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La Santa Sede e il Sionismo da Pio X a Benedetto XV
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La politica vaticana in Palestina con Benedetto XV

Gli storici - nell’affrontare la “questione sionista/palestinese” durante il pontificato di Benedetto XV - si interrogano innanzitutto, se sia corretto parlare in senso stretto di una vera e propria nascita, durante quel periodo, della politica della Santa Sede verso la Palestina. Infatti, è evidente che, in senso largo, la Sede apostolica ha sempre avuto una sua politica nei confronti della Terra Santa (che è la Terra di Gesù e degli Apostoli), sin dalla Pentecoste (anno 33) e dall’abbandono della Palestina da parte degli Apostoli per andare a evangelizzare il mondo intero, dopo il martirio dell’Apostolo San Giacomo il Maggiore (nel 42 in Gerusalemme) e, soprattutto, dopo quella di San Giacomo il Minore nel 62. Questa sarebbe, in senso largo, l’antica questione vaticana riguardo ai Luoghi Santi.

Da Herzl alla “Grande Guerra”

Tuttavia a partire dalla fine del XIX secolo (1896, la nascita ufficiale del sionismo di Teodoro Herzl) e con i primi decenni del XX  (la fine della prima guerra mondiale e il crollo, nel 1917, dell’Impero ottomano che governava la Palestina da svariati secoli, rimpiazzato allora dalla Gran Bretagna) si può parlare in senso stretto “di una politica vaticana, nella Terra Santa e nelle zone limitrofe, talmente nuova - date le pressanti sfide che si profilarono allora nell’area medio/orientale e i radicali sconvolgimenti geopolitici di quegli anni - da far ritenere che si possa parlare strettamente di una vera e propria rinascita o sostanziale rifondazione della politica del Vaticano in Terra Santa” (Paolo  Zanini, Nascita della politica vaticana verso la Palestina e i luoghi  santi, in Alberto Melloni – diretto da – Benedetto XV. Papa Giacomo Della Chiesa nel mondo dell’inutile strage, Bologna, Il Mulino, 2017, 2° vol., p. 514). Questa sarebbe, in senso stretto, la moderna questione vaticano/palestinese.

Si può quindi asserire che con Benedetto XV nasce la vera e propria politica vaticana, nel senso stretto del termine, nei confronti dei Luoghi Santi e della Palestina, che venivano interessati allora dal nuovo sorgere del sionismo (specialmente dopo il 2 novembre 1917 con la “Dichiarazione Balfour”), esportato in Terra Santa in maniera sempre più crescente e preoccupante soprattutto dalla Gran Bretagna.

Occorre specificare che la Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917) con cui la gran Bretagna concedeva un “Focolare nazionale” agli ebrei in Palestina fu preceduta da alcuni colloqui, nella primavera del 1917 a Roma, tra Nahum Sokolow (uno dei principali dirigenti del movimento sionista), il cardinal Pietro Gasparri e Benedetto XV, che non dettero nessun risultato mentre la Dichiarazione del 2 novembre 1917 peggiorò notevolmente i rapporti tra Santa Sede e sionismo. Infine la rivoluzione bolscevica scoppiata in Russia nell’ottobre del 1917, in cui la preponderanza ebraica fu notevole (cfr. A. Solgenitsin, Due secoli insieme. I vol., Ebrei e Russi prima della Rivoluzione; II vol., Ebrei e Russi durante il periodo sovietico, Napoli, Controcorrente, 2007) inasprì ancor di più l’attitudine pratica e diplomatica del Vaticano nei confronti del giudaismo internazionale e nazionale.

Tale politica vaticana era portata avanti da Benedetto XV alla luce della teologia tradizionale della sostituzione della sinagoga del Vecchio Patto da parte della Chiesa di Cristo della Nuova Alleanza, che reggeva - sin da Gesù - i rapporti tra Cristianesimo e Giudaismo talmudico o postbiblico, la quale a partire dalla Dichiarazione Nostra aetate (28 ottobre 1965) del Concilio Vaticano II e del discorso di Giovanni Paolo II a Magonza nel 1980 (“L’Antica Alleanza mai revocata”) è mutata sostanzialmente in maniera giudaizzante ed ha portato al riconoscimento politico da parte di Giovanni Paolo II dello Stato d’Israele nel 1993, che già San Pio X aveva bocciato dicendo a Teodoro Herzl nel 1904: “Gli ebrei non hanno voluto riconoscere Gesù, io non posso riconoscere lo Stato degli ebrei” (cfr. S. Minerbi, Il Vaticano, la Terra Santa e il sionismo, Milano, 1988, pp. 145-153). Benedetto XV continuò la politica antisionista di Pio X, come pure fecero Pio XI (1922-1939) e Pio XII (1939-1958). Purtroppo la teologia dei rapporti tra Cristianesimo ed Ebraismo iniziò a mutare con Giovanni XXIII e pian piano, tramite la “nuova teologia” del Vaticano II, si arrivò al riconoscimento dello Stato d’Israele nel 1993, ossia al ribaltamento della teoria dogmatica e della pratica diplomatica del Vaticano per rapporto al giudaismo e a Israele.

Anche in questioni politiche e teologiche, riguardanti il sionismo e il giudaismo, non vi è la minima opposizione tra papa Della Chiesa e papa Sarto; come invece monsignor Umberto Benigni si ostinava a voler vedere, accusando Benedetto XV di liberalismo teologico e politico/diplomatico. Nel corso di quest’articolo vedremo come questo asserto sia totalmente privo di fondamento nella realtà.

Dal 70 (Tito e il Tempio) al 1917 (Balfour)

Dopo la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio da parte di Tito (anno 70 d. C.) e quella della intera Palestina con Adriano (135 d. C.), i Giudei furono espulsi dalla Terra Santa e non potevano rimettervi piede (anche se convertiti al Cristianesimo) sotto pena di morte. Con la conversione dell’Imperatore Costantino e di sua madre Elena al Vangelo (inizio del IV secolo), i Cristiani (di origine etnica pagana) si stanziarono in Palestina, la rifondarono, la riedificarono e la governarono fino alla nascita dell’Islam e alla conquista dei Luoghi Santi da parte dei musulmani (VII/VIII secolo). A partire dall’ottavo secolo i Cristiani restarono in Palestina (come minoranza) abbastanza ben tollerati dai maomettani arabi sino all’XI secolo, in seguito, però, furono discriminati dai musulmani ottomani o turchi (XII/XX secolo). Tranne il breve spazio della riconquista di Gerusalemme e della Palestina da parte cristiana, la situazione trascorse pressappoco così sino al 1917. Tuttavia “la S. Sede nel corso dell’Ottocento, accanto all’attivismo politico/religioso delle potenze europee, riprese più volte l’iniziativa, nel tentativo di puntellare una presenza cattolica che appariva insidiata in Palestina dal crescente afflusso dei russi ortodossi e dal dinamismo protestante britannico” (P. Zanini, Nascita della politica vaticana, cit., p. 515), che divenne il trampolino di lancio del sionismo e dello Stato israeliano.

La Dichiarazione Balfour

La Dichiarazione che l’allora Ministro degli Esteri britannico lord Arthur Balfour  rilasciò al Presidente della Federazione Sionistica Britannica lord Lionel Walter Rothschild (2 novembre 1917), durante il governo inglese guidato dall’israelita/britannico lord Benjamin Disraeli (1804-1881), con cui si concedeva la “creazione” (non la “ricostruzione”, come avevano chiesto i sionisti) di un “focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina”, fu ottenuta dall’abilità di Weizmann. Vediamo come.

Herzl morì a soli 44 anni nel 1904. Nel 1905, al 7° Congresso Sionista di Basilea, con Weizmann il movimento sionista optò per il ritorno nella Palestina, in cui la finanza ebraica, con lungimiranza impressionante, aveva già comperato molte terre senza dare troppo nell’occhio.

Comprensibilmente nessuno (tra i britannici e i sionisti) voleva dire chiaramente cosa pensasse del “problema arabo”, anche se il 92% della popolazione palestinese era di etnia araba e ciò avrebbe creato un problema alla futura fondazione di uno Stato ebraico in Palestina, che, come abbiamo detto, al 92% era… araba (di confessione soprattutto islamica e poi, anche se minoritaria, cristiana) e si sarebbe ritrovata dominata da uno Stato … ebraico (cfr. A. Marzano, Storia dei sionismi, Roma, Carocci, 2017, p. 85). Gli arabi nel testo della Dichiarazione Balfour non venivano neppure nominati; tuttavia successivamente furono ritenuti titolari di diritti civili e religiosi, ma non nazionali (cfr. A. Marzano, cit., p. 85), come invece era avvenuto per gli ebrei. Oggi su 11 milioni di abitanti che vivono in Palestina, circa 6 milioni sono palestinesi e circa 5 milioni ebrei, ma la terra appartiene all’80% agli ebrei e al solo 20% ai palestinesi, che continuano ad essere un “popolo senza uno Stato” (cfr. X. Baron, I Palestinesi. Genesi di una nazione, Milano, Baldini & Castoldi, 2002).

Protestantesimo britannico filosionista

I protestanti inglesi nell’Ottocento avevano lanciato l’idea del ritorno degli ebrei in Palestina in vista della loro conversione (cfr. A. Marzano, cit., p. 75). Essi avevano incrementato i pellegrinaggi in Palestina e la loro percezione del problema dei luoghi della Terra Santa si faceva sempre più favorevole ad un ritorno degli ebrei in Palestina. Invece l’opinione dei cattolici e specialmente della Santa sede sotto Benedetto XV era molto diversa poiché essi temevano che tale ritorno potesse dare una preponderanza al mondo ebraico in Terra Santa a scapito dei cristiani e degli arabi nativi, che da centinaia di anni abitavano in Palestina e ne formavano il 92% della popolazione.

“Fu soprattutto la Gran Bretagna ad ospitare associazioni che spingevano per un ritorno degli ebrei nella Terra d’Israele” (A. Marzano, cit., p. 76) ed in cambio della sua politica sionista il 24 luglio 1922 l’Inghilterra ottenne il Protettorato sulla Palestina dalle Nazioni Unite.

Tuttavia, occorre specificare che l’Inghilterra come Nazione sposò l’idea sionista soprattutto per motivi politico/economici: il Mediterraneo, con il Canale di Suez, era ritenuto dal Regno Unito una delle zone più strategiche per il suo Impero dal punto di vista militare e commerciale e di conseguenza la Palestina (assieme all’Egitto) era una delle regioni da tenere particolarmente sotto controllo, in vista della rotta delle navi commerciali inglesi verso l’India. “Proprio dall’intreccio di questi elementi sarebbe progressivamente nato il sodalizio tra governo britannico e movimento sionista, concretizzatosi con la Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917” (A. Marzano, cit., p. 76).

Inoltre Londra mirava, grazie all’appoggio della Comunità ebraica statunitense, a spingere gli Usa a partecipare alla Prima Guerra Mondiale con uno maggiore dispiego di capitali e di forze belliche (cfr. A. Marzano, cit., p. 83). Infine voleva anticipare la Germania che avrebbe potuto fare per prima la mossa filosionista, essendo nato e vissuto - il sionismo - in ambiente germanico (Basilea, Vienna, Colonia e Berlino) prima di trasferirsi in Inghilterra con Chaim Weizmann, ed avrebbe ottenuto essa l’appoggio della potente Comunità ebraica, ribaltando probabilmente, così, le sorti della Grande Guerra.

Il diplomatico britannico Mark Sykes diceva allora pubblicamente che “se l’ebraismo influente si fosse schierato contro l’Inghilterra, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di vincere la guerra” (A. Marzano, cit., p. 82; cfr. E. Rogan, La Grande Guerra nel Medio Oriente, Milano, Bompiani, 2016).  Lord Lloyd George riteneva “necessario fare un contratto con l’ebraismo vista la vasta influenza internazionale esercitata dal popolo ebraico” (A. Marzano, ivi).

In breve Londra appoggiava il ritorno degli ebrei in Terra Santa e il mondo ebraico, in cambio, le dava delle garanzie circa 1°) l’entrata (che sarebbe stata decisiva) degli Usa nella prima guerra mondiale e 2°) la presenza britannica nell’area palestinese/egiziana, che era osteggiata allora dalla Francia, la quale avrebbe potuto mettere in pericolo il primato del commercio britannico qualora si fosse impadronita dell’area palestinese.

Il colonnello Charles Henry Churchill nel suo libro Mount Lebanon del 1853 aveva già sostenuto il ruolo fondamentale dell’ebraismo internazionale per permettere all’Inghilterra di impossessarsi, a scapito della Francia, della Palestina. Egli “fu dunque in qualche modo il primo a teorizzare la nascita di uno Stato ebraico, anticipando di 50 anni il sionismo politico” (A. Marzano, cit., p. 77; cfr. G. Bensoussan, Il sionismo, Torino, Einaudi, 2007; D. Bidussa, Il sionismo politico, Milano, Unicopli, 1993).

Nel 1869 venne aperto il Canale di Suez e ciò rese l’area egiziano/palestinese ancora più appetibile per la Gran Bretagna, la quale temeva la potenza francese che era già presente in maniera preponderante in Egitto. Sennonché quando nel 1876 il governo egiziano dichiarò il fallimento e mise in vendita la Compagnia del Canale di Suez, il governo inglese comprò immediatamente, grazie ad un prestito della Banca Rothschild, il 44% delle azioni della Compagnia per 4 milioni di sterline (cfr. A. Marzano, cit., p. 79). Fu così che l’Inghilterra pian piano entrò sempre di più in Egitto, arrivando ad occuparlo nel 1882 e ad averne il Protettorato nel 1914. A partire da ciò l’idea di assorbire la Palestina nella propria orbita divenne sempre più forte e con essa il legame col sionismo. Di qui la Dichiarazione Balfour del 1917, poi la concessione del Mandato alla Gran Bretagna sulla Palestina da parte della Società delle Nazioni nel 1922, che infine porteranno nel 1948 alla creazione dello Stato d’Israele (cfr. I. Pappé, Storia della Palestina moderna, Torino, Einaudi, 2005).

Arturo Marzano scrive che la Dichiarazione Balfour piccolissima nella mole (una decina di righe) ha avuto delle conseguenze grandissime nella storia di un’intera area e di due popoli (cit., p. 86) e si potrebbe aggiungere, senza tema di errare, del mondo intero. Infatti si può dire tranquillamente che le conseguenze della Dichiarazione Balfour si fanno sentire ancora oggi anche a livello mondiale, poiché è anche dalla crisi palestinese/israeliana che sono nate le due guerre statunitensi contro l’Iraq di Saddam (1990/2003) sino all’attuale guerra contro la Siria di Assad (2011-2020).

Da Balfour ai giorni nostri

Si potrebbe pensare, ma a torto, che la disfatta della Turchia nel 1917 avesse acceso nuove speranze nell’ambiente politico vaticano riguardo alla Palestina. Invece il dominio protestante britannico nella Terra Santa preoccupò e non poco Benedetto XV e la sua Curia diretta dal cardinal Pietro Gasparri, i quali avevano ben intuito la piega filo/sionista che avrebbe preso - dopo la prima guerra mondiale - la nuova politica britannica in Palestina (v. la “Dichiarazione Balfour” del 2 novembre 1917), la quale avrebbe portato - dopo la seconda guerra mondiale - alla fondazione dello Stato d’Israele (15 maggio 1948), che avrebbe rappresentato la minaccia più grave per la pace nel mondo dopo il conflitto mondiale terminato nel 1945, come aveva previsto già Pio XII nelle sue tre Encicliche sulla Palestina del 1948/49 (Auspicia quaedam, In multiplicibus, Redemptoris nostri).

Alla Santa Sede (da Pio X sino a Pio XII) non sfuggì per nulla la portata apocalittica e anticristica della grande guerra (1914/1918), della seconda guerra mondiale (19139/1945) e soprattutto della fondazione dello Stato d’Israele (1948), che ha manovrato e spinto costantemente gli Usa verso una politica aggressivamente mondialistica.

Benedetto XV e il sionismo

Tornando a Benedetto XV, Paolo Zanini (cit., p. 516), ci spiega come il Vaticano non poteva non restare scettico di fronte alla nuova situazione geopolitica palestinese del 1917. Infatti “nessuna delle tre principali potenze dell’Intesa (Inghilterra, Italia e Francia) offriva soverchie garanzie da un punto di vista cattolico” (Ivi). La prima era protestante, le altre due pur essendo nominalmente ancora cattoliche non avevano relazioni diplomatiche con la Santa Sede ed erano dirette da governi laicisti e massonici (cfr. D. Fabrizio, La questione dei Luoghi Santi e l’assetto della Palestina, 1914-1922, Milano, 2000; S. Minerbi, Il Vaticano, la Terra Santa e il sionismo, Milano, 1988; S. Ferrari, Vaticano e Israele dal secondo conflitto mondiale alla guerra del Golfo, Firenze, 1991).

La Santa Sede manifestò, durante il pontificato di Benedetto XV, tutto il suo disappunto sia per il mandato conferito all’Inghilterra, sia per la “Dichiarazione Balfour”. Lo Zanin chiosa: “La seconda parte del pontificato di Benedetto XV (1919-1922) vide una crescente opposizione vaticana al conferimento del mandato sulla Palestina alla Gran Bretagna” (cit., p. 517, cfr. anche A. Giovannelli, La Santa Sede e la Palestina, Roma, 2000).

A partire da tutto questo si vede come le accuse di liberalismo o di modernismo, mosse a papa Della Chiesa, siano totalmente prive di  fondamento, a meno di non voler scambiare le calunnie per prove certe.

Paolo Zanini spiega inoltre che “nel corso del 1919, l’anziano patriarca di Gerusalemme, monsignor Camassei, elevato alla porpora cardinalizia, lasciò la regione e fu sostituito dal suo vescovo ausiliare Luigi Barlassina. Il nuovo patriarca di Gerusalemme presentò a Roma il sionismo come un pericolo per la sopravvivenza stessa del cattolicesimo in Palestina. […]. A questo proposito è bene ricordare come quasi tutti gli esponenti cattolici in Medio Oriente guardassero con preoccupazione alle realizzazioni del movimento nazionale ebraico” (cit., p. 518).

Le posizioni antisioniste di monsignor Barlassina erano molto ascoltate in Segreteria di Stato e anche dal cardinal Gasparri, che le presentava regolarmente al Pontefice (cfr. P. Pieraccini, Il patriarcato latino di Gerusalemme, 1918-1940. Ritratto di un patriarca scomodo: monsignor Luigi Barlassina, in “Il Politico”, n. 63 / 2 e 4, 1998, pp. 207-256 e 591-639). Il sionismo sin dal suo primo apparire sulla scena internazionale al congresso di Basilea del 1897 aveva suscitato lo sconcerto negli ambienti cattolici, che erano assai preoccupati per la sorte dei Luoghi Santi in una eventuale preponderanza ebraica in Palestina (cfr. R. Ballerini, La dispersione d’Israello pel mondo moderno, in “La Civiltà Cattolica”, n. 48 / 2, 1897, pp. 257-271).

Lo Zanini conclude scrivendo che “tra il 1919 e il 1922 la Santa sede finì per essere percepita come uno dei principali avversari del mandato inglese e soprattutto del sionismo. Si trattò di una opposizione che, pur avendo in Gasparri il suo principale rappresentante, coinvolse attivamente lo stesso Benedetto XV […], né si deve pensare che una volta scomparso il Pontefice, nel gennaio 1922, la politica vaticana mutasse. Venute meno le speranze sioniste di veder sostituito Gasparri con Cerretti, giudicato meno ostile, la linea romana sulla questione palestinese rimase inalterata” (cit., p. 520; cfr. anche P. Pieraccini, La Custodia di Terra Santa, il sionismo e lo Stato d’Israele, 1897-1951, in “Studi francescani”, n. 110, 3 / 4, 2013, pp. 385 ss.). In breve da Pio X a Benedetto XV sino a Pio XI e XII la politica vaticana verso Israele, ispirata dalla teologia della sostituzione, rimase inalterata e non conobbe nessun addolcimento liberaleggiante.

Lo Zanini spiega pure che l’ostilità del Vaticano sotto Benedetto XV verso il sionismo portò la Santa Sede a difendere i diritti delle popolazioni palestinesi autoctone, menomate già inizialmente dalla immigrazione ebraica e ad aiutare le associazioni palestinesi islamo/cristiane. Infatti “nel novembre del 1918 sorsero in Palestina circoli politici apertamente antisionisti, dove i cristiani e soprattutto i cattolici erano inizialmente sovra/rappresentati e svolsero un ruolo molto importante nella formazione del Movimento Nazionale Arabo/Palestinese” (P. Zanini, cit., p. 520, cfr. S. Minerbi, Il Vaticano, cit., pp. 182-185, A. Kreutz, Vatican Policy on the Palestinian-Israeli Conflict, Londra – New York – Westport, 1990, p. 39).

Conclusione

Paolo Zanini chiude il suo istruttivo saggio scrivendo: “Da quanto esposto appare chiaro come il pontificato di Benedetto XV abbia rappresentato uno snodo decisivo nel ridefinire la politica vaticana verso la Terra Santa. Si potrebbe anzi dire che […] i cambiamenti provocati dalla Prima Guerra Mondiale trasformarono l’antica questione dei Luoghi Santi nella moderna questione della Palestina, una vicenda politica segnata prima dalla crescente contrapposizione tra il sionismo e il movimento nazionale arabo/palestinese; mentre - dopo il 1948 - tra lo Stato d’Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. […]. Appare altresì evidente come l’inizio di una precisa politica nei confronti delle comunità cattoliche di Palestina va ricercato proprio in quell’epoca [di Benedetto XV, ndr]. L’epoca di papa Della Chiesa vide l’emergere di un’ulteriore istanza vaticana nella regione, destinata a durare a lungo: la richiesta di forme d’internazionalizzazione per le aree di Palestina [negata nel 2019 dal Presidente statunitense Donald Trump, che ha consegnato unilateralmente Gerusalemme allo Stato d’Israele, ndr] ove erano concentrati i Luoghi Santi. […]. Questi pochi esempi bastano a richiamare la centralità del primo dopoguerra e dell’azione di Benedetto XV e Gasparri nella definizione di una politica vaticana in Medio Oriente, che aveva come principali obiettivi l’istituzione di una zona internazionale e la difesa della presenza cristiana e dei Luoghi Santi, e che risentiva di diffusi timori nei confronti dei progetti sionisti, e in séguito israeliani, e di una benevola comprensione per le istanze nazionali palestinesi [delle quali oggi quasi tutti si son dimenticati, ndr]” (cit., pp. 521-522).

Cronologia schematica del sionismo:

1854 - Moses Montefiore fonda a Gerusalemme l’Ospedale ebraico.

1861 - Edificazione del primo quartiere ebraico fuori Gerusalemme.

1862 - Moses Hess pubblica in Germania il libro Roma e Gerusalemme, nel quale propugna un Risorgimento nazionale ebraico.

1882 - Leon Pinkser pubblica a Berlino il libro Auto-emancipazione, nel quale propone una Rinascita nazionale ebraica, come soluzione dell’antisemitismo.

1883 - Ha inizio la prima “ondata di immigrazione” ebraica (Aliah) , dalla Russia, Romania e Yemen.

1894 - Il processo Dreyfus a Parigi, induce Teodoro Herzl a concepire un sionismo politico, che offra una soluzione concreta e pratica della questione ebraica.

1896 - Herzl pubblica a Vienna der Judenstaat (Lo Stato ebraico).

1897 - Nasce l’«Organizzazione Sionistica Mondiale» che, nel Primo Congresso Sionista, a Basilea, decide di “creare per il popolo ebraico una patria legalmente garantita, in Palestina”.

1904 - La seconda Aliah, da Russia e Polonia.

1909 - Nasce il primo kibbutz, Degania, e Tel Aviv, prima moderna città ebraica.

1914 - Inizia la Prima Guerra Mondiale, l’Inghilterra dichiara guerra all’Impero Ottomano. I turchi espellono circa 20.000 ebrei dalla Palestina. Si forma un corpo di soldati ebrei di Palestina che combatte con l’Inghilterra contro i turchi.

1917 - La Dichiarazione Balfour promette la formazione di un “focolare nazionale ebraico in Palestina”. L’Inghilterra conquista Gerusalemme, dopo 400 anni di dominio turco-ottomano.

1919 - La terza Aliah, principalmente dalla Polonia.

1920 - Nasce la Haganah, organizzazione di autodifesa ebraica.

1922 - La Società delle Nazioni fa propria la dichiarazione Balfour e da incarico alla Gran Bretagna di “facilitare l’immigrazione e l’insediamento degli ebrei in Palestina”.

1924 - La quarta Aliah, specialmente dalla Polonia.

1925 - Nasce l’Università Ebraica di Gerusalemme.

1933 - La quinta Aliah soprattutto dalla Germania. Circa 250.000 ebrei emigrano dalla Germania nazionalsocialista dal 1933 al 1939.

1939 - Il “Libro Bianco” britannico limita l’immigrazione ebraica, che era invece favorita dalla Germania hitleriana.

1947 - Con 33 sì, 13 no e 10 astenuti, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, decreta la spartizione della Palestina e la nascita di due Stati indipendenti, ebraico e arabo. Tale piano viene respinto dagli arabi.

1948 - Allo scadere del Mandato britannico, dichiarazione di indipendenza dello “Stato d’Israele”.

d. Curzio Nitoglia

Fine Della Quattordicesima Parte

Continua


 
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