaco se ne stava ozioso, ruppero gli accordi con lui e cospirarono dicendo che le mani non avrebbero portato cibo alla bocca, né che la bocca lo accettasse, né che i denti lo masticassero a dovere. Ma mentre cercavano di domare lo stomaco, s’indebolirono anche loro stesse, e il corpo intero deperì. Di qui si vede come il compito dello stomaco non è quello di un pigro, ma che esso distribuisce il cibo a tutti gli altri organi. Fu così che le varie membra del corpo tornarono in amicizia tra loro e con lo stomaco. Così Senato e Popolo, come se fossero un unico corpo, deperiscono con la discordia, mentre con la concordia restano in buona salute” (Ab Urbe condita, II, 32). Inoltre San Paolo rivela: «Molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Né l’occhio può dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi […]. Anzi quelle membra che sembrano più umili sono le più necessarie. […]. Dio ha composto il corpo affinché non vi fosse disunione in esso, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tute le membra soffrono insieme; e se un membro sta bene, tutte le altre gioiscono con lui» (1 Cor., XII, 4-20).

[16] Cfr. F. X. Jansen, Baius et le baianisme, Lovanio, 1927.

[17] Henri de Lubac e neo-modernisti non hanno inventato nulla, già nel Cinquecento Baio aveva teorizzato l’errore contenuto nel libro Surnaturel (Parigi, 1946) di Henri de Lubac e S. Pio V nel XVI secolo aveva condannato Baio come Pio XII condannava Lubac nel 1946/1950.

[18] De legibus ac de legislatore, I, p. 65.

[19] Libri decem de justitia et jure, folio 244a.

[20] De Iustificatione, in Opera Omnia, cit., vol. VI, p. 172 e 178.

[21] Roberto Bellarmino, De Conciliis, III, p. 14.

[22] De legibus ac de legislatore, I, p. 190 e 327.

[23] De potestate civili, cit., II, p. 186.

[24] Libri decem de justitia et jure, folio 247b.

[25] De justitia et jure libri sex, p. 1870 e 1876.

[26] De comparata auctoritate Papae et Concilii, Lione, 1541.

[27] Cfr. G. Jarlot, Les idées politiques de Suarez et le pouvoir absolu, in «Archives de Philosophie», n. 18, 1949, p. 71 ss. ; Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, Bologna, Il Mulino, 2 voll., 1989.

[28] Parimenti, nel V secolo, papa Stefano I e s. Agostino d’Ippona confutarono l’eresia donatista, la quale sosteneva che 1°) la Chiesa è la Società dei soli santi e che 2°) i Sacramenti amministrati dai peccatori o dagli eretici sono invalidi, gettando così i fedeli nell’anarchia e nel soggettivismo sacramentale ed ecclesiologico (dubbio teologico metodico, ripreso in filosofia da Cartesio circa 1000 anni dopo). Inoltre il donatismo sosteneva che 3°) ogni potere politico è malvagio e non può mai collaborare, neppure in subordinazione, con la Chiesa la quale è fatta di soli Santi.

[29] Cfr. C. Giacon, La seconda scolastica. I grandi commentatori di S. Tommaso, Milano, Bocca, 1944; C. Vasoli, Il pensiero politico della scolastica, in “Storia delle idee politiche, economiche e sociali”, diretta da L. Firpo, Torino, Utet, 1983.

[30] D. Bañez, In IIam-IIae, q. 64, a. 3, concl. 1, Opera, Salamanca, 1584-1612; R. Bellarmino, De jure et justitia, Liegi, 1746-51, dissert. X, a.2, ad 3um; F. Suarez, Defensio fidei, lib. VI, cap IV, §15, Colonia, 1614.

[31] Il Principe cristiano, Siena, Cantagalli, 2 voll., 1978.

[32] A. Possevino, Iudicium… Ioannis Bodini, Philippi Mornaei et Nicolai Machiavelli quibusdam scriptis, Lione, 1594, p. 209.

[33] F. de Vitoria, De potestate civili, p. 177; R. Bellarmino, De membris Ecclesiae, III, p. 10; F. Suarez, De legibus ac de legislatore, I, pp. 165-166.

[34] La dottrina politica tomistica e della seconda e terza scolastica è stata ripresa costantemente dal Magistero della Chiesa a partire da Gregorio XVI (Enciclica Mirari vos, 1832) nella condanna del cattolicesimo liberale sino a Pio XII, che nel - 1941 - scriveva: “Dalla forma data alla Società, a seconda che sia in accordo o no con le Leggi divine, dipende il bene o il male delle anime. Dinanzi a questa considerazione e previsione, come potrebbe essere lecito per la Chiesa […] rimanere spettatrice indifferente davanti ai pericoli a cui vanno incontro i suoi figli, tacere o fingere di non vedere situazioni che […] rendono difficile o praticamente impossibile una condotta di vita cristiana?” (Pio XII, Radiomessaggio La solennità, Pentecoste 1941).

[35] F. de Vitoria, De potestate civili, p. 117; R. Bellarmino, De membris Eccclesiae, III, p. 6 e 9; F. Suarez, De legibus ac de legislatore, I, p. 165; L. Molina, De justitia et de jure libri sex, p. 1075.

[36] De Regimine principum, lib. I, cap. 1.

[37] De Indiis recenter inventis, in Relectiones, cit., p. 292.

[38] S. Th., I, q. 1, a. 8, ad 2.

[39] Aristotele, circa 300 anni prima di Cristo, scriveva a proposito di coloro che negano l’evidenza: “Eraclito dice di negare il principio di non contraddizione, ma allora perché va a Megara e non se ne sta tranquillo a casa pensando di camminare? E perché non si getta nel pozzo, ma si guarda bene dal farlo proprio come se pensasse che cadere non è lo stesso che non cadere?” (Metafisica, IV, 4, 1008 b). Onde “lo scettico coerente dovrebbe chiudersi nel mutismo assoluto, perché parlare vuol dire avere ed esprimere certezze. Quindi Cratilo finì col tacere e muoveva solamente il dito” (Aristotele, Metafisica, IV, 5, 1010 a). In breve ogni uomo fuori della discussione filosofica è immancabilmente realista e per l’idealista nell’atto di filosofare vale sempre ciò che scriveva Aristotele riguardo ai sofisti del suo tempo: “non si crede a tutto ciò che si dice” (Metafisica, IV, 3, 1005 b). Infatti lo scettico Pirrone “per coerenza si sforzava di non badare ai precipizi, ma, assalito da un cane, si impaurì, ben distinguendo un cane da un agnello” (Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, IX, 2). Poi Aristotele concludeva: “È ridicolo andare in cerca di ragioni contro chi, rifiutando il valore della ragione, non vuol ragionare” (Aristotele, Metafisica, IV, 4).


 
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