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A che servono i parlamentari
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Mentre i parlamentari difendono con le unghie e coi denti i loro emolumenti dando di sè uno spettacolo ulteriormente ripugnante, il dibattito pubblico su questo argomento condotto sui giornali, talk-show e radio-show rivela un bassissimo livello di cultura giuridica e politica, oltrechè di pura e semplice cultura generale e rispetto per la logica. In tutti: parlamentari e no, giornalisti, gente «contro» i super-emolumenti e gente «a favore».

La più comica delle affermazioni che ho ascoltato (spesso ripetuta anche dai giornalisti di Radio 24, la radio di Confindustria) suona pressappoco così: «I compensi alti sono la condizione per avere dei rappresentanti del popolo di alto livello».

Ora, la realtà che abbiamo sotto gli occhi è la smentita vivente e stridente a questa affermazione. Abbiamo sotto gli occhi due camere che l’altissimo emolumento ha affollato di individui di bassissimo livello: morale e civile, intellettuale e culturale. Una classe politica formata nei casi migliori da nullità e yes-men, ma in cui sono in maggioranza puttane (scelte dal Cavaliere) soubrettes, neo-neanderthaliani, falliti nella professione, viziosi, contigui alla criminalità mafiosa, insomma gente sospetta di ogni tipo. È questa la «miglior classe politica che il denaro può comprare»?

Basta sentire per due minuti Scilipoti. O il pesante dialetto di La Russa, che dopo 60 anni di vita a Milano ancora non ha perso l’accento di Paternò. Basta indovinare per quali alte qualità sono state scelte dal Cavaliere la Carfagna e la Brambilla. Basta guardare il faccione eternamente paonazzo (che cos’ha?) e col ghigno stampato di un Calderoli; sentirlo profferire la sua quotidiana cretinaggine che lui crede provocatoria: l’ultima, ha accusato Monti di aver tenuto una cena di Capodanno a Palazzo Chigi, insinuando a spese del contribuente: dopo aver fatto parte del precedente governo, che della presidenza del Consiglio ha raddoppiato le spese, facendone un superministero che costa – tenetevi forte – 477 milioni di euro annui. Ovvio che in queste mega-spese sono compresi il (legittimo) appartamento residenziale per il capo del governo del momento, a palazzo Chigi, con mobili di grande pregio, una mezza dozzina di persone di servizio, e la possibilità di invitare a cene. Calderoli non lo sa?

Oltretutto, è quel Calderoli che ha usato un Boeing di Stato per andare a trovare il figlio della sua amante a Cuneo, un pò malato. È stupido? O forse crede che i suoi elettori siano stupidi, tanto da credere a quello che dice lui? In ogni caso, come cittadini c’è da vergognarsi. E da chiedersi se proprio gli altissimi emolumenti abbiano attratto ogni sorta di coglioni, mascalzoni, nani e ballerine, e questo tipo così pecuiare dello stupido-furbo. In una concentrazione superiore a quella della società generale.

L’altra battuta che rivaleggia per comicità l’ho sentita ripetere da Casini, ma anche da altri parlamentari: «Se si abbassa lemolumento, allora soltanto i ricchi potranno dedicarsi alla politica, farsi eleggere come deputati e senatori».

Perchè naturalmente oggi – come ognuno può vedere – le Camere sono piene di metalmeccanici, coldiretti e mezzadri, pensionati minimi, braccianti e muratori che portano al dibattito civile il contributo della loro dura esperienza di vita, grazie alla dignitosa paga che ricevono come parlamentari, sapendo che finito il mandato torneranno alla vanga, all’altoforno e al cantiere. È solo per una strana, inspiegabile illusione ottica che il Parlamento ci sembra strapieno di avvocati, magistrati, mignotte di lusso, commercialisti, funzionari di partito dalla nascita, baroni universitari, dirigenti sindacali, dirigenti pubblici (con pensione stratosferica cumulabile) giornalisti, oltrechè gente che non ha mai fatto altro che «politica» e non sa fare altro – a cominciare dal quel presidente della Camera, subacqueo appassionato (è alle Maldive mentre scrivo) che ha rubato una casa a Montecarlo legata al suo partito e ci ha messo il cognato. O come il Casini stesso, miliardario per matrimonio con figlia di palazzinaro-banchiere. Alle Maldive anche lui. Al riparo dalle ispezioni Equitalia.

No, no, guardate meglio. È un parlamento proletario quello che noi contribuenti rendiamo possibile con gli altissimi emolumenti che paghiamo; se li abbassassimo, avremmo della Camere riempite di signorini dalle mani vellutate, latifondisti, elegantoni, duchi e marchesi.

Dai giornalisti nemici degli emolumenti, tipo Stella e Rizzo, ho sentito fare anche questa proposta: collegare gli emolumenti alla «produttività» dei parlamentari. In altre parole, punire quelli che si assentano per troppe giornate dai lavori parlamentari, detraendo qualcosa dall’emolumento per ogni giorno di assenza. Dio ci scampi: come si fa a non capire che più sono presenti, più lavorano, e più i parlamentari fanno danno? Specie nei continui lavori delle Commissioni dove – sottratti allo sguardo dell’opinione pubblica – sfornano infaticabilmente migliaia di leggi e leggine ogni anno, per lo più destinate a favorire qualche lobby anche minima, parassita o cosca locale, fomite e fonte degli aumenti più incontrollati di spesa pubblica.

Una seria riforma del Parlamento dovrebbe cominciare con lo scoraggiare, e punire, l’eccesso di presenzialismo. Le Camere in seduta permanente si giustificano solo se si tratta di sventare un colpo di Stato. Come mi è capitato di ricordare altre volte, il parlamento federale svizzero si riunisce solo due mesi l’anno, uno in primavera e uno in autunno – tanto basta per controllare e discutere le decisioni del governo. Pare che la cosa non funzioni male, nella Elvetica Confederatio.

Non inferiore per vis comica è l’argomento che usano in massa i parlamentari – capeggiati da Gianfranco Fini da Montecarlo-Maldive per opporsi al taglio delle loro super-rendite: l’argomento della «sovranità». Dicono: il governo non può tagliarci gli emolumenti, perchè noi non siamo dipendenti pubblici. Siamo «Sovrani». Se c’è da tagliare, lo facciamo noi, perchè solo noi lo possiamo fare.

È un parlamento che ha gettato nel cesso la sovranità popolare – che esercita per delega – moltissime volte: dalle cessioni di sovranità all’Unione Europea e per la precisione alla Commissione non-eletta fino all’ultima, la «fiducia» che hanno votato in gran bi-partisanship al governo Monti, che è il governo del presidente Napolitano (l’altro proletario in politica). Ma evidentemente, a costoro è rimasta tanta sovranità quanto basta per una sola cosa: difendere con le unghie e coi denti le loro rendite, con annessi e connessi. Il fatto che abbiano persino parlato di «diritti acquisiti» a proposito dei 16 mila mensili che prendono, suggerisce che – quando fa loro comodo – si considerano dipendenti statali.

Ed è questo il punto. Nelle interviste e nei talk show a cui partecipano con smodata voluttà, appare chiaro che i parlamentari si considerano dei professionisti, interpretano la loro carica come un mestiere qualificato; si vede che si ritengono degli «esperti» di qualche tipo, che svolgono un «lavoro» meritorio e – persino, dicono – sgobbano duro. Il mestiere che s’immaginano di svolgere dev’essere di tipo dirigenziale, perchè ho sentito Alessandra Mussolini dire, a difesa dei grassi emolumenti: «Il parlamentare ha diritto a un certo status...».

È singolare che mai nessuno, nemmeno i giornalisti che documentano i costi e la corruzione delle caste, ribattano e smentiscano i parlamentari su questo punto. Una stranezza, che rileva quanto sia bassa la cultura politica (e la cultura tout court) degli uni e degli altri; fino a che punto si siano perse le nozioni fondamentali sulla funzione del Parlamento e dei parlamentari.

Ci si è completamente dimenticati che la funzione del deputato non è un mestiere. Lo ripeto qui in neretto:

Fare il parlamentare non è una professione

È un compito civico e civile temporaneo, che ogni cittadino – il che vuol dire: un cittadino qualunque – può essere chiamato ad assumersi dagli altri cittadini-elettori. Il deputato o senatore è un delegato dai cittadini a rappresentarli come esponente della cittadinanza. E deve viversi appunto come un delegato dei cittadini, per conto dei quali esercita un controllo sul potere, i suoi tecnici o ministri.

Se quello di parlamentare fosse un mestiere, sarebbero assunti per concorso pubblico, e dovrebbero superare degli esami (con effetti devastanti sull’attuale compagine parlamentare, composta per lo più da ignoranti come capre: vorrei vedere la Mussolini costretta a dimostrare la sua competenza in qualcosa. O Bossi).

Invece, guarda caso, i parlamentari non sono assunti. Sono votati dai cittadini a suffragio universale (sappiamo che ora non è così, che i parlamentari che abbiamo sul collo sono nominati dai capi-partito; ma io sto ricordando la normalità, non la patologia della democrazia). I titoli di studio, le competenze reali, possono entrare nel conto quando i cittadini li scelgono, ma possono anche non entrarci. Anni fa, ricordo, in Svizzera (scusate, parlo ancora della Svizzera) gli abitanti di non so quale cantone rurale votarono e mandarono in parlamento un allevatore. Analfabeta. Ma lo avevano giudicato un uomo pratico, con la testa sul collo, capace di promuovere i loro interessi come cittadini.

L’analfabetismo, ovviamente, non squalifica il prescelto dalla carica di parlamentare. Per legge, qualunque cittadino ha diritto ad essere votato, e la scelta dei cittadini è insindacabile e incondizionata, altrimenti la democrazia sarebbe violata. I dirigenti degli uffici del parlamento federale, senza fare una piega e senza sorrisini, mi spiegarono che a quel deputato inviavano i testi di legge, i disegni di legge, i resoconti ed ogni altro strumento necessario per svolgere il compito, in forma audio, su cassette registrate. In modo che lui potesse ascoltarseli, mentre si prendeva cura delle sue vacche nella stalla-modello, onde prepararsi alla prossima seduta del Parlamento. Un lavoraccio, ma alleviato dal fatto che le sedute del parlamento sono una al semestre.

È evidente lo sforzo delle istituzioni elvetiche di scongiurare la «professionalizzazione» dei deputati, e consentire agli eletti di non smettere la loro occupazione principale, quella da cui si guadagnano da vivere nel mondo reale (durante i due mesi di seduta, ricevono ovviamente un rimborso; i lavoratori dipendenti eletti hanno un diritto al distacco con mantenimento del posto, come da noi hanno i sindacalisti – quelli statali in distacco sindacale perenne).

Appare chiaro che la non-professionalizzazione è intesa come necessaria alla salvezza della democrazia, in uno Stato dove ha grande spazio la democrazia diretta – dove, in altre parole, la cittadinanza esercita frequentemente per referendum un’attività di controllo sullo stesso potere legislativo, ossia sui suoi deputati eletti, non di rado bocciandone le proposte.

Basta ricordare i recenti risultati di referendum: contro l’adesione della Svizzera alla UE, per il divieto della minoranza musulmana di costruire minareti a fianco delle loro moschee (cambierebbero il paesaggio alpino) per l’espulsione automatica dei criminali stranieri. Ed oggi pende un referendum contro «l’immigrazione di massa». Tutto così «politicamente scorretto», che i poteri forti (oligarchici, transnazionali) stanno agitando una campagna per limitare la democrazia diretta in Svizzera, accusandola di minacciare i diritti dell’uomo. Gli altri argomenti che vengono agitati sono i prevedibili: l’uomo della strada è troppo ignorante e irrazionale per impancarsi di temi complessi; la democrazia diretta che solleva tali temi-tabù, crea conflitti e disordine sociale.

Ancora più interessanti le repliche a questi argomenti. Il cittadino ha una conoscenza vissuta, esistenziale, dei problemi che lo riguardano, che solo con la democrazia diretta può far conoscere ed eventualmente prevalere.

Rifiutare ai cittadini la possibilità di modificare i testi sacri dei «diritti dell’uomo» equivale – udite udite – a «porre il giudice al disopra del cittadino», e in questo caso a giudici internazionali che si sono arrogati il potere di interpretare le dichiarazioni dei diritti dell’uomo, documenti vaghi «e dunque pericolosi per le libertà».

Infine, tenetevi forte: la libertà stessa posa sulla possibilità di conflitti. Soffocare i conflitti con una censura – tale è il divieto ai cittadini di trattare certi temi per referendum – non mantiene un ordine autentico, ma crea una frattura crescente fra Paese reale e Paese legale. La democrazia diretta porta alla luce i conflitti esistenti, ristabilisce la libertà d’espressione, restituisce legittimità al potere; soprattutto, «è un errore sottrarre la responsabilità ai cittadini. I cittadini possono anche prendere decisioni sbagliate, ma è politicamente essenziale che se ne vedano responsabili loro stessi, ne susbiscano le eventuali conseguenze negative», e non possano gettare la responsabilità su altri, «politici» o «tecnici». L’abitudine alla responsabilità li responsabilizza. La delega della responsabilità, specialmente se moltiplicata in strati come da noi (comuni, consigli di zona, provincie, regioni, comunità montane...) crea una cittadinanza de-responsabilizzata, ossia de-moralizzata, senza morale civica: questo sì un vero pericolo per l’ordine pubblico. («Défendre la démocratie directe / Sur quelques arguments antidémocratiques des élites suisses»)

Questo è il livello delle discussioni politiche in Svizzera. Ed è veramente strano, nonostante la vicinanza con il Paese, anche linguistica, che i nostri media non riportino mai nulla su quel che vi avviene. Stella e Rizzo, i due giornalisti che il pubblico ha reso miliardari acquistando in massa il loro libro sulla Casta, potrebbero fare un utile giro oltre Chiasso per constatare come mai in Svizzera non ci sono caste parassitarie del nostro tipo, quali istituzioni ne impediscono la crescita proliferante e cancerosa, come avviene il controllo dal basso sulla spesa pubblica; e magari come mai non ci sono scritte sui muri. Sarà perchè i cittadini hanno l’abitudine a considerarsi responsabili di ogni minimo bene pubblico, per il fatto che lo pagano con le tasse, e i vandalismi sono un costo che riguarda direttamente loro?

Da noi, ci dobbiamo contentare dei nostri dibattiti televisivi. Dove la Mussolini e altri suoi pari si atteggiano a professionisti, a competenti; e che difendono i loro emolumenti esattamente come i notai difendono i loro monopoli, i farmacisti i loro, i tassisti i loro. Con la differenza che tassisti e farmacisti non hanno la possibilità di disporre e decidere arbitrariamente l’entità delle loro prebende. I parlamentari sono gli unici «professionisti» che si possono aumentare lo stipendio e gli altri ammenicoli. Attraverso una legge, come sovrani. Senza che nessuno gli chieda: professionisti di che cosa? Esperti di che? Apparentemente, solo alcuni di loro sono esperti in talk show: i più non sono capaci nemmeno di partecipare a un dibattito pubblico, vedi Bossi, Calderoli, Berlusconi, e se ne astengono per non mostrare la loro nullità – o la caratteristica che solo nel parlamento italiano emerge come un dato antropologico premiato: il furbo-cretino.

Cos’altro? In genere, sono esperti in «lavori parlamentari», ossia nelle attività inutili e dannose che giustificano il loro proprio potere, e ostacolano la società a forza di lungaggini e procrastinazioni, doppie votazioni in Camera e Senato, «ritorni in Commissione» , mancanze «del numero legale» ed altri inghippi, per cui occorre veramente una certa «professionalità». Di cui tutta la cittadinanza farebbe a meno.

Oggi che questi «professionisti della politica» si sono autosospesi consegnando la sovranità che avevano per delega a un governo golpista, ma giustificato dall’emergenza (come tutti i golpe) e dall’insipienza inconcludente del parlamento e dei partiti (idem), potrebbero occupare il tempo che gli paghiamo così profumatamente in lavori parlamentari che restano loro da fare: prima fra tutte la riforma elettorale, l’eliminazione della porcata messa a punto dall’astuto-cretino Calderoli.

Non lo stanno facendo. I capi bastone non riescono a mettersi d’accordo sul sistema elettorale da adottare, per garantirsi l’eternità del loro potere, emolumento e ammenicoli intoccabili naturalmente inclusi. Come sempre, hanno preso la decisione di non fare nulla. Pende, è vero, un referendum d’iniziativa popolare che può obbligarli a fare la riforma; ma sono tranquilli, la Corte Costituzionale – riempita da pseudo-magistrati di nomina partitica, compari loro – ha già fatto capire che boccerà il referendum. Qui da noi, i giudici sono superiori alla cittadinanza elettrice. Mica siamo in Svizzera.


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